“Invisibile imbecille”. La relazione complessa tra lingua latina e tradizione viva


 

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Il latino, negli ultimi mesi, è tornato ad avere un ruolo importante per la definizione della tradizione ecclesiale. Sia pure con la sua lunga storia, ma proprio come ogni lingua di Babele, il latino dice e non dice, apre e chiude, rivela e nasconde. Nessuna lingua può dire tutto. Per questo ogni lingua esige una paziente elaborazione: con una lingua si lavora e con questo si determina una delicatissima e raffinatissima relazione tra espressione ed esperienza. Per fare esperienza dobbiamo esprimerci e esprimendoci facciamo esperienza. Questo vale anche per la esperienza di fede. Che si sperimenta nelle diverse lingue che ha parlato e che parla. Questo “uso delle lingue” determina l’affermarsi e il mutare delle tradizioni. Così, finché la tradizione del cattolicesimo latino ha parlato e pensato in latino, faceva esperienza nella lingua in cui parlava e parlava la lingua nella quale faceva esperienza. Questa condizione – che potremmo chiamare equilibrio tra codice espressivo e esperienza di sé – ha avuto una storia complessa, articolata e ricca. Dante Alighieri dichiarava, in latino, a inizio del 1300, che il latino non era più la lingua della poesia. Lutero apriva radicalmente al tedesco per fare della esperienza del popolo la lingua della fede. In questa relazione con le “lingue parlate” non tutto è lineare. Così può accadere che il latino possa essere lingua della resistenza alla “germanizzazione nazista” del cattolicesimo tedesco degli anni 30 e 40 del XX secolo, oppure alla “normalizzazione statale dei fedeli” da parte del comunismo cinese nella seconda metà del XX secolo.

Certo è che il latino non è più lingua parlata, neppure nella Chiesa da almeno 60 anni. Questo non significa che la si debba ignorare o trascurare. Anzi, lo studio del latino resta, nella formazione della competenza sul cristianesimo occidentale, un passaggio obbligato e prezioso. Ma con la consapevolezza che il latino, senza essere una lingua morta, non è più una lingua viva. Non lo è non perché i canonisti non debbano conoscerlo e farne un certo uso. Ma perché non la parlano più i bambini, le mamme e i padri con i figli. Non si parla allo stadio, non si usa per le massime gioie e per i grandi dolori. Una lingua resta viva solo se la parlano i bambini per giocare. Questo uso inerziale di una lingua non più viva comporta una serie di questioni delicate, che riguardano il modo con cui possiamo lavorare, pensare e agire, oggi, nella Chiesa. Come dicevo all’inizio negli ultimi tempi abbiamo avuto almeno due “episodi” che rappresentano “luoghi comuni” di relazione con la lingua latina e che meritano una parola di riflessione.

a) La libertà dello Spirito tra venerabilis e veneranda

In uno degli ultimi documenti di papa Francesco – la lettera alla Congregazione per la dottrina della fede a commento del Motu proprio Spiritus Dominus – appare una “esegesi” del testo latino del Motu Proprio Ministeria quaedam di Paolo VI che costituisce una piccola perla di “vitalità” del latino. Ma è anche segno della delicata procedura di “traduzione” del latino, che apre o chiude possibilità. Nel caso specifico si affida ad un aggettivo latino – venerabilis – la qualità di una prassi ecclesiale che riservava gli “ordini minori” soltanto ai fedeli di sesso maschile. Il ragionamento, di per sé del tutto plausibile, osserva che una prassi “venerabile” non è necessariamente da venerare. Potremmo dire che se Paolo VI avesse voluto dire questa necessità, avrebbe usato l’aggettivo “veneranda”, che esprime appunto la doverosità. In tal caso dalla necessità non si sarebbe potuto deflettere. Mentre ciò che è possibile, non essendo necessario, consente di fare altrimenti. La cosa interessante, in tutto questo, è che la autorizzazione ad una prassi inclusiva è in qualche modo richiesta alla analisi grammaticale del testo latino. Ciò evidentemente non esaurisce le buone ragioni del provvedimento, che così anche grammaticalmente sembra inappuntabile. Non altrettanto, però, si deve dire della traduzione ufficiale del testo di Paolo VI in italiano, che traduce “venerabilis” con l’aggettivo italiano “veneranda”. Ed ecco che una traduzione non esattamente letterale impedisce di cogliere questa sfumatura non secondaria di una “traduzione della tradizione” che con quel documento si stava realizzando, già negli anni 70, e che solo ora si è fatta del tutto chiara.

b) Chi osa dire che per tradurre non si deve interpretare?

