La salutare vergogna del teologo e la autorità del futuro


rahnerkung

Ho letto un testo di Ludovica Eugenio, su Adista, (Il teologo ceco Thomas Halik: «E ora alle donne omelie e diaconato») che riporta una serie di parole importanti del teologo ceco Thomas Halik, sulle quali mi pare opportuno fermare l’attenzione. Ecco il testo che trovo più interessante: un testo che parla della “vergogna del teologo”:

 Anche sulla teoria del genere è presumibile che si compiano passi avanti: tra dieci anni, scrive Halik nel suo libro, la Chiesa guarderà indietro con la stessa vergogna che si prova oggi leggendo le dichiarazioni del XIX secolo sulla libertà di stampa, la libertà di coscienza e la libertà di religione. «Ci vergogneremo di aver ricevuto gli impulsi di papa Francesco e di non averli realizzati. È stato lo stesso con il Patto delle Catacombe. Ci sono stati impulsi molto importanti da parte di alcuni vescovi conciliari ai loro confratelli. Non sono stati ascoltati. Papa Francesco ne ha realizzati alcuni nel suo stile di vita. Questi segni influenzano il modo di pensare delle persone. Questo è il motivo per cui Dio ci manda dei profeti».

Nasce un sentimento di “vergogna” quando si comprende la inadeguatezza di ciò che si è fatto o che si è detto, rispetto a quanto era necessario e opportuno. Anche la teologia può migliorare se sa ancora provare vergogna. Però occorre fare molta attenzione: lo scandalo che può sorgere in noi, nel leggere alcune affermazioni del passato, non può scivolare in una sorta di “alibi”. Sarebbe troppo comodo chiedere ad Agostino, a Tommaso, ad una proposizione tridentina o ad un testo del 1800 di “vergognarsi” per affermazioni divenute per noi inaccettabili. Siamo noi a dover provare vergogna quando restiamo fissati ad espressioni che non sono più sostenibili. La tradizione si compone di cose vive e di cose morte, di cose sane e di cose malate, di fonti autentiche e di fonti spurie. E noi non siamo dispensati dal discernimento.

In “Grandi Speranze” – il grande romanzo di Dickens –  ad un certo punto il protagonista, il giovane Tip, si vergogna dei suoi “vecchi”: e così prova vergogna della sua vergogna. Anche nella Chiesa questo giusto rispetto verso il passato può rendere autorevole tutto ciò che è stato: non solo la Parola di Dio, ma insieme con essa gli assiomi culturali e sociali con cui abbiamo pensato di poterla identificare. Non dobbiamo vergognarci del passato: dobbiamo vergognarci di noi stessi quando non riusciamo a pensare meglio di quanto ha fatto il passato e non riusciamo ad uscire dai suoi errori. Vorrei fare due esempi di questa “vergogna”, che per noi può essere un fatto tanto salutare. Il primo esempio lo prendo da un testo di S. Tommaso d’Aquino sul battesimo, il secondo da un numero di Civiltà Cattolica del 1853 che dedica un lungo testo alla “Capanna dello zio Tom”.

 Teologia e vergogna per i pregiudizi sulla fisiologia femminile

 Le argomentazioni degli uomini medievali, che ci sono ancora così preziose, utilizzano il sapere a loro disposizione. Quando Tommaso parla del rapporto tra donna e battesimo, introduce, en passant, un riferimento alla fisiologia femminile di fronte al quale noi proviamo vergogna. Non per lui che lo ha detto, ma per noi che lo leggiamo. Si tratta di STh. III, 67, 4, ad 3. La domanda riguarda “se la donna possa battezzare”.

 Ad tertium dicendum quod in generatione carnali masculus et femina operantur secundum virtutem propriae naturae, et ideo femina non potest esse principium generationis activum, sed passivum tantum. Sed in generatione spirituali neuter operatur virtute propria, sed instrumentaliter tantum per virtutem Christi. Et ideo eodem modo potest et vir et mulier in casu necessitatis baptizare. Si tamen mulier extra casum necessitatis baptizaret, non esset rebaptizandus, sicut et de laico dictum est. Peccaret tamen ipsa baptizans, et alii qui ad hoc cooperarentur, vel Baptismum ab ea suscipiendo, vel ei baptizandum aliquem offerendo.”

