Uso da promuovere, non abuso da ostacolare: la svolta liturgica del Vaticano II
Le discussioni intorno al Motu Proprio “Traditionis Custodes” rivelano, soprattutto nella considerazione della “messa antica”, una certa fragilità rispetto ad uno degli intenti fondamentali che hanno caratterizzato il Concilio Vaticano II e la sua cura per la tradizione liturgica. Come abbiamo visto nell’ultimo post di questo blog, anche un teologo di valore come H. U. von Balthasar sapeva bene che occorre distinguere tra “questioni ultime” e “questioni penultime”. Richiamo qui brevemente una sua affermazione dalla quale vorrei prendere avvio nella mia riflessione.
a) Ragioni ultime e ragioni penultime
Nel suo testo Balthasar chiarisce bene un aspetto piuttosto nascosto della questione:
“Prende o dà scandalo, come ebbe a sentenziare Guardini, chi pretende di aver ragione adducendo argomenti «penultimi», cioè non perentori. Simili ragioni penultime sono in questo caso il clamoroso abuso del nuovo Ordo liturgico da parte di un gran numero di ecclesiastici, mentre la ragione ultima parla, nonostante tutto, per la Chiesa del Concilio e contro i tradizionalisti. La S. Messa aveva urgente bisogno del rinnovamento, soprattutto di quell’attuosa partecipazione di tutti i fedeli all’azione sacra che nei primi secoli era qualcosa di assolutamente pacifico” (H.-U. Von Balthasar, Piccola guida per i cristiani, Milano, Jaca Book, 1986, 112)
Questa differenza merita una parola di commento e di approfondimento. Che cosa significa, davvero? Proviamo a considerare bene l’ottica con cui il Concilio Vaticano II è entrato “in re liturgica”. Assumendo in pieno la “questione liturgica” il Vaticano II esce da un’ottica ristretta, che considerava l'”abuso” come il problema centrale della liturgia. Questa prospettiva discende da una serie di premesse che meritano di essere apertamente contestate:
– la liturgia è il linguaggio dei preti
– ai preti è prescritto un “ritus servandus”
– se i preti non osservano questo rito, commettono un abuso
Di fronte a questa impostazione distorta, il Concilio Vaticano II ha ridotto questo problema – che a modo suo resta anche oggi – ad una “questione penultima”. Perché ha posto, in primo piano, una “questione ultima”, che non riguarda l’abuso liturgico, ma l’uso liturgico.
b) Dall’abuso all’uso: il cambio di paradigma
Ciò che Sacrosanctum Concilium imposta, in modo esemplare, è precisamente questo recupero della liturgia in una diversa prospettiva, i cui criteri sono, a differenza del modello precedente:
– la liturgia è linguaggio comune, la cui azione è partecipata dall’intera assemblea;
– non solo ai preti, ma all’intera assemblea è prescritto un “ritus celebrandus”;
– l’impegno fondamentale è la “promozione dell’uso” di questo rito, e solo subordinatamente la “lotta all’abuso”.
L’esito di questo mutamento sta in una rilettura della tradizione del “rito romano” che si alimenta di tre novità strutturali, le cui conseguenze sul piano ecclesiologico, pastorale e spirituale sono di prima importanza. Promuovere la partecipazione attiva significa, in sostanza, “cambiare uso” della liturgia.
c) Lo “stato di minorità” di Summorum Pontificum
E’ evidente come, se esaminiamo le cose da questa prospettiva, appaia che SP ha avuto due motivi di grave debolezza, proprio a causa di questa non chiara comprensione del primato dell’uso sull’abuso:
– da un lato, assumendo come normali “due usi paralleli”, SP oscurava in modo grave l’intento deciso con cui il Vaticano II aveva indicato, con tutta la sua autorità, ben “sette” punti di non ritorno rispetto all’uso della messa tridentina: solo il NO, elaborato in ottemperanza al Concilio, ha garantito maggiore ricchezza biblica, preghiera dei fedeli, omelia, lingua volgare, unità delle due mense, concelebrazione e comunione sotto le due specie (SC 51-58). Questo “uso” diventa normativo, mentre persistere nel VO significa inevitabilmente disattendere questi imperativi conciliari. SP aveva emarginato obiettivamente la centralità di queste priorità.
