Negare ogni potere per conservare tutto il potere. Affetti ed effetti del dispositivo di blocco.


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Anche negli ultimi tempi, una tendenza del magistero ecclesiale a “bloccare tutto”, pur conoscendo anche autorevoli eccezioni, soprattutto a livello di magistero papale, continua ad essere manifestazione consistente. Ciò che deve sorprendere è che questa “affermazione del potere” avvenga mediante la reiterata asserzione di “non avere il potere”. Che la affermazione del potere avvenga mediante una negazione del potere è un modo di argomentare che a partire dagli anni ‘70 si è diffuso nel discorso ecclesiale cattolico e ha assicurato progressivamente una vera e propria “paralisi” di quell’orientamento alla riforma e ai processi di aggiornamento, che il Concilio Vaticano II aveva provvidenzialmente reintrodotto nella vita della Chiesa. Altrove ho già trattato il fenomeno, identificando una sorta di “stile magisteriale”, che si basa su una strategia paradossale: negando la propria autorità, esso conserva tutta la sua autorità. (Cfr. il post di 5 anni fa http://www.cittadellaeditrice.com/munera/chiesa-in-uscita-e-esercizio-dellautorita-oltre-un-luogo-comune-del-magistero-recente/…). Riprendo brevemente il senso di quel primo ragionamento, per cercare di comprenderne anche i più recenti sviluppi.

1. Il problema della autorità

Nel dibattito ecclesiale scaturito dalle parole profetiche di papa Francesco sulla “Chiesa in uscita” e sul “superamento della autoreferenzialità” non si è ancora chiaramente compreso quanto questa priorità, che giustamente il papa ha enunciato fin dai primi giorni del suo ministero – e che già era chiaramente presente nel suo testo presentato alla Congregazione dei Cardinali in conclave – richiedesse una profonda revisione dello stile con cui la Chiesa pensa e agisce rispetto al tema del “potere”  e della “autorità”. Per poter “uscire dalla autoreferenzialità” e diventare davvero “eteroreferenziale” – ossia per non mettere al centro sé, ma l’Altro Dio e l’altro prossimo –  la Chiesa deve anzitutto riconoscere di essere investita di una reale ed efficace autorità. In altri termini, essa deve poter confidare nella possibilità di intervenire autorevolmente sulla propria dottrina e disciplina – su ciò che pensa di sé e su ciò che fa di sé -, senza cedere alla tentazione di “impedirsi un ripensamento”, magari in nome della fedeltà alla tradizioneLa Chiesa da un lato è istituita da un messaggio che non può controllare, e su cui non ha potere. Ma questo riguarda la “sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei”, non la “formulazione del suo rivestimento”, per usare la famosa distinzione con cui Giovanni XXIII, nel grande discorso Gaudet mater ecclesia, ha inaugurato la stagione conciliare, definendo così la “indole pastorale” del Concilio Vaticano II.

Se la Chiesa pensasse che l’unico modo di essere fedele al Vangelo fosse di continuare in tutto e per tutto come prima – sia dottrinalmente sia disciplinarmente – si convincerebbe subito di dover restare assolutamente immobile per essere pienamente se stessa. Farà dell’immobilismo la sua ossessione. A questa tentazione il Concilio Vaticano II ieri, e Francesco oggi, hanno voluto rispondere con l’esercizio di una parola profetica, che vuole anzitutto persuadere la Chiesa e il mondo di due cose:

– che la fedeltà è mediata dal movimento, dalla conversione, dall’uscire per strada, non dalla stasi, dalla paura e dal chiudersi tra le mura;

– che per muoversi occorre riconoscersi la autorità di stare nella storia della Chiesa e della salvezza in modo partecipe e attivo, non come spettatori muti e passivi o come semplici “notai”.

Questa considerazione, tuttavia, trova più di una resistenza non soltanto nella inevitabile inerzia del modello da superare, ma anche in alcuni “luoghi comuni”, di cui vorrei considerare quello che possiamo esprimere come la riduzione della autorità alla “rinuncia alla autorità”.  Si tratta di un luogo comune molto affascinante, che assume talvolta una notevole rilevanza nella esperienza ecclesiale e che il magistero può e deve utilizzare in passaggi complessi. Si traduce, formalmente, in una dichiarazione di “non possumus”. E’ questo uno dei punti chiave del “magistero negativo”, che la tradizione antica, medievale e moderna ha coltivato con attenzione e con cura. Si tratta, in ultima analisi, di una “autolimitazione del magistero”. Ma tale autolimitazione, che di per sé è a garanzia di “altro”, e che dunque dovrebbe arginare e ostacolare le forme della autoreferenzialità ecclesiale, è entrata con grande forza nella esperienza ecclesiale degli ultimi decenni, in particolare a partire dalla fine degli anni 70. Pur venendo da lontano, questo modo di argomentazione magisteriale ha conosciuto, proprio dopo il Concilio Vaticano II, una nuova e insperata fortuna.

