Il sacro è immutabile? Il presunto principio che R. Sarah ha imparato da J. Ratzinger
La recente reazione del Card. Robert Sarah al MP “Traditionis Custodes”, che si può leggere qui in italiano, al di là degli spunti polemici e delle affermazioni azzardate, mostra in modo assai chiaro come tutto il suo ragionamento ruoti intorno alla pretesa “evidenza di un principio” che appare altamente problematico: è infatti un principio che non è un principio. Ma andiamo per ordine. Riassumo brevemente il testo. Per R. Sarah la Chiesa cattolica deve essere un punto di riferimento a livello mondiale, come principio di unità. Per far questo deve restare “nella catena ininterrotta che la lega a Cristo”. Questo legame a Cristo è “sviluppo organico, che chiamiamo tradizione vivente”. Fino a qui, tutto bene. Ma nel secondo passaggio chiama in campo Benedetto XVI e la sua espressione di questa “tradizione vivente”, così come appariva nella “lettera ai Vescovi” che accompagnava nel 2007 Summorum Pontificum
“Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che le generazioni precedenti ritenevano sacro, rimane sacro e grande anche per noi, e non può essere improvvisamente completamente proibito o addirittura considerato dannoso. È dovere di tutti noi preservare le ricchezze che si sono sviluppate nella fede e nella preghiera della Chiesa, e dare loro il giusto posto”.
Questo è il “principio”, che potremmo chiamare “principio di immutabilità del sacro” che vorrebbe fondare sistematicamente, nel 2007, una costruzione giuridica assai ardita, che sconfina largamente nella “finzione”: da questo principio si pretende di derivare una “vigenza parallela” di due “forme” o “usi” del rito romano, che però si contraddicono, poiché la seconda è nata per emendare, correggere, integrare e convertire la prima. Il principio, infatti, ricostruisce la “continuità” come contemporanea vigenza di forme tra loro non coerenti. Qui vi è un vizio logico, storico, spirituale e teologico che inficia sia la ricostruzione storica, sia la soluzione pratica: essa pretende di istituire, in vista di una pretesa riconciliazione, un parallelismo rituale tra “forma ordinaria” e “forma straordinaria”, che in realtà mina in radice la pace ecclesiale.
Occorre essere molto chiari: la pace nella chiesa non si realizza perché a ciascuno è accessibile la “propria” forma rituale, ma perché tutti si riconoscono nell’unica forma vigente. R. Sarah, leggendo in modo superficiale le parole di Benedetto XVI, immagina che la “continuità” possa essere garantita solo dalla “molteplicità parallela delle forme”. Egli scrive infatti:
“Se la Chiesa afferma la continuità tra quella che viene comunemente chiamata la Messa di San Pio V e la Messa di Paolo VI, allora la Chiesa deve essere in grado di organizzare la loro coabitazione pacifica e il loro reciproco arricchimento. Se si dovesse escludere radicalmente l’una a favore dell’altra, se si dovesse dichiararle inconciliabili, si riconoscerebbe implicitamente una rottura e un cambiamento di orientamento. Ma allora la Chiesa non potrebbe più offrire al mondo quella continuità sacra, che sola può darle pace”
Ciò che a R. Sarah manca, rispetto alle parole di Benedetto XVI, è la categoria di “ermeneutica della riforma”. Sarah ragiona secondo la contrapposizione tra “continuità” e “rottura”. E pensa che non vi siate altra mediazione possibile. Nel famoso discorso alla Curia Romana del dicembre del 2005, tuttavia, Benedetto parlava di “ermeneutica della riforma” e in essa trovava la mediazione tra assoluta continuità e assoluta discontinuità.
Ora, è vero che in Summorum Pontificum Benedetto XVI sembra pensare la riforma solo come “continuità della forma straordinaria”. E qui c’è il punto cieco di quel documento, la sua fragilità sistematica, e l’azzardo istituzionale che realizza e che in qualche modo propaga anche nel nostro futuro. Con un principio di immutabilità del sacro che è tutt’altro che evidente si è preteso fondare una “pace” che in realtà era solo una “guerra fredda”.