Un secondo caso, altrettanto recente, riguarda l’entrata nell’uso della Chiesa Italiana della traduzione della terza edizione del Messale Romano italiano. Qui interessa osservare alcune particolarità del modo di tradurre il latino (o il greco) del testo originale. Ovviamente non si può mai assumere un unico criterio, per assicurare una buona traduzione e le oscillazioni tra “traslitterazione”, “traduzione letterale” e “traduzione a senso” sono sempre inevitabili. Ma la cosa più significativa, di cui si è tenuto conto in una misura non troppo cospicua, è che la traduzione “dal latino” si innestava su una tradizione italiana già esistente. Ossia, la fonte del tradurre non può essere solo il testo latino del 2002, ma anche la tradizione italiana dal 1970 in poi. Così le variazioni sembrano aver seguito, almeno in parte, un criterio rigido di “calco del latino del 2002”, senza tener conto della tradizione italiana vigente e vivente. E questo non solo nella scelta dei termini, ma persino nelle scelte delle figure retoriche. Con alcuni effetti paradossali: il chiasmo latino non sempre può essere chiasmo italiano. Le metafore latine non corrispondono alle metafore italiane. Così, almeno in alcuni casi, il nuovo messale sembra più un latino italianizzato che una traduzione in italiano. Dietro queste scelte improvvide si manifestano, abbastanza chiaramente, due presunti principi, che la stagione degli ultimi tre decenni ha visto ripetere con una certa insistenza da parte di autorità considerevoli. Ossia l’idea che la migliore traduzione sia sempre quella letterale, e che tradurre non significa interpretare. Anche se affermati da soggetti autorevoli, tuttavia, questi pretesi principi si rivelano, alla prova dei fatti, senza una vera efficacia. Le lingue non funzionano secondo i desiderata del magistero. Sono, a modo loro, “segni dei tempi” e vanno ascoltate, non sostituite.

c) Come si traduce bene dall’italiano al latino?

Da ultimo, come non ricordare che, all’inizio di tutta questa storia della “traduzione della tradizione” – ossia proprio nel testo che ha aperto questa riconsiderazione delle culture moderne per la tradizione ecclesiale – c’è un caso di traduzione capovolta, non dal latino all’italiano, ma dall’italiano al latino, che risulta assolutamente problematica. Torniamo all’ottobre del 1962: Giovanni XXIII deve aprire il Concilio Vaticano II e scrive, in italiano, il testo di Gaudet mater ecclesia. In quel testo uno dei passaggi più delicati è il seguente:

Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che devesi – con pazienza se occorre – tener gran conto, tutto misurando nelle forme e proporzioni di un magistero a carattere prevalentemente pastorale”.

Ovviamente, nel 1962, un papa può aprire un Concilio solo parlando in latino. Così la Segreteria di Stato provvede a tradurre il testo come segue:

Est enim aliud ipsum depositum Fidei, seu veritates, quae veneranda doctrina nostra continentur, aliud modus, quo eaedem enuntiantur, eodem tamen sensu eademque sententia. Huic quippe modo plurimum tribuendum erit et patienter, si opus fuerit, in eo elaborandum; scilicet eae inducendae erunt rationes res exponendi, quae cum magisterio, cuius indoles praesertim pastoralis est, magis congruant.”

Ed ecco la versione italiana ufficiale suona oggi come opera di un “traduttor dei traduttor” del papa:

Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale.”

Questa rapida ricostruzione mostra come il passaggio dalla prima alla terza formulazione sia una sorta di sfiguramento e di imbalsamatura del testo originale: il rapporto tra le lingue esige pazienza e fedeltà. Quando si procede con troppa libertà o con troppa rigidità, si perde il senso delle parole e lo spessore dei testi. La pretesa che sia la “mens” latina a guidare lo sviluppo della tradizione in altre lingue è qui un chiarissimo elemento di blocco della tradizione. La colpa non è del latino, ma dell’uso ideologico che se ne fa.

Come raccontò Rita Levi Montalcini, in una gustosa storiella sullo smascheramento dei limiti delle “traduzioni meccaniche”, se si chiede ad un computer di tradurre da una lingua nota ad una lingua sconosciuta, per tornare infine da questa ad un’altra lingua conosciuta, si può ottenere che il proverbio inglese “out of sight, out of mind” (che in italiano suona come “occhio non vede, cuore non duole”), passando attraverso la lingua cinese, possa infine essere tradotto dal cinese in italiano con la locuzione “invisibile imbecille”: quando la mens della traduzione letterale prende la mano e pretende di controllare tutto, perde ogni vero controllo e smarrisce ogni senso traslato. Non si può mai tradurre senza interpretare. Le lingue moderne non sono mai semplici traduzioni del latino, ma atti di interpretazione della tradizione nella cultura di arrivo. Una Chiesa che si ostinasse a non tradurre, e ad illudersi di non aver bisogno di interpretare per restare se stessa, davvero rischierebbe di scomparire per debolezza. Senza volerlo, e persino in totale buona fede, diventerebbe anch’essa invisibile imbecille.

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