2. Il “dispositivo di blocco”

Ora vorrei identificare con maggior chiarezza il cuore di tale argomentazione in un ragionamento artificioso – che per certi versi appare come una sorta di “sofisma” – e che non è difficile attribuire ad uno sviluppo integrale del magistero, in una parabola temporale di almeno 50 anni, che va dagli anni 70 fino ai nostri giorni. Si tratta di un “dispositivo teorico” che realizza, mediante una indiscutibile finezza retorica, un risultato prestabilito: blocca ogni cambiamento e fa prevale, affettivamente prima che concettualmente, un primato dell’antico sul moderno. E’ un “dispositivo di blocco”, che paralizza affettivamente, “per attaccamento”, ogni progetto di riforma.

Prima di analizzare le tappe principali di questo interessante fenomeno, che per brevità chiamerò “dispositivo di blocco”, vorrei chiarire meglio la peculiarità del mio approccio:

a) L’apporto di questo “modello di pensiero” è assai significativo ed è stato messo a punto in modo specifico dalla elaborazione teorica di J. Ratzinger: riguarda prima il Ratzinger Arcivescovo, poi il Ratzinger Prefetto e infine il Razinger papa: è cioè il frutto non del “primo Ratzinger”, libero da impegni pastorali, ma del “secondo e ultimo Ratzinger”, impegnato con responsabilità crescenti a livello di Chiesa diocesana e poi, ben presto, di Chiesa universale.

b) Il cuore della argomentazione è il frutto non soltanto di una indiscutibile competenza teologica, ma anche della abdicazione dalla ragione, in una forma piuttosto marcata, per dar spazio ad un “affetto”, o, ancora meglio, ad un “attachement”/“attaccamento” irrinunciabile, che viene assunto come auctoritas indiscutibile: la ratio cede ad una auctoritas affettivamente sovradeterminata, e per questo incontrollabile.

c) Per tale motivo è possibile attribuire al ragionamento la qualificazione di “dispositivo”: esso non spiega razionalmente, ma avvalora retoricamente e impone giuridicamente una soluzione che non ha solide basi se non in un affetto. Ciò determina l’effetto di far “evaporare” ogni legittima istanza di cambiamento, che trasforma immediatamente, e direi quasi violentemente, in una contraddizione con gli affetti e perciò in una negazione e in una minaccia per la tradizione.

d) Funziona, infine o forse anzitutto, da supporto teorico perfetto, quasi da assioma indiscutibile, per affermare un assetto resistente e immobile della Chiesa, di fronte ad un mondo minaccioso ed infido, al quale la Chiesa non deve piegarsi. Recuperando temi e motivi dell’antimodernismo di un secolo prima, il “dispositivo” funziona perfettamente da “blocco” anzitutto contro lo spirito di un Concilio Vaticano II percepito, sempre meno come risorsa e sempre più come “deriva”.

Questo “dispositivo di blocco” si presenta in numerosi esempi, storicamente progressivi, quasi come una “messa a punto” sempre più affinata e acuta di esso. La presentazione riguarderà, in ordine, 4 documenti ecclesiali del tutto caratteristici di questo approccio: la “Lettera sulla prima confessione” dell’Arcivescovo di Monaco, del 1977, la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 1994, la Istruzione Liturgiam authenticam del 2001, il Motu Proprio Summorum Pontificum, del 2007, a cui va aggiunta la “lettera ai Vescovi tedeschi” sulla questione del “pro multis”, del 2012. Al cuore di ognuno di questi documenti, in un arco di ben 35 anni, si trova lo stesso meccanismo argomentativo, chiaramente riconoscibile, affascinante e distraente, limpido e insieme oscuro, in cui attaccamento e ragione si fondono e si confondono. Una breve indagine sarà in grado di portarne alla luce il punto cieco, ma anche il debito che tutti abbiamo verso questo modo di ragionare e di impostare la riflessione sulla tradizione ecclesiale e dal quale, se vogliamo rileggere significativamente il Concilio Vaticano II, dovremmo prima o poi liberarci.

