Munera 1/2021 – Elena Granata >> I boschi urbani saranno le fabbriche del nostro futuro

Siamo culturalmente abituati a ragionare sulle città a partire dallo spazio, secondo una logica mono-dimensionale. Come se tutto dipendesse dal buon disegno – in pianta – di edifici, spazi aperti, verde urbano e servizi. Come se tutto dipendesse da una pianificazione puntuale e da ordinamenti stringenti. Ma le città – oggi più che mai – hanno molto a che fare più col “tempo” (con i tempi della città, con il tempo lungo della natura) che con lo spazio e dobbiamo sforzarci di pensare a luoghi e comportamenti in questo modo.  I cambiamenti climatici e il loro impatto sulle nostre vite ci chiedono di ripensare in modo radicale alle città, di riportare la natura nei contesti urbani, di investire sulla rigenerazione dei manufatti e degli spazi aperti. Abbiamo già costruito tanto, abbiamo già costruito troppo. Oggi serve il coraggio di ripensare le città a partire dai loro spazi aperti, naturali, condivisi.

Servirebbe quel coraggio politico che ebbero, nella metà dell’Ottocento, Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux che immaginarono il Central Park di New York, un parco che sembra naturale ma che fu progettato dalla volontà umana in ogni suo dettaglio. La città in quegli anni godeva di uno straordinario sviluppo urbano, erano sorti i primi grattacieli e lo spazio edificabile era un bene davvero scarso e quindi prezioso. La sola idea di rinunciare a quel suolo apparve a tanti una cosa assurda. Ma è proprio in quel momento che la città – su suggerimento di un’urbanistica attenta al bene comune – riuscì a immaginare un gesto straordinario, scegliendo di realizzare un grande parco a disposizione di tutti. Certamente si pensava alla salute delle persone ma, più in generale, il progetto rispondeva a una moderna idea di benessere collettivo. Il Central Park rappresenta ancora oggi l’opera di bonifica ambientale e di ri-naturalizzazione per antonomasia, da cui possiamo imparare.

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