In mare aperto, non nel gorgo: una risposta a Pietro De Marco


viadelconcilio

Con un lungo testo, pubblicato oggi sul blog di S. Magister, Pietro de Marco ha presentato una “ermeneutica del Vaticano II” francamente inaccettabile. Ho letto con attenzione il suo testo e ora presento le mie obiezioni sostanziali, nella forma di una “lettera”. Infatti con Pietro mi lega una lunga amicizia, che è nata da Armido Rizzi, a Fiesole, dove circa 30 anni fa ci riunivamo con una certa regolarità, per la Redazione della rivista “Filosofia e Teologia”.  Poi con Pietro, qualche anno fa, abbiamo scritto un libro dialettico, nel quale, con una certa cortesia, presentavamo gli argomenti contro e a favore del Motu Proprio “Summorum Pontificum”. Con il pontificato di Francesco, come si legge anche in questo ultimo testo, la sua posizione mi sembra si sia come radicalizzata. Di questo sono dispiaciuto e cerco qui di portare le ragioni del mio più profondo dissenso. 

In mare aperto, non nel gorgo

Caro Pietro,

l’immagine del “grande gorgo”, il grande Maelstroem, descritto nel famoso racconto di E. A. Poe, campeggia come titolo nel tuo testo. Redazionalmente, S. Magister ne offre una versione “urbanizzata” con il titolo “Pro o contro il Concilio, la Chiesa nel vortice. Linee guida per una pacificazione”. Credo che già questa immagine forte contenga buona parte della tua tesi di fondo. Prima di procedere all’esame del tuo testo considero la sintesi che nei hai proposto all’inizio. I 4 punti che tu consideri “base comune” per una pacificazione sono per me tutti e quattro del tutto inaccettabili. Perché introducono, nella valutazione spassionata del Concilio, una “riserva antimodernistica” che mi sembra precisamente il punto di svolta del Concilio. Sarebbe un poco come se, nell’aprire un dibattito nel 1495, sulla “scoperta dell’America” qualcuno avesse posto, come condizione di intesa, che non vi era la possibilità che fosse stato scoperto alcun continente nuovo. A priori la tradizione doveva essere salvaguardata. Riporto qui di seguito i 4 “punti-chiave”, come tu stesso li hai formulati, e ad ognuno di essi faccio seguire una breve replica iniziale:

a) la rinuncia al pregiudizio discontinuista che impedisce (nei tradizionalisti come nei conciliaristi radicali) l’esame del “corpus” conciliare per ciò che esso è, genealogicamente e testualmente, e anzitutto come evento della Tradizione;

Un evento della tradizione include la riforma della tradizione. Per questo rinunciare a quello che tu chiami “pregiudizio discontinuista” mi sembra cadere nella impossibilità metodica di concepire una “ermeneutica della riforma”.

b) il riconoscimento di uno o più sottoinsiemi problematici nel “corpus” conciliare, che sembrano legittimare le opposte visioni del Concilio come frattura;

I sottoinsiemi problematici sembrano principi di “divisione” e perciò sembra che debbano essere messi da parte: questa era la “strategia” del “protocollo” sul Concilio elaborato dalla Commissione Ecclesia Dei per l’accordo con i lefebvriani: come modello, non mi pare il massimo!

c) il riconoscimento che il lavoro dei Padri e dei periti conciliari intese svolgersi in continuità sostanziale con l’ordine cattolico, istituzionale e dogmatico, ricostruito dopo la crisi modernistica;

Qui è evidente come tu tenti di comprendere il Concilio alla luce della teologia antimodernista degli anni 20-40, e non il contrario. Questo è, a mio avviso, un errore di metodo che paghi a caro prezzo;

d) la realtà, spesso diagnosticata dai critici tradizionali, di culture teologiche neo-modernistiche responsabili del travisamento dei testi conciliari, nelle diverse fasi del post-Concilio.