3. Quattro esempi del “dispositivo di blocco”

Presento qui solo 4 esempi di un modo di argomentare che oggi può essere ripetuto quasi ad ogni livello: in un testo di una Congregazione, in una lezione universitaria o  in una intervista sui giornali e può avere, come oggetto, qualsiasi “dottrina o disciplina ecclesiale”, su cui si afferma di “non avere potere”.

3.1. La Lettera sulla prima confessione (1977)

Il primo “luogo dottrinale” in cui è messo in opera il “dispositivo di blocco” è il rapporto tra prima confessione e prima comunione, che J. Ratzinger, allora Arcivescovo di Monaco, reimposta “contro” la svolta impressa dal suo predecessore, card. J. Doepfner, il quale aveva spostato la prima confessione dopo la prima comunione. La pretesa è di contrastare un “uso pedagogico” della tradizione, ma la teologia che dovrebbe guidare il nuovo avviso si identifica, semplicemente, con la “evidenza affettiva” del principio di autorità. Nel testo della lettera pastorale “Prima confessione e prima comunione dei fanciulli” (1977) Ratzinger arriva a capovolgere il senso della tradizione, pur di garantire la sopravvivenza della prassi (per lui) più tradizionale, affermando un primato di un sacramento di guarigione rispetto ad un sacramento di iniziazione, in grave tensione addirittura con il Concilio di Trento e con la differenza “di dignità” che esso esige sia riconosciuta tra i sacramenti. Egli afferma infatti: “solo con la confessione personale diventano vere le invocazioni di perdono della liturgia eucaristica e questa liturgia eucaristica della Chiesa conserva la sua grande profondità personale che per altro è il presupposto della vera comunione” (9). Giunge così a subordinare la comunione eucaristica alla confessione personale, come regola di approccio originario al senso della comunione stessa, con una evidente e grave forzatura della tradizione. Tutto questo, oltretutto, argomentato con una motivazione davvero sorprendente: il nuovo Arcivescovo chiede agli operatori pastorali di “lasciare le proprie idee più care per il bene della comunità”, ma di fatto, con questa lettera, egli impone le proprie idee più care – quelle per lui affettivamente più urgenti – a scapito del cammino di maturazione della comunità. Usare la Didaché come testo-chiave per affermare il primato della confessione individuale sulla comunione eucaristica è una argomentazione dottrinalmente audace, che manifesta un uso della “auctoritas” del tutto anacronistico e privo di riscontro. Ma qui, per la prima volta, appare il “dispositivo di blocco”: argomentando in modo vago, puramente affettivo, egli ottiene soltanto una “conformazione autoritaria” del comportamento, senza una motivazione teologica consistente.

3.2. La argomentazione di Ordinatio Sacerdotalis (1994)

Molti anni dopo, nel 1994, con Ordinatio sacerdotalis, di cui Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, fu il grande ispiratore, sul tema della “ordinazione delle donne al sacerdozio”, riprende con forza questo stile, dichiarando che “la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale”. Con una dichiarazione di “non autorità”, e di cui egli stesso chiarisce più tardi, la natura “non infallibile”, si vuole chiudere la questione, pur non escludendo che “altre ordinazioni” siano percorribili. La negazione della autorità determina la conferma della forma classica del potere ecclesiale e addirittura pretende di riconoscere, non infallibilmente, una tradizione infallibile. Sposta la infallibilità dal documento alla tradizione, con un salto mortale argomentativo assai azzardato. Senza assumere alcuna nuova autorità, si riconosce autorità soltanto al passato, senza tematizzazione alcuna delle novità culturali, antropologiche ed ecclesiali che l’ultimo secolo aveva recato, come se la storia non fosse. Nel cuore del documento, e della sua esplicazione successiva, appare con chiarezza, di nuovo, il “dispositivo di blocco”: affetto, attaccamento e autorità sostituiscono la ragione teologica. Sentimento e potere, al posto della ragione. Anzi, la ragione dovrebbe, a posteriori, limitarsi a giustificare il sentimento di attaccamento e il principio di autorità.