D’altra parte R. Sarah sembra ignorare un elemento che sarebbe molto utile alla sua riflessione. Il presunto “principio” enunciato da Benedetto XVI non ha alcun precedente nella tradizione liturgica, se non nelle parole del Card. Siri, nel 1951, e in quelle di Mons. Lefebvre, nel 1968. Entrambi avevano in qualche modo domandato (il primo a Pio XII e il secondo a Paolo VI) di restare “immuni” dalle riforme che quei papi avevano realizzate. Il principio di “immunizzazione” dalle riforme, però, non può essere venduto come un principio di pace. E’ piuttosto un elemento di conflitto universale, che mina la unità di ogni chiesa particolare, perché interrompe lo sviluppo organico della tradizione, che sempre procede mediante una continuità che si arricchisce di passaggi discontinui.
Per chiarire meglio le cose vorrei mostrare, a contrario, la impraticabilità concreta del “principio di immutabilità del sacro”. Nel momento in cui si accettasse che ogni “forma sacra” della liturgia cattolica resta valida indipendentemente da ciò che Concili, papi o vescovi possano aver deliberato in proposito, saremmo nella concreta impossibilità di orientare un comune cammino di sviluppo del culto. L’esempio più lampante è emerso proprio dalla “applicazione” che la Commissione “Ecclesia Dei” ha compiuto del testo di SP. Il “principio di immutabilità del sacro” si rivela in questo caso, appunto, come un principio “anarchico”: una volta che si sia affermato quel principio, nessuna forma è davvero “ultima” e “certa”. Lo si è visto bene per il Triduo pasquale: alla Commissione Ecclesia Dei diversi Istituti e Vescovi (soprattutto nordamericani) avevano chiesto la facoltà di poter celebrare con i riti non del 1962, ma con quelli precedenti le riforme del 1951-1956, operate da Pio XII. Di per sé il principio di immutabilità del sacro permette un “regresso” senza fine: anzi, lo rende quasi normativo! Così quasi ogni parrocchia, per non dire ogni prete, avrebbe potuto avere il suo rito differente e “più sacro”!
Alla luce di questo esempio, appare davvero sorprendente il modo sgarbato e ingiustificato con cui R. Sarah chiude il suo intervento, alimentando una polemica diretta non solo infondata, ma paradossale nei confronti di Papa Francesco:
“Un padre non può introdurre sfiducia e divisione tra i suoi figli fedeli. Non può umiliare alcuni mettendoli contro altri. Non può ostracizzare alcuni dei suoi sacerdoti. La pace e l’unità che la Chiesa pretende di offrire al mondo devono prima essere vissute all’interno della Chiesa. In materia liturgica, né la violenza pastorale né l’ideologia di parte hanno mai prodotto frutti di unità. La sofferenza dei fedeli e le aspettative del mondo sono troppo grandi per impegnarsi in queste strade senza uscita.”
Per restituire le cose alla loro verità occorre dire, con grande chiarezza: da sempre lo “sviluppo organico” del rito romano ha trovato continuità dopo una riforma nella assunzione comune della nuova forma, non nella conservazione della nuova insieme alla vecchia. La pace si fa nella comune accettazione del percorso di riforma, non nel contrapporre il vecchio rito al nuovo. Con TC nessuno è stato umiliato o contrapposto. Diciamo invece che alcuni erano stati illusi che la pace potesse essere favorita “ibernando” il Concilio Vaticano II e le sue conseguenze. Non è garantendo ad una parte della Chiesa di poter essere cattolica facendo a meno di entrare nelle logiche del Vaticano II che si può pretendere di assicurare una vera pace. Il gesto veramente cattolico non è il principio equivoco della immutabilità del sacro e la finzione giuridica delle doppia forma inventata da papa Benedetto, ma il realismo ragionevole di Francesco: egli restituisce al Concilio Vaticano II e ai vescovi la loro autorità, ristabilisce quale sia l’unica forma vivente del rito romano e permette così alla Chiesa di diventare autorevole in modo unitario. La grande tradizione da custodire non è quella del parallelismo tra due forme del rito romano – che è una geniale ma fragile invenzione di papa Benedetto sulla scia di Siri e Lefebvre – ma quella dello “sviluppo organico” che la riforma liturgica ha assicurato e ancora può assicurare. Guai a chi chiama bene il male e male il bene. Non sono i teologi che vogliono alimentare le “guerre liturgiche”, ma quei pastori che usano le parole in modo poco responsabile, poco fondato e poco ponderato, illudendo i fedeli che si possa fare pace “immunizzando” una parte della Chiesa dalla storia comune.