Ovviamente se si deve interpretare il Concilio alla luce dell’antimodernismo, tutte quelle scuole teologiche che hanno preso sul serio il Concilio diventano “neo-modernismi”. Ma qui il grande assente mi pare proprio il Concilio.

I singoli passi del tuo testo

Ora cerco di intercettare, nel modo più oggettivo possibile, il cuore delle tue tesi, al di là della loro espressione sintetica preliminare.

a) La necessaria continuità. Tutta la prima parte del tuo scritto è preoccupata di assicurare la continuità della tradizione, e mal sopporta ogni lettura del Concilio che ne sottolinei la discontinuità, o in senso progressivo o in senso regressivo. Non è dunque, per te, né eresia né Nuova pentecoste.

b) Subito dopo, però, esci da quella che sembrava una posizione “mediana” e assumi come “fondata” l’idea che il “corpus” conciliare abbia effettivamente ispirato “eresie postconciliari”, come le chiami tu. Quindi tu non dici che il Concilio è eretico, ma che “contiene espressioni rischiose” e che quindi dovrebbero, a tuo avviso, essere messe quasi tra parentesi.

c) Viceversa tu noti che anche la “parte moderata” favorevole al Concilio spesso fa, di queste espressioni che tu giudichi pericolose, quasi una sorta di “parole d’ordine” del Concilio stesso.

d) Di qui la tua consapevolezza della esigenza di un criterio forte e autorevole per mediare tra “corpus integrale” e “parti rischiose”.

Qui arrivi alla tua “tesi”. Il punto ermeneutico di riferimento, per mediare tra questi poli, deve essere la “teologia tra le due guerre”, che tu ritieni decisiva per non cadere nella tentazione tradizionalistica, che insegue all’indietro la tradizione, sempre più lontano. Tu no. Tu ti fermi a 80-100 anni fa. E fai di quella stagione “antimodernista” il modello teorico con cui interpretare la “novità conciliare”. Lo dici con queste parole, che meritano di essere citate:

“Il Vaticano II va letto come integrazione teologica e moderazione pastorale della stagione di ricostruzione, antimodernistica e postmodernistica” .

A questo punto, dopo esserti in qualche modo smarcato dalle ricostruzioni poliziesche proposte da Viganò – che mi pare tu prenda sempre esageratamente sul serio – arrivi a formulare due “proposte metodologiche”.

– La prima mossa che proponi è una “codificazione del Concilio”, che tu intendi precisamente “contro” il lavoro – che io ritengo egregio e luminoso, e tu invece liquidi come “improbabile” – che P. Huenermann ha fatto nella nuova versione del Denzinger. Tu vorresti invece una “codificazione del Concilio” e prendi come modelli il Codice del 1983 e il CCC del 1992.

– La seconda, ancora più forte, è la contestazione aperta delle “correnti neomodernistiche” di recezione del Concilio. E qui tu arrivi a non distinguere più né tra Loisy e i nostri insegnanti di Scrittura, né tra le critiche ragionevoli che si possono fare alla teologia contemporanea e l’oscurantismo degli ultimi anni di Antonio Livi.

E chiudi con un testo che è tanto grave da meritare di essere citato integraliter:

“L’ordine teologico ed ecclesiastico, tra l’enciclica di Pio X “Pascendi” e la fine del Vaticano II, dunque quello della cultura teologica e cattolica in cui si erano formati i padri conciliari, è l’ordine paradigmatico della Chiesa moderna, nella sua sincronia e diacronia. Con questo dato fermo, si possono ponderare sia le novità del magistero conciliare, sia le indubbie intrusioni modernistiche durante e dopo il Concilio. Aprendo gli occhi sul vortice storico e spirituale che ha investito l’ecclesiosfera dagli anni Sessanta, per cui essa sembra trovarsi da allora nel Maelström, senza preoccuparsene”.

Ora tu pretenderesti, quindi, che l’ordine paradigmatico della Chiesa moderna sia quello che va da Pascendi all’ultimo testo conciliare, identificando nella “formazione dei padri conciliari” ciò che è normativo, così anestetizzando il Concilio in modo strutturale.

