L’equivoco della legge, di Luca Bagetto


Appena ho letto il testo di M. Recalcati su Repubblica del 3 aprile, e la discussione che ne è scaturita, ho subito pensato: su questo potrebbe dire cose molto belle Luca Bagetto, autore di un “San Paolo. La interruzione della legge” per Feltrinelli, che è singolarmente pertinente con la questione emersa. Gli ho chiesto se volesse scrivere un commento ed ecco qui il suo testo, una lunga meditazione di quanto ricca possa essere la concezione della Legge anche nella recezione cristiana. Lo considero un contributo prezioso e illuminante. Di questo lo ringrazio e spero che aiuti a comprendere meglio ciò che è in gioco nella rilettura della Pasqua e della vita cristiana che il riferimento alla Legge comporta. (a.g.)

 BagettoPaolo

L’equivoco della legge

di Luca Bagetto

Se si è un poco familiari con l’opera di Recalcati, si può capire che la polemica intorno alla sua evocazione della Legge veterotestamentaria è sostanzialmente un equivoco – anche se è urgente indagare come esso sia potuto sorgere. Non si tratta di una contrapposizione tra il sincero cuore evangelico e l’arida Legge dell’Antico Patto. La Legge non viene ridotta a quell’ipocrisia ritualistica che nella tradizione cristiana chiamiamo farisaica – e che spesso viene ancora sempre intesa come giudaica tout-court, secondo accenti che hanno sostenuto la tradizione antisemita. Piuttosto, in quell’articolo sulla Pasqua cristiana viene denunciata l’interpretazione moralistica della Legge tanto nell’Ebraismo quanto nel Cristianesimo.

Recalcati nella sua teoria della psicoanalisi sostiene una posizione non moralistica della Legge: sottolinea la effettività dei condizionamenti che ci limitano, cioè dei segni che ci scrivono e determinano ciò che siamo, definendo il godimento singolare di ciascun individuo. Si tratta di una Legge che pone un limite di situazione, e non di comando, al rapporto immediato, di pieno godimento, con le cose. La Legge è quel recinto simbolico dell’ordinamento effettivo che è legato al nome del Padre, sia nella tradizione greca, edipica, sia nella tradizione biblica, mosaica.

Recalcati sostiene questa posizione mosaica contro altre interpretazioni del pensiero di Lacan, che vedono nella Legge soltanto un dispositivo disciplinare e una ossessione del negativo, e si dirigono verso un pensiero affermativo del godimento: senza rappresentante, senza mediazioni, senza barriere della Legge. Recalcati per un verso si è dedicato a mostrare che la negazione del rappresentante e della mediazione tende a preparare nuovi padroni – anche nel campo politico. Per un altro verso si è impegnato nella ricerca di una Legge che non sia puramente disciplinare, ma che diventi una forma avvincente, una legge del desiderio, una pienezza che sorge da un No invece di una privazione che sorge da un fantasma di pienezza.

È proprio nel racconto biblico che questa Legge avvincente viene cercata. È una Legge della chiamata, che permette l’apertura, nel recinto simbolico, di una breccia che faccia spazio alla singolarità sempre eccezionale rispetto alla norma. Recalcati è interessato a una lettura di San Paolo che non opponga Legge ed Evangelo, ma che proponga un Messia raccontato dalla Legge. Il Messia è un’irruzione singolare, eccezionale, che apre sì una faglia nella Legge, ma che pure non la annulla. L’eccezione appartiene alla Legge – il trasgressore non è la negazione del fondatore: l’amore singolare, sempre eccezionale ed esclusivo, per il popolo eletto e per ciascun individuo, non è in opposizione alla costituzione di un popolo nuovo, come l’hanno fondato Mosè e Paolo attraversando una storia di gelosia e di infedeltà.

Perché è sorto questo fraintendimento intorno a presunti accenti antisemiti nella celebrazione pasquale di Recalcati?