Difficile valutare il pensiero di una persona in base a poche parole. Vi è tutto l’insieme della vita, delle opere, degli interventi, che aiuta ad intendere il senso di poche affermazioni. Nel testo al link sotto parlo del padre spirituale ma alcuni aspetti possono riguardare per certi versi anche la vita della Chiesa. Sta faticosamente maturando l’intuizione di una più profonda e libera partecipazione, certo nei criteri della fede, di una sinodalità sbloccata in tanti aspetti della vita concreta senza i quali essa può diventare addirittura mera cinghia di trasmissione di imput dall’alto. Se, solo per porre un esempio, un cristiano ha strade, scoperte, sfumature, domande, interessanti da proporre ma non può intervenire nel dibattito pubblico perché non è titolare di cattedra o peggio perché non è della tal corrente non si sta riducendo a formalismi la ricerca del vero? Immaginiamo un profeta in antropologia teologica?
Ho accennato in altri commenti a come in mille aspetti della pastorale di Gesù si nota questo accompagnare le persone sul proprio cammino specifico grazie e verso i riferimenti essenziali della fede.
Gesù insegna a chiare lettere che Dio non è qua o là ma in mezzo a noi. Viviamo ancora in un’epoca non di rado di forti unilateralismi. La mia domanda è se l’unità non si possa più pienamente vivere liberando la fede da tante cose che sono possibili interpretazioni di uomini e lasciando maggiore libertà di espressione. Ma anche questo sarebbe, eventualmente, un percorso da maturare insieme. Vi sono dunque questioni alla base che rendono più problematiche tante prese di posizione. Certo resta che Gesù ha anche rivelato che lo Spirito ci condurrà alla verità tutta intera riportandoci più profondamente a lui, al vangelo. Evidente che ci ha aperto la strada del rinnovamento sulla base delle sostanzialmente immutabili verità realmente essenziali.
https://gpcentofanti.altervista.org/cristoterapia-di-gesu-o-di-altri/
Caro Prof. Grillo,
lei ha vinto pienamente questa battaglia….adesso infierisce sugli sconfitti!
Io penso che la continuità della tradizione che lei rivendica nel NO, è solo formale…sulla carta! se lei frequentasse messe scout, del rinnovamento dello spirito e similari, si renderebbe pienamente conto che c’è fortissima discontinuità!
Quindi ben venga il VO….comincio a pensare che lefebre, criticabile su tanti aspetti, abbia avuto un coraggio da leone a difendere la liturgia tradizionale intuendo gli esiti in cui il NO sarebbe sfociato!
cordialmente!
Non discontinuità, evoluzione. Io cerco di far capire che dietro i provvedimenti ci sono idee sistematiche più o meno convincenti. Solo considerando questo livello di viene a capo dei singoli problemi concreti. Lei continua a citare questioni secondarie, ma disattende la questione primaria: come si dà una tradizione se si paralizza il suo sviluppo? Ed è qui che il principio preteso da SP dimostra la sua inadeguatezza, perché non crea sviluppo, ma giustapposizione di sistemi chiusi.
