Eredità di una presenza: un ricordo di P. Silvano Maggiani


SilvanoMaggianians

Un pomeriggio intenso, quello di ieri, organizzato dalla Facoltà teologica del Marianum, in memoria del compianto P. Silvano, secondo il seguente programma:

Silvano

Ne è emerso un ritratto ricco, complesso, articolato, emozionato. Anche se probabilmente i testi degli interventi saranno pubblicati, opportunamente riveduti e integrati, su rivista, rendo pubblico il mio intervento così come l’ho pronunciato ieri, sebbene risulti in forma incompiuta.

Silvano Maggiani: eredità di una presenza

La obbediente libertà di un figlio della Riforma liturgica

 Il variabile, nel processo rituale, è più intenso e più presente che l’invariabile”    (S. Maggiani, Corpo spazio tempo, 101)

 La eredità di P. Silvano ci riguarda e ci tocca in molti modi, nel corpo come nella mente. Vorrei tentare di ricostruire brevemente le coordinate di un “lascito” che fa transitare fino a noi il patrimonio di riscoperta della liturgia, come forma spirituale del vangelo, e che la iscrive nella carne stessa della Chiesa e del credente. In questo grande compito di riscoperta della qualità spirituale della liturgia, Silvano portava con sé e in sé una identità di “uomo libero” e di “uomo obbediente” – di anarchico e di frate servita – che era davvero impressionante. La libera obbedienza e la obbediente libertà di Silvano faceva breccia e rendeva credibile, avvincente, sostanziosa e forte anche la analisi filologica più minuziosa, perché portava dentro di essa una passione, una urgenza e una pertinenza che era difficile trovare altrove. Così lo abbiamo ascoltato tante volte, con la sua voce profonda, con l’accento toscano, con lo sguardo insieme fiero e forte, umile e dolce. Di questo già si è detto, in occasione del triste momento del primo addio e dei bilanci che a caldo di fanno della vita di coloro che si addormentano nella morte.

Ma in un momento di memoria “ufficiale” come questo, promosso dalla Facoltà teologica presso la quale Silvano ha prestato in primo luogo il suo servizio di pensiero e di azione, credo che sia giusto e che sia quasi dovuto collocare la sua persona e la sua personalità all’interno di una percorso comune, nel movimento di una teologia che si andava elaborando e affermando, e alla quale Silvano ha dato un grande contributo non semplicemente di “pubblicazioni”, ma di “animazioni” e di “sensibilizzazioni”. Per fare questo, nel nostro mestiere, non ci sono altre strade che “leggere libri”: i libri ci permettono di comprendere la entità e la forza di una eredità. Perciò vorrei cercare di scoprire in che modo la “teologia sorridente” di Silvano si sia collocata in un passaggio delicatissimo – per la liturgia e per la teologia italiana – a cavallo di un tempo non semplice – tra gli anni 80 e l’inizio del pontificato di Francesco – al cui interno ha svolto una funzione preziosa e per certi versi unica. Lo farò in economia, leggendo solo due libri, che mi serviranno per capire meglio ciò che riceviamo da lui in eredità e dobbiamo custodire come una presenza preziosa e una parola buona e piena di sostanza. Ma procediamo per ordine.

 1. La teologia italiana e l’apartheid culturale del mondo cattolico

 Può essere utile leggere un testo (“La teologia italiana. Sequenze di un recente cammino”) che L. Sartori, nel 1986, scriveva come “Nota Introduttiva” al volume Essere teologi oggi. Dieci storie (Casale, Piemme, 1986). E’ una sorta di breve ricostruzione dei compiti della teologia italiana a metà degli anni 80, a 20 anni dal ConcilioVaticano II, proprio quando Silvano aveva già ben avviato in modo significativo il suo impegno di studio e di insegnamento a Roma. Il quadro che Sartori delinea ci aiuta capire meglio Silvano e la sua libertà obbediente. Silvano era nato del 1947. Sartori ricorda che proprio tra il 46 e il 48 nascono le prime “scuole di teologia per laici”. In quelle scuole si inizia ad insegnare la teologia “in italiano”. Parlare l’italiano, in teologia – sono le parole diSartori- “metteva già in crisi qualcosa, cambiava almeno la psicologia dei maestri”. Poi vi fu il Concilio Vaticano II e la grande sete di formazione che esso determinò. Fu in questo tragitto, tra gli anni 50 e gli anni 70, che Silvano entrò sempre meglio dentro un progetto teologico con un nuovo statuto ecclesiologico ed epistemologico, di cui lui assunse in profondità lo spirito e la lettera. Era chiaro, non solo biograficamente, ma direi epistemologicamente, che Silvano, anche come “liturgista”, anche come “filologo”, era impegnato, sollecitato, attivato da ogni espressione di cultura: stava fuori da ogni tentazione di una teologia “antimodernistica”. La cultura degli uomini – potremmo dire la cultura di “tutto l’uomo fenomenico”, quello evocato da Paolo VI alla fine del Vaticano II – l’uomo “cioè rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze” – non era il luogo del sospetto o della diffidenza, ma il punto di accensione e di stupore che apre alla fede, al Dio che agisce, che si manifesta e che consola. Silvano stava pienamente, direi entusiasticamente, in questa apertura della fede e della chiesa al mondo, una apertura “indefinita” e “infinita”. Di quella apertura ogni fibra di Silvano vibrava in profondità, nelle rappresentazioni e nelle emozioni, nelle riflessioni e nelle orazioni, nei sospiri come nelle posture. Di questa teologia aperta e non sospettosa Silvano è stato un testimone convinto e affidabile.