Tu proponi, per di più, questi come “metodi”. Io invece ritengo che proprio sul piano del metodo tu sia completamente fuori strada. In nessun modo noi potremmo avere la pretesa di “comprendere il Concilio a partire dal CJC e dal CCC”, bensì il contrario! So bene che anche la Congregazione per la Dottrina della fede aveva scritto una cosa simile nel presentare, nel 2012, l’anno della fede. Ma questo è metodologicamente e teologicamente una cosa del tutto assurda. E mi stupisco che tu ricorra a questo mezzuccio, per levarti dall’impaccio di testi “intenzionalmente nuovi”. Né Giovanni XXIII né Paolo VI volevano fare la rivoluzione. Ma volevano la riforma, di cui tu hai paura, perché mette in dubbio le certezze della teologia “tra le due guerre”.

Ciò non significa che la questione che tu poni non sia importante. Ma non si può impostare né con le tue parole superate, né con le tue intenzioni censorie. Qui si tratta, invece, di riformulare le due “proposte metodiche” in termini del tutto diversi. Provo a farlo in conclusione, accettando la tua sfida. Ovviamente, dato che le tue 4 premesse sono, a mio avviso, del tutto inaccettabili, le mie proposte di “riconciliazione” toccano gli stessi punti su cui tu “scavi la linea Maginot”, mentre io vorrei “aprire una autostrada”.

– La prima sfida è il livello “istituzionale” della tradizione. Poiché io ritengo che il Vaticano II ci abbia posto – nel senso più alto della sua indole pastorale, aspetto di cui tu ti dimentichi sempre – nella condizione di “necessaria traduzione”. La indole pastorale sa che la tradizione deve essere tradotta. Anche istituzionalmente. Per farlo occorre ripensare il diritto canonico, l’idea stessa della legge e l’esercizio della autorità. Questo è un punto su cui, certamente, la teologia che va dal 1910 al 1965 può darci molto, ma non può essere semplicemente il modello;

– La seconda sfida è, direi, nel rapporto con la idea moderna di libertà, su cui abbiamo anche da imparare: non per essere liberali, né per confermarci antiliberali, ma per sapere diventare post-liberali. Si tratta di prendere sul serio le forme di vita che abbiamo elaborato nella tarda modernità, senza pretendere di farci guidare dalla rozza polemica antimodernista, che è ormai vecchia e svuotata, non funziona più e spesso dice proprio il falso di ciò che è. Mi dispiace, ma le molte cose polemiche che Antonio Livi ha scritto negli ultimi anni della sua produzione filosofica e teologica sono proprio il modo vecchio e sterile con cui la Chiesa dimostra di non capire nulla del mondo in cui abita. E tu pretenderesti di assumerle come modello?

Sono sorpreso che tu voglia leggere il Concilio proprio con quegli strumenti che il Concilio stesso ci ha chiesto di “rivedere”. Metodologicamente, a me pare, qui la cosa proprio non funziona. E non aiuta per nulla a riconciliare gli animi, non tanto tra di loro, ma anzitutto con la realtà stessa del Concilio. Ma questa è una premessa maggiore del tutto inaggirabile. La Chiesa, con il Concilio Vaticano II, non è caduta nel “grande Maelstroem”. Piuttosto è uscita dal porto, nel quale si era rifugiata; ma l’acqua iniziava a ristagnare, e allora, con coraggio, ha saputo riprendere il mare aperto.  Cosa che certo è meno rilassante di una occhiuta critica del mondo moderno,  ma implica una traduzione dei modi di pensare, di volere e di sentire che non è gorgo, vortice o catastrofe, ma elaborazione, trasformazione, conversione e rinnovamento.

Con tutto ciò ti saluto cordialmente e spero che, nel discorso molto franco che ti ho rivolto – e che ci possiamo permettere proprio da amici – noi sappiamo onorare al meglio l’oggetto del nostro dialogo.

Andrea

 

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