3.3 Liturgiam Authenticam (2001) e la lettera sul “pro multis” (2012)

Alcuni anni dopo, nel 2001, fu ancora J. Ratzinger l’ispiratore della V Istruzione sulla Riforma Liturgica Liturgiam authenticam, dalla quale scaturiva una nuova versione del “dispositivo di blocco”, con la assoluta affermazione del “primato del latino” sulle “lingue vernacole”. L’effetto di questa teoria priva di alcun fondamento storico – nella quale si arrivava a stabilire la irrilevanza della lingua dei destinatari e la pretesa di “traslitterare le figure retoriche latine” – era duplice: la paralisi del rapporto tra periferia e centro nella gestione delle traduzioni liturgiche e la dimenticanza che la “vita ecclesiale” non pulsava più nelle vene del latino, ma in quelle delle lingue nazionali, che non erano più, ormai da 50 anni, lingue di traduzione, ma lingue di esperienza e di creazione. Una ripresa successiva, nella Pasqua del 2012, da parte di papa Benedetto, di una lettera ai Vescovi tedeschi, sulla questione del “pro multis” metteva in luce, ancora una volta, la forza del “dispositivo di blocco”: la traduzione letterale “fuer viele” doveva imporsi “affettivamente” e “autoritativamente”, poiché sul piano concettuale doveva essere smentita da una catechesi accurata, che spiegasse come “per molti” significhi “per tutti”. Una immagine di singolare evidenza della contraddizione interna al “dispositivo di blocco”, con cui, in questo caso si afferma la “mancanza di potere” della Chiesa di parlare altre lingue diverse dal latino.

3.4. Parallelismo rituale, con effetto anarchico: Summorum Pontificum (2007)

L’ultima tappa di questo percorso efficace del “dispositivo” si incontra nel 2007, con il Motu Proprio “Summorum Pontificum”, mediante il quale, mentre si creava un parallelismo di forme rituali del medesimo “rito romano”, ci si spogliava della autorità di orientare la liturgia ecclesiale lungo le linee della Riforma Liturgica e si rimettevano in pieno vigore i riti che la Riforma stessa aveva voluto superare, denunciandone i limiti e le distorsioni. Anche in questo caso il Magistero “si autolimita” poiché non avrebbe la autorità di orientare la tradizione e le scelte dei singoli ministri ordinati, ma in tal modo restituisce autorità a forme di esperienza preconciliare. Il “dispositivo di blocco” qui argomenta di nuovo in modo astorico: “ciò che è stato santo una volta, deve poterlo essere sempre”. Dunque la Chiesa non si riconosce alcun potere di Riforma. Ciò che è stato di per sé si perpetua senza alcuna possibilità di orientamento o conversione. E un principio argomentativo, di per sé negativo e puramente astorico, dà causa ad effetti storici assai gravi: perdita di controllo dei Vescovi diocesani, accentramento del controllo in un organo “affettivamente condizionato” – la Commissione Ecclesia Dei -, il diffondersi di una rilevanza “politica” – in senso ecclesiale e in senso mondano – della “forma straordinaria” come “forma reazionaria”. Il dispositivo di blocco non ha fermato le cose: ha sicuramente bloccato lo sviluppo della Riforma e ha generato un vero e proprio “monstrum”, con conseguenze laceranti che già allora erano facilmente prevedibili.

4. Francesco e il superamento del “dispositivo di blocco”

Come è evidente, tutti questi impieghi del “dispositivo”, sia pure nella loro diversità di contesti e di effetti, fanno ricorso ad un “luogo comune” secolare del magistero. Hanno tutti in comune una sottile dialettica tra “perdita di potere” e “assunzione di potere”: nel momento in cui il magistero dice di “non avere autorità”, lascia nella autorevolezza lo “status quo” che tende ad identificare con il “revelatum”. Così inclina a sovrapporre ciò che è con ciò che deve essere. E pertanto opera un blocco il dibattito sulla relazione tra iniziazione e guarigione, sul ruolo ministeriale delle donne, sulle forme della inculturazione liturgica e sul cammino organico della riforma liturgica. Non è difficile notare come questo “non riconoscimento di autorità” si identifichi con una conservazione del potere acquisito, spesso diventando principio e alimento di una rischiosa inclinazione alla autoreferenzialità. E, come abbiamo visto, nel “dispositivo di blocco” questo risultato è ottenuto mediante una originale sintesi tra “attaccamento affettivo” e “ragione teologica ridotta al principio di autorità”.