 2. La memoria viva del movimento liturgico in tutta la sua complessità

 Ma l’esperienza di vita e lo studio a Parigi, con i grandi maestri della tradizione francese, lasciarono su Silvano una impronta particolare, che si sposò in modo originale con quella libertà anarchica e con quella obbedienza francescana che la vita e la vocazione gli avevano già riservato in dono. Era così ritornato ai “testi sacri” che avevano aperto la stagione più feconda del movimento liturgico, e in particolar modo a Guardini, autore che sempre lo accompagnava come ispiratore e compagno di strada. Non è un caso che, in uno dei testi “programmatici” più intensi di P. Silvano ( CORPO SPAZIO TEMPO: Celebrare a tre dimensioni, in AA.VV. L’arte del celebrare. XXVII Settimana di studio APL – Brescia 1998, Roma, CLV, 1999, 59-102) pubblicato l’ultimo anno del secolo scorso, nel 1999, ci sia in esergo un doppio riferimento:

a) A J.-Y. Hameline, ammirato maestro a Parigi e vero campione di un approccio “a tre dimensioni” alla tradizione liturgica, dove storia, filologia, antropologia, musica e architettura erano sempre in gioco e in allerta;

 b) un prima citazione da Guardini, presa dal testo Formazione liturgica, che ritorna poi anche come esergo all’inizio di ognuna delle tre parti, quasi come un “basso continuo”!

 Questo doppio riferimento è esemplare della complessità delle fonti e delle intenzioni della ricerca di P. Silvano. In quegli anni – dal 1980 al 2000 – è stato il punto di riferimento più esplicito di una “correlazione di campi del sapere” che il Movimento Liturgico aveva conosciuto ai suoi inizi, ma che in quel momento faceva fatica a “riconoscere”. Silvano riaprì in Italia una rilettura più ricca delle fonti del sapere liturgico. Non è un caso che egli fosse diventato un formidabile “ponte” tra i due Istituti che più intensamente coltivavano il campo della liturgia: ossia S. Anselmo a Roma e S. Giustina a Padova. Silvano aveva rapporti istituzionali “di docenza” con il primo istituto, e relazioni “di riflessione” e di “collaborazione” con il secondo. A livello di APL, dove le acque dei due Istituti si mescolavano come quelle di due fiumi nel mare, Silvano ha esercitato una funzione sintetica sia “verso il futuro” sia “verso il passato”. Ossia ha incentivato sia “interessi storici” corretti da metodologie più adeguate e rispettose della complessità, sia “interessi sistematici” ad una ricostruzione più ricca dei compiti del “liturgista” e del “teologo dei sacramenti”. Nello stesso tempo ha spinto a rileggere il “movimento liturgico” e la “relazione tra discipline teologiche”.