Non ci capiamo! Il ragionamento che Lei conduce da due anni ad oggi è chiarissimo e può anche essere condivisibile in linea di principio…ovvero dai tetti in su!….ma Lei non fa i conti con la realtà che va dai tetti in giù! Ovvero sono io che la domenica devo andare a messa e, nonostante SC abbia definito il gregoriano come il canto proprio della liturgia cattolica, non trovo una messa NO in tutta la diocesi in cui si canti! E nel 90% delle messe domenicali solo strimpellate di chitarre! Quale è unica messa dove si usa gregoriano e organo?quella VO! Se TC dà ai vescovi la responsabilità sul VO e mi ritrovo un vescovo che non autorizza, io sono costretto a sentire chitarre e allora mi rifugio in messe sul web! Lei mi farà la predica sul fatto che della messa non capisco niente, ma è più forte di me….io alle messe schitarrate non ci vado! Certo ci sono i fanatici del VO…..ma c’è anche tanta gente che ha trovato nel VO un modo di vivere la sua spiritualità! Spero di essermi spiegato!
Caro Stefano, mettiamo le cose in chiaro. Io sostengo le cose, esattamente come le dico oggi, non da due, ma da 14 anni, ossia dal 2007. Ma questo perché la cosa è in sé contraddittoria. Bene. Questo però non vale dai tetti in su, ma anche in giù. E mi spiego. Le “ragioni seconde” che lei allega, e che sono certo rispettabili, non possono alterare in nessun modo l’unica evidenza comune: c’è un solo ordo che vige. Ora io sono il primo a dire che il canto, il movimento, il silenzio, la forma rituale, debba essere pensata oggi in modo più attento, senza approssimazioni, ma coinvolgendo tutta la assemblea in un cammino di “ars celebrandi” che la riguarda direttamente. Sono proprio le domande che lei pone, oltre ad altre, quelle che vanno affrontate non con un “doppio tavolo” (NO/VO), ma sull’unico tavolo comune. Se i patiti del gregoriano si rifugiano nel VO, il rito comune sarà più povero. Questo è il punto che solo TC ha acquisito definitivamente. Infine, se le sensibilità personali prevalgono sull’atto comune, pur con tutto il rispetto, la questione non si risolve nel ghetto del passato, ma nel contributo alla crescita comune.
I “patiti del gregoriano”, cioè quelli che prendono alla lettera Sacrosanctum concilium, non possono trovare nel Novus Ordo un tavolo comune (purtroppo), perché il Novus Ordo abolisce il latino e di conseguenza il gregoriano e, su molti punti, non segue ciò che dice il Concilio. Quale vescovo prende sul serio ciò che dice Sacrosanctum Concilium sulla musica sacra o sul fatto che non si sarebbe dovuto fare alcun mutamento liturgico se non strettamente necessario e sulla base dell’organico sviluppo? Ad esempio quale vescovo italiano permetterebbe oggi una messa Novus Ordo con il sacerdote che, umilmente, non fa il protagonista, ma tiene la stessa direzione del popolo di Dio mentre prega all’altare, come si è fatto per secoli e per il quale il concilio non prescrive alcun cambiamento. Il punto è una questione di potere, e cioè che nella chiesa di oggi non è permessa la critica costruttiva al postconcilio.
Ma quelli che prendono SC alla lettera non sono nella verità. Il fondamentalismo conciliare non è meglio di quello biblico. Prima di parlare è bene studiare
E’ certamente un bene studiare, ma prima di studiare le glosse occorre studiare i testi originali. Quando si parla di “liturgia del concilio” occorre partire da SC, e usarne gli articoli come termine di paragone per valutare la liturgia contemporanea. Non è colpa mia se spesso non c’è corrispondenza, e sarebbe utile non accusare di empietà e lesa maestà chi lo fa notare.
La corrispondenza non la vede lei, perché non ha studiato e legge con superficialità i testi di partenza e quelli di arrivo. Ma questo è il problema di prima. Se studi, capisci.
Per quanto uno studi e si ingegni, è difficile far dire ad un testo l’opposto di quello che significa. Io mi chiedo come può l’art 36 di SC che inizia con “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. ” possa significare: “L’uso della lingua latina sia abolito in tutte le parrocchie italiane, si faccia tabula rasa e si reinventi tutto”. La cosa buffa è che i testi conciliari non sono stati scoperti dopo duemila anni in una caverna e quindi sono di difficile interpretazione, ma sono stati scritti pochi decenni fa e con alcuni fra i maggiori responsabili, come Ratzinger, ancora viventi e che ci dicono qual era la reale intenzione di quei testi, e che cosa è andato storto.
