Breve storia ragionata del ministero nella Chiesa (di Franco Gomiero)
Ricevo questo bel commento da F. Gomiero al mio post di ieri, che credo valga la pena di essere letto autonomamente. Una analisi storica profonda e lungimirante, con grande lucidità e con una singolare capacità di mettere in luce i nodi veri della questione ministeriale e sacramentale. La consiglio a tutti i lettori del blog (ag)
Breve storia ragionata del ministero nella Chiesa
di Franco Gomiero
Mi permetto di offrire alcune considerazioni di carattere storico sulla ministerialità della Chiesa. Condivido totalmente le considerazioni del prof. Grillo. Non sarebbe assolutamente uno strappo ripartire dall’eucaristia. Appartiene alla tradizione ecclesiale dei primi tempi, che accanto al ministero di presidenza della comunità, trasmesso per imposizione di mano, conosceva una notevole varietà di ministeri laicali, liturgici, catechistici caritativi (dai diaconi e diaconesse fino ai cosiddetti “fossores” che preparavano le sepolture dei morti) con pubblico riconoscimento ecclesiale.
Successivamente, però, avvenne una specie di concentrazione piramidale, dovuta ad una serie di fattori interni ed esterni alla Chiesa, come la perdita del senso comunitario e l’impatto della cultura mediterranea con la cultura dei popoli seminomadi dell’ Europa centrale, durante e dopo le invasioni barbariche. Per cui da una varietà di servizi nella comunità si passò ai ministeri gerarchici, concentrati nella persona del prete, che ricapitolava in se tutti i ministeri del passato, compresi i carismi della vita monastica (celibato, obbligo dell’Ufficio Divino, ecc … tranne, paradossalmente, quello della povertà). Inoltre, da una varietà di settori o ambiti dell’azione ministeriale ci si ridusse all’ambito strettamente liturgico-sacramentale.
L’unico ministero riconosciuto diventa quello legato alla presidenza della celebrazione eucaristica, riservata al Vescovo e in secondo ordine ai presbiteri.
Si esalta la componente sacerdotale-cultuale del ministero e progressivamente cadono le altre funzioni come quelle della predicazione e della cura pastorale. Piano piano lo scopo dell’imposizione delle mani non è più quello di creare ministri al servizio della comunità cristiana, ma semplicemente quello di dare ad alcune persone il potere di celebrare l’eucarestia e offrire a Dio il sacrificio della Chiesa.
Vescovi e preti, nel medioevo, ricevono l’imposizione delle mani pur non avendo le capacità di predicare, semplicemente allo scopo di celebrare l’Eucarestia.
Il potere di consacrare il corpo di Cristo diventa l’unica caratterizzazione dell’ordine sacro.
Tale processo riduttivo sacerdotale non poteva comunque cancellare dall’esperienza della Chiesa i compiti ministeriali della predicazione e del lavoro pastorale.
Ma a poco a poco questi furono, per così dire, stralciati dal contesto dell’ordine sacro e si inventò una fonte diversa, autonoma, quella della giurisdizione.
Se il potere di celebrare l’eucarestia deriva dall’ordinazione ed è fondato sul carattere sacramentale, tutto il resto è trasmesso da un potere centrale, è strettamente condizionato dal rapporto giuridico che il singolo ministro ha con l’insieme degli organismi gerarchici che reggono la chiesa.
Per cui si assiste a delle vere e proprie divaricazioni e aberrazioni.
L’autorità superiore, il Papa, può dare o togliere a piacimento l’esercizio di questo potere.
Nei secoli XII e XIII è normale che l’arcidiacono, per esempio, abbia sul presbiterio della diocesi una giurisdizione che di fatto lo rende superiore ai preti, pur ordinati in un grado superiore a lui.
Parroci e Vescovi ricevono l’investitura della giurisdizione sulla parrocchia e sulla diocesi per poter godere delle rendite del beneficio, e rinviano la consacrazione per esimersi dagli obblighi della celebrazione dei sacramenti.
Anche il grosso problema della predicazione che si sviluppa intorno al secolo XIII con l’istituzione degli Ordini mendicanti non è banale fenomeno di concorrenza ecclesiastica.