 3. Il lavoro sugli “ordines”, sulle “celebrazioni pontificie” e su diverse “performances”

 P. Silvano aveva compreso, per intuizione vitale e per applicazione di studio, che la fedeltà agli ordines esigeva una grande e profonda libertà. Per questo non solo poteva attingere alla ricerca storico-filologica di S. Anselmo con una sensibilità “antrop0logica” e riportare le scienze umane di S. Giustina in dialogo con la storia e con la filologia, ma “contaminava” e “pendolava” – queste parole gli erano particolarmente care: quanti di noi gli hanno sentito così spesso la parola “pendolarismo”! Ma non per l’esprimere una incertezza, ma per dare voce alla complessità della pienezza! – dunque “pendolava” tra i campi che attraversava. Così nel lavoro sugli ordines rituali – ho avuto la fortuna di vederlo al lavoro sul Nuovo rito del Matrimonio, nell’ultima fase di costruzione dal 1999 al 2004 – come sulle “celebrazioni pontificie”, di cui Mons. P. Marini ci ha parlato poco fa portava uno sguardo, una luce, uno spunto, che gli derivava precisamente da questa “polarità” – diremmo di ascendenza guardiniana – tra diverse componenti: egli era obbediente ma libero, filologo ma attento al non verbale, memore della storia ma aperto ad ogni seria novità. Non c’era performance che, come un gioco, non gli rivelasse la serietà di quanto c’era in gioco. Così il teatro, la ripresa televisiva, l’opera lirica, il lavoro del regista, dell’architetto, del tecnico delle luci, ma anche del fiorista o dell’esperto di profumi diventava luogo interessante e suggestivo di mondi da scoprire e di emozioni da condividere e da custodire. Chi non ha mai sperimentato, direttamente o indirettamente, una “risposta al telefono” inventata da Silvano nella forma di un “recitativo” alla Mozart o alla Puccini? Ma il tratto “curioso” – simpatico e divertente – corrispondeva ad una “epistemologia liturgica” ardita, direi quasi visionaria e per questo singolarmente fedele alle profezie di ventura di cui è così piena la nostra grande tradizione, se la si sa osservarea fondo. Per queste caratteristiche Silvano poteva partecipare bene e armonicamente in tanti “gruppi di lavoro”: conosceva tante belle profezie e ignorava, anche qui per costituzione e per vocazione, il vizio cattivo e lacerante della “profezia di sventura”!

 4. La intuizione di una sintesi nuova e la apertura alle altre “associazioni”

 Un ulteriore aspetto di questa sua “vocazione poliedrica” è stato l’impulso consistente e per certi versi irreversibile che ha dato al “lavoro interdisciplinare” interno ed esterno alla Associazione dei liturgisti. Proprio a causa di questa singolarissima polarità che ho cercato di mostrare – la compresenza riconciliata in lui di libertà anarchica e obbedienza religiosa, di guizzo intuitivo e costruzione sistematica, di scrupolo filologico e osservazione psicologica, di rigore per la ricostruzione del significato del linguaggio verbale e di passione per le logiche segrete dei linguaggi non-verbali – quando ne ha avuto la possibilità e la autorità, in diversi ambiti, come Presidente o come Preside, ha sempre favorito il grande e difficile lavoro del “confronto” tra discipline diverse. Qui vorrei ricordare che tutti noi siamo stati eredi sia del lavoro che l’APL ha fatto in relazione alle “altre discipline teologiche” sia in relazione alle “scienze umane”, come attestano i due volumi della fine degli anni 90. Ma, oltre a questo, non si può dimenticare che sempre Silvano è stato tra i promotori, nello stesso periodo, della nascita del CATI, come coordinamento tra le diverse associazioni teologiche italiane, in cui l’APL, grazie a lui e a Giorgio Bonaccorso, ha svolto all’inizio e continua a svolgere un ruolo di grande rilievo, sia come stimolo sia come contributo. In qualche modo queste determinazioni al dialogo – interno ed esterno al mondo della liturgia – sono diventate grazie a Silvano “forme strutturali” della competenza del teologo della liturgia. Silvano ha contribuito a trasformare i liturgisti italiani, a sprovincializzarli, a renderli più attenti e più duttili. E la forma persuasiva che queste nuove priorità hanno assunto, nella nostra vita di lavoro e di servizio, derivano in misura non piccola dal “piacere” con cui le abbiamo riconosciute e apprezzate nel suo vissuto. Una sorta di “decoris laetitia”, che scaturiva dalla “meraviglia” per la “liturgia in atto” e per la sua efficacia, faceva di Silvano uno straordinario “testimone” della bontà di un metodo rigorosamente interdisciplinare, complesso, sempre aperto e sempre incompiuto.

 5. Un modello di riflessione “corporea” sulla tradizione

 Da ultimo, per avviarmi a concludere, vorrei riprendere quello che considero uno dei suoi testi-chiave e che ho già citato prima, ricordandone gli esergo iniziali.

In quel testo – come in una piccola Summa – Silvano ha voluto costruire un ragionamento ampio, ricco, dettagliato, curioso e avvincente. Lo ripercorro nella sua struttura, quasi come una piccola “pièce teatrale” in 4 atti, per rendergli omaggio e per tentare di capirlo fino in fondo.

5.1. PRIMO ATTO Una introduzione “secondo Guardini” con tre modelli storici

 Il “compito” per riscoprire la liturgia intesa come un “fare, ordine ed essere” procede da una storia in cui si danno “tre stili”:

 a) Ars orandi – da Tertulliano a Guglielmo Durando – è uno stile che privilegia la interiorità verbale sulla corporeità esteriore;

 b) Ritus servandus è la attenzione alla esteriorità “cerimoniale” inaugurata dal Concilio di Trento – come attenzione al “come” che degrada nella reificazione – e che la Riforma liturgica di fatto sostituisce con un “vuoto”.

 c) Ars celebrandi è una forma di “invenzione” e di iniziazione all’atto di culto, che considera spazio tempo e corpo come “soglie” da attraversare. Di qui la struttura “liminale” del seguito del discorso.