– dall’altro, tra le sue giustificazioni, SP rimane legato alla prospettiva del “primato dell’abuso sull’uso”, perché fa dell’uso del VO una sorta di “temperamento degli abusi legati al NO”. In realtà questa lettura è largamente fallace. Perché il NO introduce “usi più complessi” del rito romano, che chiamano alla azione, alla responsabilità, alla parola non solo il “prete”, ma tutta la assemblea. Di qui deriva, strutturalmente, la non comparabilità tra VO e NO. Sono due fasi di sviluppo del rito romano, che non possono darsi contemporaneamente se non in casi eccezionali e destinati alla estinzione.
d) La custodia della tradizione
Ecco allora apparire in una nuova luce la questione dell’uso in rapporto all’abuso. Per il Concilio Vaticano II è più importante imparare un nuovo uso del rito romano piuttosto che evitare gli abusi legati ad una concezione clericale, formale e separata dell’atto di culto. Guardini sapeva bene che la vera sfida della riforma liturgica era “reimparare l’atto di culto”. Per impararlo non è più sufficiente la “lotta agli abusi”. Occorre anzitutto reimparare usi: reimparare l’uso della liturgia della parola, l’uso della anafora, l’uso del rito di comunione. Questa è cosa molto più complessa della lotta agli abusi, ma anche molto più vitale. Per questo la “custodia della tradizione” non può neppure concepire che i nuovi usi possano essere custoditi permettendo che si torni ai vecchi usi. Si tratta piuttosto di entrare con decisione dentro una nuova prospettiva, che passa dal “ritus servandus” del VO al “ritus celebrandus” del NO. Questa sapienza celebrativa non può essere oggetto di cura, se si lascia in piedi una lettura clericale, separata e formalistica della liturgia. Il congedo dal VO è un imperativo del Concilio Vaticano II, perché una nuova “ars celebrandi”, che non riguarda solo i preti, coinvolga in radice l’assemblea e plasmi in modo nuovo la preghiera e la Chiesa: questo uso non può essere oggetto di “libera opzione”, né per qualsiasi prete, né per ogni singolo Vescovo, e neppure per i Sommi Pontefici. Qui il vero abuso è costituito dagli attaccamenti emotivi e dalle nostalgie del passato.
Gent.mo Grillo,
a forza di considerare tutto “questioni penultime” siamo di fatto arrivati a celebrazioni “Novus Ordo” che si distinguono per:
1) sciatteria rituale;
2) dozzinalità di gesti e simboli;
3) banalità di canti;
4) usurpazioni del rito in chiave socio-politica;
5) congerie di parole e commenti inutili;
6) omelie valanghe retoriche;
7) disaffezione dei fedeli;
8) noia dei preti…
Potrei davvero continuare. C’è ancora qualche cieco che non è in grado di vedere il problema partecipando ad una qualsiasi “assemblea domenicale” (ormai bisogna chiamarla così per non essere tacciati di tridentinismo autonomista)?
Sono più che d’accordo che la soluzione non possa essere un fantomatico biritualismo. Ma anche il rito postconciliare ha effettivi problemi.
Non essendoci alternative, occorre affrontare le singole questioni. Vedo però che la tendenza a guardare gli abusi piuttosto che recuperare gli usi è molto facile.
In un precedente commento ho già fatto alcune proposte concrete, ad esempio sul recupero di riti della settimana santa. Evidentemente piace più l’intellettualismo della concretezza!