In paragone a ciò, il “ritorno al Concilio” di papa Francesco appare segnato dalla esigenza di “ridare autorità” all’azione ecclesiale. Solo così essa potrà uscire dalla “tentazione della autoreferenzialità”. Ma per farlo deve assumere un diverso approccio alla tradizione. La Chiesa non si riconosce come una “storia chiusa”, come un “museo di verità da custodire”, ma come un “giardino da coltivare”. Per questo sarebbe molto utile rileggere il pontificato di Francesco, a otto anni dal suo inizio, non come una forma incerta e “soft” di ministero pastorale, ma come un ripensamento della forma con cui la Chiesa non rinuncia ad esercitare la autorità e supera il “dispositivo di blocco” che J. Ratzinger aveva messo a punto con tanta finezza per 40 anni. Francesco assume la esigenza di esercizio della autorità che i suoi predecessori avevano come sospeso, determinando sempre degli esiti caratterizzati da “paralisi”. Francesco ha disinserito il dispositivo, cambiando sia il ruolo dell’attaccamento affettivo, sia il ruolo della ragione teologica. Qui, a me pare, si colloca un elemento di profonda continuità con il Concilio Vaticano II e di inevitabile discontinuità rispetto al “dispositivo di blocco”. La cui incidenza, tuttavia, non è ancora tramontata.

5. Il dispositivo sospeso, ma non disinnescato

Sbaglia chi pensa ad un “destino irreformabile” collegato alla struttura stessa della Chiesa cattolica. Identificare il “dispositivo di blocco” significa distinguere, precisamente, un modo di argomentare, che si è diffuso progressivamente a partire dagli anni 70, da elementi che continuano ad agire in modo vitale nel corpo della Chiesa. In questi 8 anni di pontificato di Francesco sarebbe sufficiente citare 3 documenti, che esplicitamente smentiscono il dispositivo di blocco:

– Esortazione apostolica post-sinodale Amoris Laetitia (2016), che supera il primato insuperabile della “legge oggettiva” in materia matrimoniale, su cui, fino a Familiaris Consortio  si ripeteva che “la Chiesa non aveva potere”.

– Motu proprio Magnum principium (2017) che supera il primato della lingua latina sulle lingue parlate e restituisce alle lingue vive, e alle Conferenze episcopali che le parlano, una autorità originaria.

– Motu proprio Spiritus Domini (2021) che supera la riserva maschile sulla ministerialità ecclesiale e per la prima volta in modo esplicito rende possibile la attribuzione formale a donne di “ministeri ecclesiali”.

In tre ambiti su cui la tradizione aveva tentato di identificarsi in forme storiche autorevoli, ma contingenti, la Chiesa, con la autorità del Sinodo e di atti papali, si è riconosciuta il potere di modificare e di aggiornare la disciplina e, in una certa misura, la stessa dottrina. La tentazione di estendere la sostanza immutabile a tutta la dottrina e a tutta la disciplina è sempre stata forte nella storia della Chiesa moderna e contemporanea. Gli antichi e i medievali erano, da questo punto di vista, molto più liberi. Oggi la sfida consiste nel ritrovare la libertà degli antichi e dei medievali e superare le rigidità che la vicenda moderna e tardo-moderna hanno imposto alla tradizione. Il colpo di reni del Concilio Vaticano II resta una eredità insuperata. Nonostante questo grande apporto offerto dal magistero di Francesco, vediamo negli ultimi tempi che il dispositivo di blocco continua ad essere una “risorsa a poco prezzo”, facilmente utilizzabile per bloccare ogni cammino di riforma, indifferentemente applicabile ai ministeri o alla sessualità, ai progetti sinodali o alle forme della celebrazione. Il dispositivo oggi appare talora “autorevolmente sospeso”, ma non “ecclesialmente disinnescato”. A 60 anni da quel Concilio abbiamo oggi la urgenza di andare oltre, con serenità e lungimiranza,  ogni tentazione di cedere ancora al “dispositivo di blocco”. E’ vero: la Chiesa non ha potere su ciò che la istituisce e al cui servizio presta tutta la sua opera. Ma identificare con troppa immediatezza aspetti contingenti della tradizione con questa “sostanza intoccabile” non è segno di fedeltà, ma di paura. La Chiesa, per custodire ciò su cui non ha potere, e che solo può giustificarla, deve riconoscersi apertamente il potere di cambiare e di adattare tutto il resto, se vuole restare capace di “uscire da sé” e di incontrare, nel mondo, il rivelarsi del suo Signore. Una chiesa che invece fosse “bloccata su tutto” e che mostrasse di saper cambiare solo le “invocazioni a S. Giuseppe” offrirebbe di sé un volto allo stesso tempo spaventato e autocentrato.

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