La distinzione che Tommaso propone, tra “generazione naturale” e “generazione spirituale” è illuminante. Ma grande è l’ombra che Tommaso non sa illuminare sulla questione, poiché utilizza una comprensione della “generazione naturale” in cui la realtà fisiologica maschile e femminile viene compresa secondo i pregiudizi sociali e culturali del tempo. Alla attività maschile viene contrapposta la passività femminile. Ed è significativo che la realtà spirituale mantenga una certa autonomia da quella naturale, ma non impedisca di “riconoscere colpevole” la donna per aver infranto un “ordo” che non ha nulla a che fare né con la rivelazione, né con la creazione. Qui avviene una “sostituzione” della creazione con il pregiudizio culturale e sociale, che neppure la finezza di Tommaso ha saputo evitare: era più forte del suo ingegno. Quando noi oggi studiamo Tommaso come “testimone” della tradizione, non dobbiamo confondere la grande squisitezza delle sue distinzioni con la ripetizione del pregiudizio pseudo-scientifico del suo tempo. La tradizione cristiana pretende di essere liberata dai pregiudizi. Non Tommaso, ma chi oggi ripetesse quei pregiudizi, magari spostandoli in una regione “rivelata” del sapere, dovrebbe vergognarsi.

 Teologia e vergogna per gli assiomi di una sociologia razzista

In un famoso testo, nel quale si proponeva la “messa all’indice” della “Capanna dello Zio Tom”, la rivista La Civiltà Cattolica, nel 1853 proponeva una descrizione degli “schiavi” che potremmo definire facilmente “scandalosa”. Ecco il testo:

«Lo schiavo negro o di altra tinta che non sia bianco è, come il mancipio presso i pagani, strettamente non persona ma cosa, benché (si capisce) cosa viva e semovente… una razza, diciamo, che, collocata nell’infimo grado dell’umana specie, nella carnagione nera da disgradarne l’ebano, nel crine lanoso e velluto, nella faccia schiacciata e stranamente ottusa, nell’occhio che, quando non è stupido, o è feroce o ti rivela un’astuzia volpina, nelle facoltà intellettuali lente, circoscritte, inertissime… Così in essi la condizione di schiavi pare venuta a confermare ciò che avea disposto la natura; e la ripugnanza che le altre razze trovano ad avvicinarlesi sembra condannarli ad un eterno servaggio. Or vede ognuno che somiglianti differenze non si tolgono via cogli articoli dei codici. Sia in uno Stato della Confederazione ammessa o no legalmente la schiavitù, sarà sempre vero che un Bianco non si assiderà in eterno alla stessa mensa con un uom di colore, non vorrà con essolui entrare nel medesimo cocchio od avere comune il banco, non che nel teatro, ma fino nel tempio…» .

Non è difficile né scandalizzarsi né vergognarsi di fronte ad un testo simile. Vorrei chiedermi, però: che cosa è accaduto perché noi possiamo ritenere del tutto inaccettabile un testo così? E’ troppo facile gettare semplicemente la croce su chi lo ha scritto, 160 anni fa. Chi, 160 anni fa, si sarebbe davvero scandalizzato? Lo stesso autore, verso la fine del testo, ci permette di capire meglio i limiti della sua lettura e anche la vera sua intenzione:

 “Siano cristiani i padroni e guardino negli schiavi altrettanti fratelli di creazione, di redenzione, di beatitudine; siano cristiani gli schiavi e mirino nei loro padroni le imagini di Dio e li servano con fedeltà e con amore; sia cristiana la legislazione e il Vangelo corregga a poco a poco gli arbitri legali, le snaturate prescrizioni, gli atroci gastighi”

 Qui mi pare che sia chiaro come il passaggio da una lettura “statica” ad una visione “dinamica” dell’ordine sociale e culturale sia uno dei punti-chiave dello sviluppo di questi 160 anni. In questo caso non si deve invocare una “rivelazione trascendente”, che vincola il pensiero alla mera ripetizione, ma una coscienza civile e sociale, che ha maturato una visione più alta e più vera. Una visione che non condiziona più il Vangelo in strutture sociali distorte e ingiuste. Quello che qui si dice dello “schiavo negro o di altra tinta” risponde allo stesso meccanismo che abbiamo usato, e ancora usiamo, con l’ebreo, con l’omosessuale, con la donna. Le categorie marginali sono “condannate” a restare tali da una lettura statica dell’ordine sociale. Anche senza compiacimento, e pure con dolore, si era inclini a prendere atto che è Dio che vuole che sia così. Ciò che è si identificava con ciò che deve essere.