Carissimo dott.Grillo, il Sacro è proprio immutabile! Sottoscrivo e confermo tutto quanto affermato dal cardinal Sarah, compreso come ha chiuso il suo pensiero…e guardi che sta aumentando sempre di più lo scontento tra i fedeli…i vertici della Chiesa dovrebbero tenerne conto. Dov’è la misericordia tanto sbandierata? Va applicata solo ai peccatori non pentiti e tronfi dei loro peccati e invece rifiutata ai fedeli ancorati alla Tradizione?
Cara Lucia, lei può sottoscrivere quello che vuole. Ma i principi, se non sono principi, non funzionano. Il resto sono cose secondarie. La misericordia non c’entra con la condivisione del rito romano, che è un criterio di identità comune.
Il cardinal Sarah, in modo molto umile e corretto, a mio parere ha solo voluto sottolineare che i due riti non sono in contrapposizione, tant’è che anche il vetus ordo non è stato affossato e combattuto dai papi precedenti. E ribadisco, perché non solo tanta clemenza ma assoluta vicinanza a persone che violano la legge di Dio e se vantano e invece commiserazione e critiche aspre verso i cattolici che trovano nel rito antico(che è poi la Messa degli Apostoli) la vera spiritualità? La divisione non è certo creata da questi ultimi!
Non c è umiltà se si pretende di far valere come principio ciò che principio non è. Se il cardinale avvalora la sua umiltà con una menzogna non dimostra di essere umile, ma ostinato. Ho cercato di mostrare, se vuole davvero ascoltare, che il principio non è verificato dai fatti. Dio è immutabile, ma il sacro cambia lungo la storia. La pace si fa accettando il cambiamento, non irrigidendo le forme superate
“Il sacro cambia lungo la storia”. E’ vero, infatti molti giovani, nati dopo il concilio, trovano il sacro nella Messa antica. Un papa ha detto: “Chi sono io per giudicare?” Vale solo per i trascorsi di Monsignor Ricca? Perché fedeli che hanno potuto apprezzare una forma legittima di liturgia devono essere così disprezzati ed emarginati, per poi essere accusati di essere ai margini?
Se papa Francesco fosse misericordioso come dice di essere, dovrebbe celebrare solennemente la messa antica in San Pietro, magari a Natale. Solo così mi sorprenderebbe.
Riti legittimi? Vede che entra in contraddizione?
Erano legittimi finché papa Francesco non ha emesso il motuproprio pieno di rigide prescrizioni e limitazioni burocratiche. Salvo pontificare contro i rigidi e contro i regolamenti prescrittivi. Anche domenica scorsa predicava contro le leggi che rendono “come dei ‘sorvegliati’ e dei ‘rinchiusi’, una specie di custodia preventiva”. E’ esattamente la condizione in cui ha posto chi poteva godere della maggiore libertà liturgica offerta da SP. La chiesa non mai stata così asfittica e ideologica come in questi ultimi anni.
La libertà concessa da SP era irresponsabile: non nelle intenzioni, ma nei risultati. La linea tradizionale non è quella di SP.
La linea tradizionale è trasmettere ciò che si è ricevuto, in una linea di continuità e organico sviluppo. Non demolire l’edificio tradizionale e costruirne uno nuovo riutilizzando le macerie secondo le aspettative di una parte del clero dell’Europa occidentale fra gli anni 60 e 70 del Novecento.