 5.2 SECONDO ATTO: Parte prima: i preliminali

 Del “pre-liminale” fa parte il silenzio, la assunzione della struttura rituale e la ludicità del “sorridere”. Mi fermo solo un attimo sul senso del “sorridere”, che vedevamo così bene sul volto del Silvano soggetto liturgico presidente, il sorriso è altro dal riso e dal pianto, con la loro passività. Sorridere è coscienza della soglia, di fronte e in relazione al Dio di misericordia e di grazia.

 5.3 TERZO ATTO: Parte seconda. Liminalità: spazio/temporalità

 Qui i temi sono “costitutivi” dell’atto rituale: Silvano prende in esame la luce, la “statio”, il ritmo, lo sguardo fino al riconoscimento della “estraneazione” -Terribilis est locus iste- come componente inaggirabile dell’atto rituale.

 5.4. QUARTO ATTO: Parte terza. Liminalità. Celebrare con il corpo vissuto

 Da ultimo il corpo nella sua struttura articolata, che fa centro nel “plesso solare”, che è azione in movimento la cui cinetica è rilevante, ma è anche “atteggiamento” e “posizione” e infine memoria corporea: memoria tattile, olfattiva e gustativa.

 5.5. EPILOGO

 Vi è una conclusione, in questa grande sintesi, che traiamo come una sorta di “distillato della eredità di Silvano”. Il compito cui Guardini si era accinto tra gli anni 15 e gli anni 60 del 900, e che Silvano ha ricevuto dai suoi maestri italiani e francesi e che lui stesso ha assunto dagli anni 70 fino al 2020, per quasi 50 anni, oggi arriva a noi in una parola, detta con il sorriso che gli era tipico, ma che potrei e vorrei fare mia in tre piccole variazioni finali, con cui desidero chiudere questa sua performance che qui recepiamo e rilanciamo. Ecco le tre parole che Silvano ci consegna e che grazie a lui oggi sentiamo nostre in tutta la loro urgenza:

 a) La Riforma Liturgica è nella sua essenza la rimozione di un ostacolo, di una visione angusta , di un impedimento strutturale , di una “minorità ecclesiale”, la cui attuazione – ossia una liturgia di cui tutti sono insieme soggetti e oggetti nella “actuosa participatio” – implica una “educazione” a tutte le soglie che Silvano ha qui magistralmente accennato. Fare la riforma senza assumere come normativa e formativa la partecipazione attiva è come pestare l’acqua nel mortaio. Genera il vuoto e induce alla regressione.

 b) La mediazione rituale della fede è “arte”e “artigianato”, bricolage e sperimentazione. Ma il dialogo intenso, a tre dimensioni, nel corpo, nello spazio e nel tempo, in una tensione irrisolta con gli Ordines, ci deve far scoprire che la incorporazione, la spazializzazione e la temporalizzazione della fede si realizzano nel culto “sapendo che il variabile, nel processo rituale, è più intenso e più presente che l’invariabile”. La mediazione rituale è luogo di creatività, di immaginazione e di innovazione. Si può essere fedeli agli ordines solo nella libertà. Il rito può essere “osservato”e “conservato” solo se assicura trasfigurazione e trasgressione. Solo se la “statio” torna ad essere “transitus”.

 c) In terzo luogo una parola di Salvatore Marsili, uomo che è stato presente alla mente e al corpo di Silvano, vale qui come degna conclusione. Poiché il “piacere del gesto” nel rito, la delectatio del corpo vissuto nella liturgia, vive di un delicatissimo ed esigente equilibrio, che Silvano ha insistentemente sentito e annunciato, facendo sue queste parole, che Marsili pronunciò sulla soglia del commiato da Rivista Liturgica, alla fine del suo servizio come Direttore. Egli scrisse allora nel 1982:

 Due cose voglio che si ricordino: 1) La liturgia è una cosa viva, ma fragile: muore nelle mani di chi non la sa trattare; 2) La liturgia è una cosa viva, ma solo se è dinamica, volta cioè verso l’avvenire”.

 Questa delicatezza e dinamicità, che Marsili lasciava in eredità alla fine della sua carriera e che Silvano, per quasi 40 anni, ha fatto propria dopo di lui, oggi arriva a noi, nel commiato da Silvano. Una consegna che lui ha ricevuto, ora lui stesso consegna a noi, in un tempo non meno difficile del suo, ma reso propizio e favorevole dalla esecuzione del compito che Silvano ha trasmesso a noi, perché non fosse dimenticato, ma sviluppato con la cura e forse ancor più con il sorriso che da lui abbiamo imparato. Per imparare a celebrare, infatti, bisogna imparare a sorridere, con quella libertà che genera obbedienza e con quella serietà che ispira letizia.

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