Un primo motivo sta nel fatto che legge si dice in molti modi. Come avverte Jacob Taubes, già in Paolo nómos significa a volte la Torah, altre volte la legge universale, o la legge naturale, o tutte queste cose insieme. L’astrazione rispetto al particolare concreto, la cogenza uniformante, il ciclo ripetitivo e regolare della natura come Grande Madre, si sovrappongono ai tratti di una rivelazione amorosa. Perciò, quando Recalcati scrive della gravezza della Legge, può capitare che invece di intenderla rettamente, come il rischio di una interpretazione moralistica della Legge, la si fraintenda come l’essenza prescrittiva della halakhah, che pure è quella fedeltà nei piccoli gesti quotidiani che prepara la strada all’Arrivante.

Un secondo motivo è più complesso, ed è da trovare nell’interpretazione del Deuteronomio come ciò che sancisce, nell’Ebraismo, l’identità di fede e religione – laddove il Cristianesimo sarebbe la religione dell’uscita dalla religione, come vorrebbe Marcel Gauchet. È qui che la questione del moralismo si complica.

Su questo punto si gioca l’intera questione che ha attraversato il Novecento, come ha visto Andrea Grillo. Al cospetto della normalizzazione borghese del rispetto delle norme, cioè di fronte al pericolo di una società totalmente amministrata, già la Kierkegaard Renaissance dell’inizio del secolo scorso aveva presentato l’istanza dell’interruzione del sistema, del rovesciamento cioè della tesi neo-kantiana che sia conoscibile solo ciò che è normale e per così dire ritualizzato in categorie. La religione allora era il sistema – la fede era la sua contestazione, cioè il taglio verticale operato dal Totalmente Altro. L’accento sul Totalmente Altro giungeva, nelle declinazioni politiche, alla estremizzazione gnostica che contrapponeva il Dio redentore del mondo futuro al Dio creatore degli ordinamenti di questo mondo ingiusto e malvagio. Quando giunge il Messia, quando irrompe la sua grazia, non è più necessario obbedire alla Legge – è sufficiente aderire a Lui. La religione, come voleva Karl Barth, è l’insieme delle pratiche che costruiamo vanamente dal basso per attingere l’unità con l’Origine, attraverso l’ottemperanza a precetti infiniti. La fede è invece l’apertura a una parola verticale, di grazia, che dona senza garanzie la salvezza.

Per la mia generazione è stata una parola appunto decisiva. Ma, per me in particolare, non già attraverso Barth, bensì attraverso Bonhoeffer. Lì si trovava una salutare emancipazione, attraverso l’abbandono di un Dio tappabuchi, dagli aspetti nevrotici di una fede intesa come continua compensazione delle mancanze.

Ma Bonhoeffer, a differenza di Barth, non ripeteva semplicemente la contrapposizione tra la continuità delle opere e la discontinuità della grazia: univa invece in sé le due anime della teologia della grazia e della teologia liberale. L’Uomo Nuovo non perdeva mai il suo contatto con l’Uomo Vecchio e con la sua situazione effettiva, e la verticalità della chiamata chiedeva di essere interpretata secondo il luogo e il tempo, cioè di essere distesa lungo un asse orizzontale. Questo tema nietzscheano della fedeltà alla terra era declinato in Bonhoeffer con accenti veterotestamentari. Altrimenti, scriveva, si ricade come Barth in una sorta di positivismo della rivelazione verticale: una irruzione che si rifiuta alla prova della continuità – prendere o lasciare! – e alla benedizione delle dimensioni penultime degli habitus terreni.

Questa distensione nella continuità è ancora lo spazio dell’istituzione, della legge, della ripetizione che costruisce lentamente l’universale. Ma è una ripetizione che, come quella delle pratiche rituali quotidiane dell’Antico Patto, è stata vaccinata dal virus della normalizzazione, e non guarda all’indietro, all’induzione mnestica rassicurante rispetto all’ordine, bensì in avanti, verso una incerta promessa di grazia. È un percorso anti-gnostico, che mostra che il nostro amore per il mondo, coi suoi habitus, dev’essere addirittura superiore al nostro desiderio, già grandissimo, di cambiarlo.