Demolire lo dice lei, con uno sguardo stravolto dalla ideologia. Purtroppo su questo non possiamo intenderci. Nessuna demolizione, ma riforma. Lei è di quelli che pensa che i problemi siano nati con il Concilio. Poveri illusi. Rosmini li vedeva 130 anni prima, e proprio nella liturgia eucaristica…
Non è l’ideologia che mi fa dire che il Novus Ordo non è in continuità con il Vetus Ordo, ma la realtà delle cose. Se io confronto i testi delle due liturgie, non c’è quasi nulla che sia rimasto immutato. Tutte le collette hanno subito almeno un ritocchino, ma il più delle volte un rifacimento totale da parte dei liturgisti anni 60. Il lezionario è cambiato. Il graduale è stato abolito. L’offertorio è completamente nuovo. Il canone è completamente nuovo. Adesso anche il Padre Nostro è cambiato, il santo padre ha voluto rendere umilmente obbligatoria la sua personale interpretazione del vangelo. Del resto non è lei che sostiene che la rottura è continuità, e che la persecuzione dei cristiani legati alla messa antica è misericordiosa pedagogia?
Ormai tutto è lecito, dalle bandiere arcobaleno che sventolano sulle cattedrali di Germania ai sorrisi amichevoli in piazza San Pietro del Papa ad una coppia omosessuale che è ricorsa all’utero in affitto per avere figli…tranne invece la Messa in Vetus ordo…nella Chiesa di Bergoglio c’è qualche evidente problema
Se lei mette sullo stesso piano una forma rituale e valori più o meno discutibili, dimostra di non aver capito nulla della questione liturgica, che non riguarda sentimenti o valori, ma il linguaggio comune di esperienza e di espressione del mistero.
Mi inchino allora alla sua intelligenza, con cui non posso di certo competere!
Ripeto che non mi riferisco alla questione dell’Ordo. Anzi qui mi allargo alle questioni sociali profonde alla base di tante riduttive impostazioni. Problemi che lo stesso rinnovamento della Chiesa può contribuire a cercare di superare.
https://gpcentofanti.altervista.org/manuale-della-rivolta-di-lilliput/
Stefano Bergero non sono i canti gregoriani il principale elemento che diversifica il nuovo dal vecchio ordinamento.
Caro Pietro, lo so. Infatti io non sono un talebano né del VO né del NO. Ci sono cose che apprezzo nel VO (soprattutto l’orientamento del sacerdote) ed altre nel NO (la maggior ricchezza nelle letture) ….il mio ragionamento è un altro. Io, come molti, non sopporto chitarre, tamburi e batter di mani che , a mio modesto parere , non danno proprio idea di sacro, ma apprezzo gregoriano, organo, uso del latino, cose conformi a SC! Nella mia città, su una trentina di messe domenicali NO, non ce n’è una che rispetti queste caratteristiche! O messe lette o chitarre o al max qualche canto a secco biascicato. Gli organi sono muti! Io non sono musicista né so cantare….sono un semplice fedele che va a messa! L’unica messa ove si usano gregoriano e organo e quella VO iniziata con SP! Allora ben venga! I vescovi, traditionis custodes, moderatori della liturgia, devono capire che devono garantire una varietà liturgica nelle loro diocesi! Mi sembra che invece o se ne fregano o addirittura remano contro un certo tipo di liturgia! Ne segue che molte persone “moderate” si rifugiano nel VO, che per me, dai tetti in giù, può benissimo convivere con NO offrendo un tipo di spiritualità differente!
Caro professor Grillo,
un’osservazione sulla sua risposta del 18 agosto ore 07,32 a Luca Frigerio, là dove lei dice che la questione liturgica “..riguarda il linguaggio comune di esperienza e di espressione del mistero”. Prendiamo un “povero cristiano” nato nel dopoguerra e cresciuto cattolico. Per lui o lei il linguaggio comune di esperienza e di espressione del mistero era essenzialmente il latino, si è imparato il Suscipiat e sapeva perfettamente come rispondere a Introibo ad altare dei. Poi, e molto giustamente, il Concilio ha cambiato molto la liturgia, era ora. C’era chi voleva cambiare pochissimo o nulla. Ma alla fine ha prevalso ahimé chi ha cambiato tutto, sbagliando clamorosamente. Mi deve citare un solo documento conciliare (visto che lì spirava lo Spirito Santo, secondo alcuni) dove si dice che il latino andava abolito. Eppure è stato abolito.