 La revisione dei pregiudizi e la faccia rossa

Sugli stessi temi, dei quali hanno scritto Tommaso nel XIII secolo e “La Civiltà Cattolica” nel XIX, siamo anche noi chiamati alla prova. Gli argomenti che usiamo si fondano su “evidenze” che non sono né rigorosamente dimostrabili né incontestabili. Sulla “ordinazione della donna” non ci sono “parole inconfutabili” nella Scrittura. Ci sono prassi autorevoli, usi ragguardevoli, ma fondati su motivazioni non inconfutabili. E’ molto facile, anche per noi, nel 2021, confondere la tradizione con assiomi dei quali ci vergogneremo tra 20 anni o di cui, in qualche caso, avremmo dovuto vergognarci da almeno altrettanti! Con i limiti e la fragilità di ogni generazione, ci è salutare scoprire che una parte della tradizione non è sana, ma è malata. Ed è malata non perché sia irrimediabilmente distorta, ma perché ha assunto incautamente, lungo la storia, assiomi, pregiudizi, principi, che si sono poi rivelati parziali, incompleti o devianti. Non si difende la tradizione perpetuando i pregiudizi che la fanno ammalare.

La tradizione resta viva solo quando ogni generazione sa lasciar cadere ciò che la appesantisce e sa valorizzare ciò che la rende viva e vivace. Come dice Halik, sulla “teoria del genere” spesso mostriamo solo “preoccupazione” per ciò che si perde. E’ lo stesso atteggiamento di 160 anni fa a proposito della schiavitù: si temeva che, se gli schiavi si fossero convinti di “essere uguali” agli altri, il mondo e Dio stesso sarebbe stato sovvertito nel suo “ordo”. Confondere i presupposti culturali di un’epoca con la rivelazione di Dio è forse il punto più difficile da dipanare in ogni passaggio storico. E la vergogna può aiutarci, anche quando immaginiamo di scoprirla sul volto dei nostri nipoti, allorché leggeranno le cose che oggi abbiamo osato ripetere, quelle che invece abbiamo voluto tacere oppure quelle nuove che non abbiamo saputo riconoscere. Una tradizione resta viva se sa ancora vergognarsi per le sue parole azzardate e per i suoi silenzi inopportuni. Parole e silenzi che così, grazie alla vergogna che provocano, possono cambiare, inaugurando una stagione nuova.

La Chiesa non può cambiare uno iota della parola di Dio. Ma deve essere pronta a cambiare tutti i pregiudizi che ha inevitabilmente associato alla Parola di Dio. Se la tradizione ha un futuro, esso passa attraverso questa continua purificazione, nella quale la continuità della Parola esige la discontinuità dei pregiudizi. Per questo l’accesso ai “ministeri istituiti” della donna deve essere salutato come il superamento del pregiudizio che ha separato, per tanti secoli, la donna dall’esercizio pubblico della autorità, anche nella Chiesa.

Con Thomas Halik possiamo quindi sperare che ora alla donna possa essere riconosciuta la possibilità di accedere al grado del diaconato del ministero ordinato, senza avere la pretesa di utilizzare argomenti vecchi e vuoti per impedirglielo. Chi vorrà farne ancora uso, sarà riconoscibile per la faccia rossa di vergogna. Forse non la sua, ma certo quella dei nipoti. Abbiamo bisogno della profezia di nipoti che arrossiscono e permettono agli zii e ai nonni di ravvedersi. Ce lo chiede proprio la tradizione: non quella che abita i musei del passato, ma quella che corre nei giardini del futuro.

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