Ecco una possibile traccia profonda che apre a possibili ben centrati e ben liberati sviluppi:
https://gpcentofanti.altervista.org/lermeneutica-rinnovatrice-della-messa/
In Francia, le reazioni dei vescovi (la migliore è quella del vescovo di Fréjus-Toulon) al Motu Proprio TC sembrano essere le seguenti: rassicuriamo le comunità tradizionaliste (che danno alla colletta) e affermiamo che non abbiamo nessuno dei problemi segnalati da Papa Francesco. È lui che vede le cose in questo modo e che ha paure che non esistono tra noi. Questa è una palese menzogna e sappiamo che la menzogna è il peccato dei vescovi. Grazie, caro professore, per aver denunciato questa differenza essenziale tra abuso e uso, paura e fiducia. Il modo di pensare fondamentalista, come ha ben analizzato padre Marc Oraison, è essenzialmente una nevrosi. Papa Francesco ha ragione: la nostra Chiesa è davvero un ospedale da campo con, bisogna dirlo, una sezione psichiatrica abbastanza sviluppata. La follia della “messa di sempre” si sta svolgendo davanti ai nostri occhi in questi giorni in piena grandezza.
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Penso che le follie perpetrate attraverso le celebrazioni novus ordo non siano lontanamente paragonabili. Stia sereno caro padre!
I vescovi ora hanno una bella gatta da pelare! Perché è un’illusione pensare che i tradizionalisti mollino l’osso! E quindi, a parte casi isolati, il motu proprio rimarrà sulla carta senza reale applicazione con l’aggravante che l’autorità del papa sarà ulteriormente indebolita. Però anche con buona pace dei progressisti che la vogliono smantellare! infatti, argomento che meriterebbe una disamina approfondita, i progressisti si servono per questa battaglia proprio di quella autorità assoluta del vescovo di Roma il cui ridimensionamento è uno degli obiettivi principali! Penso che presto si tornerà indietro su questo motu proprio! Per ora dalle notizie che ho nelle parrocchie si continua a celebrare VO…con buona pace del MP!
Ci sono una serie di confusioni in quello che scrive. I vescovi hanno ora la autorità che era stata loro negata da SP. Questo è normale, con i suoi pregi e difetti. D’altra parte questo passaggio sposta una parte della autorità dal papa ai vescovi, come è giusto in una materia complessa come le forme liturgiche in tutte le diverse diocesi della Chiesa universale. QUindi né gatte da pelare, né ridimensionamento del papa. Ma semplice polarità costitutiva della Chiesa, che SP aveva cercato di alterare. Sul fatto che alcune comunità continueranno a fare ciò che loro non è permesso, questo riguarda le dinamiche inevitabili della applicazione della legge, che non è mai automatica. Importante è che, chi lo fa, e lo fa senza autorizzazione, sappia di lavorare contro la tradizione.
La natura profonda di tante questioni:
https://gpcentofanti.altervista.org/i-potenti-benefattori/
Importantissimo intervento di Benedetto XVI che di fatto sembra accogliere sia le mie osservazioni a lui sia le mie osservazioni a Francesco
https://gpcentofanti.altervista.org/il-traboccamento-di-benedetto-xvi/
L’intervento di Benedetto potrebbe andare soppesato parola per parola, magari segnalando esso ulteriori aperture di strade:
https://gpcentofanti.altervista.org/domande-sullintervista-di-benedetto-xvi/
Attendo se possibile interventi sull’ultima intervista di Benedetto. Ampiamente collegati con i temi trattati. E tra l’altro non bisogna cadere nell’inganno di cercare necessariamente collegamenti di corto respiro impedendo quelli profondi.
https://gpcentofanti.altervista.org/il-segnale-dellomologazione-dei-papi/
Alcune considerazioni, e sarò grato a chi dovesse trovarmi in errore.
E’ vero o non è vero che il vetus ordo (Pio V) è stato la lingua franca del rito centrale cattolico per oltre 400 anni ?
