Matrimonio primo e ultimo dei sacramenti: una questione antica in 10 punti


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La chiesa cattolica si interessa del matrimonio da molti secoli, ma ha pensato di gestirlo in prima persona soltanto negli ultimi 500 anni. Questo sviluppo moderno, che ha portato ad unificare, sotto la competenza ecclesiale, ogni dimensione del matrimonio, fino a rivendicare la “competenza esclusiva” della Chiesa contro lo stato liberale, ha anche ispirato una duplice deriva, che poggia solidamente sulla tradizione, ma che anche la esaspera e la porta a conseguenze non controllabili. Vediamo meglio di cosa si tratta, partendo da lontano.

1. Una collocazione “estrema”

Il matrimonio ha a che fare con le cose estreme. Ha in sé un eccesso. Per questo è stato collocato, già nei primi elenchi dei sette sacramenti, allo stesso tempo, in testa e in coda, all’inizio e alla fine, al primo e all’ultimo posto. Ha un primato temporale e simbolico che lo fa primeggiare ed ha un legame con la divisione e con la alterità che lo mette in fondo. Da un lato dice la unione e la unità come nessun altro. D’altro canto mette alla prova ogni intesa e ogni progetto come nessun altro. Nel matrimonio la natura è grazia e la grazia si riconosce natura. Ma la natura può imporsi sulla grazia e la grazia può distrarsi dalla natura. Di questo sono coscienti tutti gli scolastici, che ricordano come solo il matrimonio preceda la caduta del peccato, e perciò sia nato solo “per il dovere”, non “per la salvezza”. Mentre poi può essere invocato per la salvezza, ma in una certa tensione costitutiva con il dovere!

2. La relazione originaria con la natura e con la città

Il matrimonio è di campagna, ma il matrimonio è anche di città. E’ naturale e artificiale. Gli uomini e le donne si sposano perché non sono semplicemente naturali. La gestione della sessualità, che nel cavallo, nella pecora, nell’usignolo e nel pescecane risponde semplicemente a quanto detta la natura, nell’uomo e nella donna deve trovare non semplicemente la “conformità alla natura”, ma la integrazione nella “natura umana”, che, insieme a quella divina, è l’unica al mondo ad essere determinata dalla parola e dalle mani. Gli uomini e le donne non semplicemente “fanno sesso”, come gli altri animali, ma “interpretano la sessualità” secondo la natura umana, che è strutturalmente segnata dalla relazione con il prossimo e con Dio. Nessun uomo è naturale come un gallo o come un castoro. Ogni uomo e ogni donna sta in equilibrio tra una dimensione naturale “informe”, che si struttura nel rapporto con il prossimo e con Dio, in termini medievali in relazione alla città e alla chiesa.

3. L’animale non si sposa

Ci sono animali che generano senza aver rapporto con i propri figli. Ci sono animali che hanno un rapporto breve e funzionale con i discendenti. Solo nell’uomo la relazione esige tempo, cura, presenza per lunghi anni. Lo stesso vale per la relazione orizzontale, tra maschio e femmina. Generare può significare un rapporto puntuale, una certa collaborazione di giorni, mesi o anni. Nell’uomo è ragionevole, e conforme alla sua natura, interpretare la generazione in modo responsabile, sia assumendola, sia sospendendola, sia spostandola sul piano spirituale. Questa libertà, rispetto al generare, è tipica solo dell’uomo, della donna e di Dio.

4. Il matrimonio e la società chiusa

Così, mi pare, la tradizione si è lasciata toccare da questi due aspetti, ma lo ha fatto dentro la soluzione adottata dalle “società chiuse”: ossia in società che adottano un controllo capillare dell’esercizio del sesso da parte di ciascun soggetto (anzitutto del soggetto femminile). La donna viene sottoposta ad un controllo rigoroso, prima da parte della famiglia di origine e poi da parte della famiglia di elezione (elezione spesso non sua). La soglia matrimoniale diventa, in queste società, la soglia dell’esercizio del sesso per la donna. L’uomo è largamente dispensato da questa soglia. Quando oggi parliamo, ecclesialmente, di “scambio degli anelli”, dobbiamo ricordare che per lunghi secoli, l’unico anello banedetto era quello che l’uomo metteva alla mano della donna.