Frequento abbastanza chiese in diverse parti d’Italia e altrove per assicurare che il latino è ormai una rara avis, anzi rarissima. Ha fatto la fine di quei re deposti ai quali si assicura un tranquillo e rispettato esilio di lusso per poi invece metterli in gattabuia a pane e acqua. Ricordo con molto piacere una messa di Corpus Domini nella cattedrale di San Michele e Santa Gudula a Bruxelles, qualche anno fa, un solo celebrante più un chierico, quattro coristi, l’organo, tutta in francese, fiammingo a tratti, ma con un Veni Creator all’inzio e poi tutti i canti in latino e alla fine il glorioso Ite, Missa est, mai più sentito negli ultimi decenni. Ecco, quello era a mio viso un rito equilibrato, ma per me resta un unicum. Eppure i documenti conciliari dicevano che il latino restava il simbolo, da praticare nei dovuti limiti ma da onorare e tramandare, dell’unità della Chiesa. Naturalmente, aggiungo io con “discernimento” , là dove era radicato, o “inculturato” come amano dire oggi i liturgisti à la page, cioè in Europa e nelle Americhe. Ma perché a me, e a tanti come me, l'”inculturazione” è stata tolta da sotto i piedi come si fa con lo sgabello dell’impiccato? Si aspettano forse che serbiamo della cosa grato ricordo?
La lingua non è una formula sostituibile, non è un vezzo, è una patria, caro professore. Tanto più quando è immutabile e limata dal tempo, e lingua morta. Uno spirito pienamente pre sessantottino, da reinvenzione dell’arte del respirare, ha invece portato a personaggi come l’arcivescovo Bugnini e altri, e i guai presuntuosi che hanno fatto sono notevoli. La sua formula, caro professore, della liturgia come “…linguaggio comune di esperienza e di espressione del mistero” lo spiega perfettamente. Perché a un certo punto qualcuno ha voluto dire che la lingua di espressione del mistero che mi avevano obbligato a imparare non era più valida? Io non glielo perdono, mi consenta, e ancora li disprezzo per questo.
Secondo lei, caro professore, quanto tempo ci vorrà per rendere le attuali formule in volgare “..un linguaggio comune di esperienza e di espressione del misterop”? Mezzo secolo non è bastato. Ah, ma la gente prega in una lingua che capisce. Bene, andava fatto. Ma lei crede che la gente non capisse nulla in formule limate dal tempo e che i loro avi avevano usato per generazioni e generazioni e che sono state buttate via con la leggerezza e ignoranza di chi non sa che cosa getta? Lei pensa che con l’assoluto e unico uso del volgare sia più facile capire una religione fondata sul mistero della Trinità? Il danno culturale e fino a prova contraria una religione è eminentemente una cultura, tra le altre cose, è stato enorme, come il fior fiore della letteratura e cultura, spesso non credenti, ma estimatori della bellezza artistica dei riti, aveva a suo tempo previsto. E la prova è che ora siano stati costretti a una autolesionsita TC . Dicono che l’hanno voluta i vescovi. Bene, ci diano qualche notizia del sondaggio a suo tempo fatto tra i vescovi. E se non lo fanno, sappiano che essere cattolici non significa gradire di essere presi in giro. Lei accusa quelli come me di ideologismo. A me sembra che, quanto a ideologismo, sia difficile battere quelli come lei.
Comunque, cordialmente, e non senza simpatia, vista la sua disponibilità alla disputa. E le risparmio una seconda citazione da Brassens, sans le latin, sans le latin.
Visto che lei cita i documenti conciliari come se fossero il codice civile, non posso negarle che resto stupito dal ragionamento, che oscilla tra nostalgia del latino e disprezzo delle lingue parlate. La fede non si preoccupa delle lingue e le attraversa tutte. Non solo i linguaggio verbali, ma anche i non verbali. E non ha bisogno del vocabolario per intenderle. Ma evolve. Lo ha sempre fatto. Lei si sarebbe stracciato le vesti nei primi secoli, quando si passò dal greco al latino. Ma la storia cammina e la fede con essa. Non è ideologia, ma realismo.
gentile professore, vedo solo ora la sua risposta.