E’ vero o non è vero che le direttive del Vaticano II in fatto di liturgia sono chiaramente contenute nella Sacrosantum Concilium?
E’ vero o non è vero che la Messa del novus ordo (Paolo VI) riflette assai poco, così come interpretata nella totalità o quasi delle parrocchie, i principi della Sacrosantum Concilium, soprattutto per quanto riguarda la totale abolizione di latino e gregoriano, per nulla prevista e tantomeno sancita dalla SC che dettava invece l’ampio ricorso alle lingue parlate riservando però al latino una presenza importante? Per non parlare della Veterum Sapientia di papa Roncalli.
E’ vero o non è vero che Pio V vietò sì i riti disordinati allora in uso, ma consentì la pratica di quelli sufficientemente vecchi sperimentati e sedimentati? E 400 anni non sono un certificato di anzianità sufficiente?
Infine, e ribadendo il principio che la Chiesa avrebbe fatto bene a fare ricorso alle lingue parlate molto prima, almeno 70-80 anni prima, ma senza bandire il latino, è vero o non è vero che molti antesignani del “volgare totale” dicevano che l’uso della lingua parlata avrebbe riempito di nuovo le chiese, mentre invece dopo 50 anni e più di lingua parlata, e solo di quella, le chiese sono sempre più vuote, e così pure seminari conventi congregazioni e tutto il resto?
Chi scrive non ha mai sentito l’urgenza, in tanti anni, di partecipare a una messa vetus ordo, a suo tempo ben nota e da chi scrive praticata. La cosa avrebbe oggi, per chi scrive, un leggero sapore museale. Ma la totale abolizione dei vecchi riti e della vecchia lingua liturgica è stato un fatto di incredibile, autolesionista superficialità che squalifica intellettualmente un’intera classe dirigente ecclesiale. La vecchia lingua era, e resta nonostante tutto, di enorme valore culturale e identitario per i cattolici di mezzo mondo, che anche quando non capiscono (capivano) il latin de l’église riconoscono (riconoscevano) però il suono e le melodie antiche e ne colgono (coglievano) il significato. Così pregavano i loro padri e questo non si può cancellare ope legis; solo il tempo se vorrà potrà farlo, e non è ancora successo, altrimenti non saremmo qui a dibattere.
La Traditionis Custodes è l’apoteosi di questo autolesionismo.
Con prenesse false si arriva sempre a deduzioni disastrose. Molti suoi è vero sono falsi. perciò il profeta di sventura resta in errore.
Caro professore, senza farla per le lunghe, mi dica in tre righe quale delle mie premesse è falsa e perché. Basta una, sulle tre o quattro che ho brevemente tracciato. In caso contrario, rispedisco gentilmente al mittente le sue attribuzioni di falsità. Vorrà forse dirmi che avere utilizzato Pio V e il suo divieto di allora per giustificare il divieto del vetus ordo del 16 luglio 2021 è storicamente corretto, giuridicamente appropriato, e si basa su una perfetta analogia dei due casi? Se è così, desisto, non ho argomenti contro chi ritiene che la Luna sia fatta di formaggio.
La terza premessa falsa ogni deduzione. Mi dispiace, ma deve uscire dai suoi pregiudizi per capire.
Se lei cerca di uscire dai suoi, di pregiudizi (eg, la necessità di plasmare una nuova liturgia, una nuova Chiesa, dove non si capisce chi dovrebbe plasmare, su mandato di chi, e chi essere plasmato), io potrei cercare di uscire dai miei. Comunque, polemiche a parte, la ringrazio, e non intendo annoiarla oltre. Le lascio un versetto di…Georges Brassens, certamente a lei già noto, come saluto: Ils ne savent pas ce qu’ils perdent, Tous che fichus calotins, Sans le latin, sans le latin. (Tempȇte dans un bénitier, 1976)
Cordialmente