5. Dal sesso alla sessualità

La scoperta del soggetto tardo-moderno ha liberato il sesso dalla sua esclusiva destinazione alla generazione. E’ nata la sessualità, che legge la dimensione sessuale come “esperienza” e come “espressione” del soggetto maschile e femminile. Soprattutto per la donna questo passaggio ha mutato profondamente la coscienza, la collocazione sociale, la libertà di riconoscimento della identità e ha inaugurato anche la sua entrata autorevole nello spazio pubblico.  In questo contesto rinnovato, la lettura cristiana del matrimonio non può confondersi con le regole contingenti di una società chiusa e deve confrontarsi con le nuove regole della società aperta, con le nuove identità e le nuove competenze. Pensare di “difendere la dottrina matrimoniale” confondendola con le regole di una società chiusa è uno degli errori peggiori che si possa fare.

6. Altre fonti per la tradizione

La tradizione cristiana non è priva di elementi per interpretare anche questa nuova fase. Spesso tali elementi sono presenti più nella tradizione sapienziale e profetica che nella tradizione legale. Questo è ovvio e non deve sorprendere. Una ermeneutica rinnovata della tradizione è un compito che alla Chiesa spetta da sempre. Già Paolo è, da questo punto di vista, un “traduttore”. E lo fa anche sul piano dell’esercizio del sesso, stabilendo che il “matrimonio legittimo” è una soglia decisiva per la relazione con Cristo mediata dall’uso del sesso.

7. L’atto e il processo

Da questa affermazione paolina, che Paolo deriva dalle evidenze della società ebraica del suo tempo, dipendono molte delle vicende interpretative che il cristianesimo e il cattolicesimo ha poi ritenuto insuperabili. Ma la scoperta del matrimonio non solo come “atto”, ma come “processo” implica una rilettura profonda di questa tradizione. Che si inaugura nel momento in cui il controllo sociale sulla sessualità cambia, lasciando al soggetto una nuova disponibilità nel gestire la propria esperienza e la propria espressione. Sia pure in termini riduttivi, Humanae vitae segna il riconoscimento di questa parziale separazione tra funzione di generazione e funzione espressivo-esperienziale della sessualità. Questa è una delle condizioni radicali della società aperta. Grande possibilità e grande tentazione.

8. La differenza dal catecumenato

Tutta questa dinamica di recupero dei “gradus ad matrimonium” non può però identificarsi semplicemente in un cammino catecumenale. Questa lettura, assimilando il matrimonio al battesimo e all’ordine, smarrisce per strada le ragioni della differenza del matrimonio rispetto al catecumenato della iniziazione cristiana e alla formazione in vista della ordinazione. In entrambi i casi, infatti, non vi è una dimensione naturale e civile che collabora originariamente nella definizione del sacramento. Il giusto riconoscimento del “processo” non può essere gestito con la assolutizzazione dell’atto. Qui la tradizione matrimoniale cattolica si lascia ancora condizionare da una logica giuridica da stato moderno. Sposarsi in Cristo è diverso dal far registrare l’atto al parroco. La intuizione tridentina è superata dagli eventi, da almeno 200 anni.

9. La sporgenza della grazia del matrimonio sulla natura e sulla città

Una lunga tradizione, che la scolastica ha valorizzato in modo esemplare, sa che la differenza del matrimonio, rispetto agli altri sacramenti, sta proprio nella sua irriducibilità alla logica ecclesiale. Il matrimonio “sporge” al di qua e al di là della Chiesa. Il desiderio naturale e il legame civile ne fanno parte costitutiva e non si lasciano determinare semplicemente dalla logica della fede. Qui la sfida è la più grande e non può essere affrontata con la risorsa che il Concilio di Trento ha adottato nel 1563. Ossia dalla determinazione della Chiesa ad essere il primo “stato moderno” a strutturare una competenza capillare sui contratti matrimoniali. Questa pretesa della “legge oggettiva” appare ad Amoris Laetitia come “meschina” (AL 304).

10. La burocrazia di uno Stato e la grazia del sacramento

Il “percorso” che struttura il matrimonio non è semplicemente la preparazione dell'”atto”, ma il costituirsi di relazioni profonde e nuove tra il vissuto del desiderio naturale, lo strutturarsi del legame sociale e la rilettura “per grazia” del primo come del secondo. Se il “percorso” viene letto con gli occhiali tridentini, è negato prima ancora di essere assunto e viene pensato e modulato con una sorta di “ibrido” tra “iniziazione cristiana” e “formazione di seminario”. Gli sposi cristiani non possono essere ridotti a catecumeni mancati o seminaristi potenziali. Gli schemi di questo “orientamento catecumenale” appaiono assumere la dimensione del processo, ma in modo sfasato rispetto alla dinamica sempre anche naturale e civile di cui intendono prendersi cura. Una confusione ancora troppo forte tra “primo” e “ultimo” sacramento incide profondamente sul tenore espressivo e sulla efficacia pastorale del testo.

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