Se citare i documenti conciliari è leguleico, a qual fine tali documenti sono stati scritti? Per essere ignorati, visto che così per vari aspetti è stato? Dove devo prendere la volontà del Concilio circa la riforma dei riti se non nella Sacrosantum Concilium? Devo forse riferirmi allo “spirito del Concilio”? Ma chi lo determina e definisce, questo spirito? Pericle Felici o Pippo Dossetti, Rahner o i cardinali De Lubac e von Balthasar, o i professori Alberigo e Melloni? Chi? Lei o io, absit iniuria? Oppure, andando alla hard truth sul pericoloso stato della Chiesa oggi, Ratzinger o Bergoglio? Se “la fede non si preoccupa delle lingue”, come lei dice, perché il latino è stato del tutto abolito mentre la SC diceva esattamente il contrario? E’ lecito infischiarsene dei documenti conciliari, carta straccia? Non sarà un persistente raptus da inguaribile nuovismo, o “oltrismo”? E non mi dica che il testo della SC non è chiaro, in proposito.
Con le lingue volgari le chiese si riempiranno di nuovo, diceva Lercaro. Sono o non sono sempre più vuote? Louis Bouyer, grande teologo e grande liturgista, amico di Paolo VI, parlava già nel 1968 di “una vandalica ‘riforma’ della liturgia latina”: Ed era arrivato al Concilio, come perito, totalmente progressista e riformatore, e ne usciva perplesso. Io, nel mio piccolo, partecipo a questa perplessità che da molti anni mi ha fatto prendere le distanze non dalla Chiesa, ma da quanto spesso dicono gli uomini di Chiesa, teologi compresi. Troppo spesso non hanno dato prova di saggezza. Non mi faccia passare, professore, per un laudator temporis acti. Questo, mi consenta, è un colpetto basso, sotto la cintola, proibito sul ring, e non le fa onore. Non lo sono affatto, un laudator. Semplicemente sorrido di fronte alla continua, spasmodica e testarda ricerca di un “nuovo” sempre più nuovo e non sempre facile da identificare. Gli idolatri del vecchio e quelli del nuovo commettono lo stesso errore.
Io alla fine appartengo alla scuola di W.H.Auden, poeta non cattolico, maestro della parola, secondo cui “…il formale e il cerimonioso è essenziale nel linguaggio liturgico” e a cui avviso “..una delle grande funzioni della liturgia è quella di tenerci in contatto con i trapassati”, cioè con l’Eternità, cioè con Dio, che è anche in mezzo a noi, ma non solo in mezzo a noi, sia chiaro. La comunità, il pueblo, non è Dio, non nella nostra religione. Per sua natura il latino, lingua ormai immutabile, assolveva bene questi compiti. Preservarne alcuni passaggi, i più belli possibilmente, sarebbe stato saggio e utile e così diceva il Concilio. Secondo un altro non cattolico, non cattolicissimo almeno, Ignazio Silone, il latino era una forza e non una debolezza della Chiesa, e non aveva mai allontanato i contadini analfabeti, “anzi, ha sempre concorso ad attrarli” (Silone, La Scuola dei dittatori, ed. Mondadori, p. 139). Quindi, se non è questione di lingua come dice lei, se la SC diceva di preservare al latino uno spazio adeguato pur nell’ampia riforma in volgare, perché è stato cancellato? Perché troppo trascendente, per sua intrinseca natura di lingua antica, in una nuova religione dell’immanenza, mi pare. Il latino è diventato così, inevitabilmente, simbolo di molto altro che va ben oltre la lingua. Se il nuovo piace e attira ben oltre i circoli delle nuove beghine e nuovi beghini, nulla da dire, o quasi. Ma non mi pare, guardando le statistiche costanti del cattolicesimo , che sia un grande successo.