Il Concilio “sotto tutela”? Il paternalismo rituale come sintomo


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Come tutte le realtà istituzionali, anche quelle ecclesiali sono collocate nello sviluppo organico “di generazione in generazione”. Questo aspetto della tradizione, spesso trascurato, può illuminare in modo non secondario anche i discorsi che negli ultimi giorni stiamo intrecciando sul MP “Traditionis custodes”, spesso dimenticando le ragioni che stanno a monte dei due documenti “simbolo” di questa querelle. Per questo credo sia utile considerare il passaggio da Benedetto XVI a Francesco come il passaggio tra i papi padri del Concilio e i papi figli del Concilio. Provo a chiarire questa prospettiva e ad applicarla alla questione liturgica.

a) Papi padri del Concilio e il primo papa figlio del Concilio

Gli ultimi 5 papi sono stati “padri conciliari”. Questo non è un dato scontato. Perché ha segnato in modo irriversibile il loro rapporto con il Concilio, come quello con un “figlio”. Salvo Giovanni XXIII, che ha visto solo il concepimento e la prima gestazione del figlio, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno accompagnato il figlio nel suo cammino di 50 anni. In questo rapporto di generazione essi hanno avuto tutta la gioia e tutto l’imbarazzo dei padri verso i loro figli. Avendone determinato i testi, le logiche, le aperture e le novità, se ne sono sentiti responsabili. E ne hanno avuto anche paura. Questa relazione “responsabile” ha indotto, in qualche caso, ad atti di “paternalismo”: i padri hanno sostituito il figlio, lo hanno messo a tacere, non hanno avuto fiducia in lui o lo hanno sottovalutato. Arrivando talora ad un rapporto segnato dalla colpa, dalla angoscia e quasi al disconoscimento. L’ultimo di questi papi, Benedetto XVI, pur non essendo vescovo conciliare, è stato un perito assai influente, che ha determinato profondamente alcune decisioni assunte dalla assise. Ma, come prete, come teologo, anch’egli, nato nel 1927, ordinato nel 1950, era il prodotto di una Chiesa profondamente diversa. Tutti i padri del concilio erano figli della Chiesa della prima metà del secolo.  Questo non vale per Francesco, che è il primo papa “figlio del Concilio”. Questo significa diverse cose: pur essendo di soli 9 anni più giovane del suo predecessore, è stato ordinato quasi 20 anni dopo di lui, nel 1969 ed è stato formato sui testi, nei riti e nelle forme della Chiesa conciliare. Per questo Francesco è figlio del Concilio: non solo perché è cresciuto nella “forma ecclesiae” scaturita dal Concilio, ma soprattutto perché non ha e non deve sentire alcuna responsabilità verso il Concilio. Non lo ha determinato, come i suoi predecessori, ma ne è stato determinato. Come accade ai figli. Questo lo rende libero di viverne gli insegnamenti e le forme con una immediatezza diversa, spigliata, diretta, quasi spensierata. Come accade ai figli, che non hanno direttamente la responsabilità dei padri.

b) Summorum Pontificum e Traditionis Custodes: padri e figli

La tradizione conosce passaggi decisivi quando le generazioni rielaborano il sapere dei padri. Questa è una condizione insuperabile della tradizione, anche di quella liturgica. Che fiorisce anche grazie a questi passaggi di generazioni. Che cosa è accaduto con SP? Ad un certo punto, nel 2007, un papa padre del Concilio, l’ultimo, ha pensato di poter “rimediare” ad un figlio che quasi non riconosceva più, mettendolo quasi “sotto tutela”. Ossia riproponendo come vigente, accanto al “rito figlio”, il “rito padre”. Ma questa “tutela” inventata in extremis non permette né al rito tridentino di “invecchiare dignitosamente”, né al rito del Vaticano II di farsi le ossa con tutta la nuova responsabilità che doveva necessariamente assumere. Francesco ha abrogato SP non per “smentire” Benedetto, ma per assumere la responsabilità di figlio. Il rito figlio assume così in pienezza e in esclusiva la eredità del padre. Deve camminare come “unica forma del rito romano”, assumendo su di sé non solo la nuova comprensibilità, la partecipazione attiva, la nuova ministerialità, ma anche il mistero, la indicibilità di Dio, la potenza del silenzio e la potenza del tempo. Nella successione tra SP e TC si può vedere l’ultimo gesto dell’ultimo  dei “papi padri conciliari” e il primo gesto dei “papi figli del Concilio”.

c) La liturgia come “sintomo”

Un Concilio “sotto tutela” è stata la tentazione di una lunga fase, che inizia da alcuni aspetti del pontificato di Paolo VI, da altri di Giovanni Paolo II e infine da molte iniziative di Benedetto XVI (già presente come autorevole Prefetto nel pontificato precedente). Questa sequenza di “ridimensionamenti liturgici” del Concilio  – la contestazione della “assemblea celebrante”, della autonomia delle lingue parlate rispetto al latino, la invenzione della “forma straordinaria” come sopravvivenza indenne di ciò che il Concilio ha voluto riformare –  parlano non solo di liturgia. Il paternalismo del VO rispetto al NO è la forma con cui l’ultimo papa “padre del Concilio” ha pensato il figlio con quella diffidenza e con quel disagio che tutti abbiamo ascoltato senza veli la sera del 11 ottobre del 2012, dalla finestra degli appartamenti papali, nella infelice rievocazione del “discorso della luna”, che ha dato voce alla triste analogia tra “Concilio” e “peccato originale”. Francesco appartiene ad un’altra generazione. Per questo non può neppure concepire un paternalismo rituale del VO rispetto al NO. E’ un mondo che non gli appartiene e che non capisce. Come accade ai figli rispetto ai padri. egli ha ricevuto dalla Chiesa pensata dal Concilio Vaticano II l’unica forma di rito romano con cui fare esperienza del mistero.

Una storia di padri e di figli spiega la successione tra documenti tanto diversi: nei quali si esprimono non anzitutto questioni ideologiche o strategie pastorali, ma condizioni generazionali e passaggi tra epoche. La tradizione fiorisce se i padri sanno affidare ai figli la loro eredità, con tutta la differenza che questo comporta per l’esperienza e per il linguaggio ecclesiale. Non avere paura del fatto che i figli crescano è l’unico rimedio a quelle forme di paternalismo che proiettano sui figli le paure dei padri, impedendo loro di crescere e di rinnovare la tradizione. La irreversibilità del Concilio Vaticano II passa attraverso questo rapporto cavalleresco tra padri e figli.

 

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