La retorica del Totalmente Altro guida anche il suo apparente opposto, cioè l’idea che l’incarnazione smentisca ogni verticalità gerarchica istituzionale. Ma per questa via la conquista della continuità è solo apparente. La fede diventa il Totalmente Altro dall’istituzione. La chiamata non riesce quindi a pensare l’istituzione nella sua sostanzialità, proprio come non riesce a comprendere la halakhah. Domina allora l’idea che l’istituìto, che occupa uno spazio nella forma del precipitato di un’azione, sia l’elemento eteronomo e quindi mortifero rispetto al vitale, che scorre via e non insiste su niente. Nella produzione intensificata del vitale sta in apparenza la promessa di colmare i bisogni di tutti tagliando la testa alle istituzioni del potere e del controllo, come nel flusso orizzontale del codice algoritmico delle criptovalute, che fanno a meno di Stati e Banche Centrali. La concreta costituzione di una istituzione, che occupa uno spazio, viene ridotta a una mera posizione disciplinare di una regola astratta, che va ripudiata in nome della forza vitale orizzontale. La posizione della regola astratta accadrebbe proprio con la fine della concreta costituzione di Israele, con la distruzione del Tempio nel 587, e l’uccisione del re Sedecia: essa avrebbe trasformato il Messia, che doveva appartenere alla dinastia dei Re, in una figura di attesa. E ciò che articola questa attesa sarebbe un ritualismo sacerdotale astratto sempre a rischio di ipocrisia, e sempre fustigato dalla forza dei profeti, che hanno insegnato a diffidare della forma del potere.

Così, la legge scivola verso l’identificazione con quel potere che si è reso responsabile dell’esilio, o attivamente, per la sete di dominio di Nabucodonosor, o passivamente, per incapacità e corruzione dei governanti d’Israele. Il concetto di nómos successivo all’esilio si sarebbe ridotto, agli occhi di tutti i cultori dell’Uomo Nuovo, a un normativismo disciplinare della regolazione deuteronomica infinita. E piano piano, questa lettura fa corrispondere i poteri di questo mondo, come tali, con il soffocamento del profetismo, nella convergenza di Pilato e del Sinedrio, come matrice di tutti i cospirazionismi futuri. L’anti-istituzionalismo, per portare a conguaglio l’universale e il particolare, non trova altro mezzo che il sospetto e la chiamata morale in giudizio penale; proprio perché, invece di trovare il diritto nelle relazioni effettive di un’organizzazione sociale, cerca in continuazione un colpevole della scissione tra il singolo e l’universale, secondo l’essenza di ogni moralismo. La legge che ci costituisce è diventata la legge penale che ci purifica.

Recalcati sta elaborando una teoria dell’istituzione che faccia cadere l’equazione vitalistica tra la forma della legge e la costrizione puramente disciplinare. Non è tuttavia semplice aggirare gli equivoci generati da queste provenienze stratificate. Il rischio di ogni vitalismo è di vedere regole oppressive dappertutto, e di opporvisi, come scrive Andrea Grillo, riducendo la Legge al desiderio, in una sorta di autoreferenzialità, in un camuffamento, nell’obbedienza ad Altro, di un’obbedienza a sé.

Bonhoeffer non ha demonizzato il peso dell’occupazione istituzionale dello spazio da parte del potere. Sulle orme di Paolo ha invece mostrato, nell’istituzione, qualcosa che interrompe la presa di possesso, e che a volte è la luce fioca di un lucignolo fumigante, ma non appartiene perciò all’autenticità del cuore che si oppone alla malvagia istituzione. Questo spontaneismo dell’autenticità ha qualcosa di edificante, ma è appunto una nuova costruzione dal basso, che finisce nella moralizzazione dei conflitti e nella impossibilità di limitarli con l’istituzione giuridica. Invece, bisogna sottolineare che anche la lotta contro il potere è un atto istituzionale, così come la fede è un atto pubblico che non ignora la istituzionale possibilità di un conflitto con un nemico. La grazia è iscritta nella Legge, la trasgressione sta nella fondazione. Pensare l’istituzione significa tenere insieme la continuità della rappresentazione ordinata e la discontinuità dell’irruzione dell’evento – sia esso di crisi o di salvezza. Il fecondo equivoco della Legge consiste nella centralità, in essa, dei testimoni dell’irregolarità, cioè di quell’interruzione della normalità che è messianica, e non coincide con la retorica anti-istituzionale e con l’eversione indeterminata. L’illegalità movimentista conduce soltanto allo sfruttamento politico e morale della legalità, che conosciamo nei sistemi totalitari.

lbagetto@yahoo.it

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