La questione di fondo era una questione di giurisdizione.
Da una parte la giurisdizione del papa, in nome del quale essi andavano a predicare nelle singole chiese locali, e dall’altra la giurisdizione dei vescovi, i quali, in questo modo vedevano estendersi il potere del papa fin dentro la vita interna delle loro chiese.
Tutto questo non poteva non determinare un taglio netto dentro le funzioni ministeriali.
Quindi si arriva a questa situazione (che in qualche modo si protrae fino alla vigilia del Concilio Vaticano II, per quanto non in modo pacifico, appunto per la reazione protestante a questa riduzione sacerdotale): la celebrazione dell’Eucarestia e degli altri sacramenti deriva dall’ordine, non è condizionata dai rapporti gerarchici fra i diversi gradi dell’ordine, non è legata a determinazioni territoriali. Invece la predicazione e il governo delle Chiese derivano da una fonte autonoma di potere, detta giurisdizione, che si trova solo nel papa e dal quale, a suo arbitrio, deriva ai ministri di grado inferiore.
Dentro questo sistema il ministero della predicazione e il ministero pastorale si rivestono, nel discorso teologico, di formalità giuridiche così rilevanti da rendere irrilevante il normale esercizio dei carismi della parola e della cura pastorale che si svolge senza scomodare il diritto.
Così piano piano in teologia non si parlerà più di predicazione, ma solo di magistero; non ci si occuperà più della cura pastorale, ma solo del governo e dell’autorità.
Già questo breve quadro storico ci consente di individuare una situazione che per la nostra sensibilità non poteva non creare problemi.
Una situazione di fatto, dalla quale era molto difficile uscire per la mancanza di una adeguata teologia del sacerdozio battesimale e della Parola, da cui solo poteva prendere avvio una eventuale valorizzazione dei diversi ministeri.
Una situazione quindi che poteva dare spazio a polemiche, a posizioni anche contrastanti, ma per la cui soluzione non si avevano strumenti adeguati.
Lo stesso Concilio di Trento, costretto a confrontarsi con un analogo processo riduttivo operato quasi per reazione dai riformatori, che non sopportavano la distinzione e la divaricazione dell’ordine sacerdotale da quello giurisdizionale, affrontò il discorso più in chiave polemica, che altro, preoccupato non tanto di salvare il discorso sulla Chiesa, quanto piuttosto di salvare il discorso sui sacramenti.
In altre parole, non ha avuto nessuna intenzione di definire il quadro teologico dei ministeri della Chiesa, ma piuttosto di determinare il potere sacerdotale del ministero in ordine ai sacramenti.
In fondo il Concilio di Trento si limita a dire:
l) Che c’è un sacerdozio destinato essenzialmente alla celebrazione del sacrificio eucaristico.
2) Che questo sacerdozio deriva da un sacramento e implica un carattere permanente.
3) Che nella Chiesa c’è una gerarchia per la quale i laici non hanno lo stesso potere spirituale dei sacerdoti e nella quale i vescovi sono superiori ai preti.
4) Che la validità delle ordinazioni non è condizionata dal consenso della comunità.
Non è riuscito a dire altro, perché sulle altre questioni non ha potuto trovare una via di accordo. E questa riduzione del problema non poteva non scontrarsi con la riduzione protestante del ministero o meglio dell’ordinazione il cui contenuto e scopo veniva decisamente spostato.
L’ordinazione, secondo i protestanti, non aveva lo scopo di creare sacerdoti dotati del potere di offrire a Dio un sacrificio, ma creare predicatori del Vangelo.
Il Concilio di Trento è stato il luogo dello scontro-incontro di due concezioni, unilaterali ambedue, del ministero:
– quella protestante, che, rifiutandone l’aspetto sacerdotale e sacrificale, ne misconosceva, non riusciva a riconoscere di questo aspetto la dimensione ministeriale evidente nella dottrina del sacrificio e intuiva che, invece, doveva essere proprio questa dimensione misterica a sbloccare e a correggere la posizione cattolica;
– quella cattolica, che non riusciva ad integrare la funzione della predicazione della parola, riconosciuta dai protestanti come indispensabile per elevare il compito sacerdotale al di sopra del sacerdozio pagano e veterotestamentario.
Il nodo della discussione era il concetto sacrificale della Messa. Ma molti cattolici pesavano che i riformatori negassero qualsiasi ministero di diritto divino e affermassero, invece, la totale uguaglianza di funzioni e di poteri tra i cristiani.
Un equivoco contro il quale Calvino stesso protestò esplicitamente affermando che “nessuno aveva intenzione di dire che tutti i cristiani sono eguali nell’ufficio di amministrare la parola e i sacramenti, riconoscendo un esplicito mandato di Cristo di ordinare, per questo, alcuni ministri”.
D’altra parte, però, c’era il problema della giurisdizione. La maggior parte dei padri sosteneva la tesi che il compito di predicare non deriva dall’ordinazione, ma dal papa, attraverso un esplicito mandato canonico, che tramite i vescovi arriva fino ai preti incaricati per la cura d’anime in determinate comunità, oppure dotati di un particolare mandato.
Per cui la predicazione non è ritenuta un carisma da esplicare, ma un dovere giuridico da adempiere: la necessità viene dal bisogno della comunità, non dalla natura del ministero.
Il Concilio di Trento non ha avuto la possibilità di fare una giustapposizione dei due discorsi, quello di ordine e quello di giurisdizione, e trovare una via di accordo fra i due schieramenti presenti al Concilio: quello che sosteneva essere il papa l’unica fonte di ogni giurisdizione nella Chiesa e l’unico vescovo di istituzione divina, e quello che affermava essere l’episcopato istituito da Cristo e vera fonte di giurisdizione nella Chiesa.
Di fatto però è successo che se la riflessione teologica postridentina si invischiò sempre di più, la prassi avviata dai decreti di riforma, pur con schemi mentali riduzionisti, offrì al prete e al vescovo una gamma di funzioni molto vasta e molto elastica. Il problema però rimaneva, sia a livello dottrinale, sia a livello di prassi.
Per cui se oggi si parla con una certa insistenza dei ministeri, la ragione va cercata lontano. Una situazione di fatto insostenibile, messa ancor più in evidenza dal movimento di ritorno alla Scrittura, dal movimento ecumenico e da una diversa preoccupazione pastorale.
Determinante, da questo punto di vista, è stata la svolta ecclesiologica del Concilio Vaticano II.
Non è che questo Concilio abbia fatto un discorso esplicito e articolato sui ministeri o abbia elaborato una sintesi teologica. Semplicemente ha raccolto abbondantemente e in maniera libera quegli elementi della Scrittura e della Tradizione che in qualche modo hanno scombussolato la scacchiera della teologia postridentina, e spostando alcune pedine a monte, ha avviato un ripensamento profondissimo sui presupposti ecclesiologici e sacramentali, offrendo anche nuove linee di riflessione sui ministeri.
Se poi a tutto questo si aggiunge la crisi del sacerdozio ministeriale non risolta neppure dal Sinodo del 1971 e che ha assunto proporzioni notevoli in questi ultimi due decenni e il nuovo contesto culturale e sociale che si é venuto a creare sotto la spinta di una generale ansia di partecipazione, di consapevole e libera assunzione di responsabilità a tutti i processi dì crescita, di maturazione e di decisione della vita sociale, civile ed ecclesiale: allora possiamo avere un quadro abbastanza completo dei perché che rendono motivata e indispensabile una riflessione seria e sistematica sui ministeri, non più stimolata da situazioni solo negative, come la rarefazione delle vocazioni, la messa in questione di nuovi mezzi e di nuove forme di inserimento del prete nel mondo, ma anche e soprattutto dalla ormai necessaria attenzione alla riconosciuta responsabilità e missionarietà di tutti i cristiani, in base ai sacramenti del battesimo e della cresima e ai diversi carismi elargiti dallo Spirito ai singoli per il bene comune.
Don Franco Gomiero
Le cause profonde, non intellettualistiche e formalistiche, di certi problemi.
https://gpcentofanti.altervista.org/il-controsenso-degli-apparati/