Sui nomi e sui cognomi: le semplificazioni populiste e le vere questioni


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In una formidabile sequenza di battute forzate e ribadite a sproposito, Matteo Salvini ha immediatamente confermato la qualità populista e fittizia delle sue parole. Questa volta, ieri a Domodossola, ha parlato a proposito della scuola, facendo un infelicissimo esempio di come si sia diffusa una “nuova peste”, che nasconderebbe una evidentissima tendenza transessualista: ossia questa strana pratica di fare l’appello scolastico chiamando i ragazzi col cognome, anziché per nome. Questo garantirebbe ad ognuno, come è evidente, di definirsi con maggiore e sospetta libertà, coperto dall’ambiguo cognome, che come si sa è privo di genere. E’ evidente che si è trattato di una madornale svista, che pretende di  denunciare come “nuova” una prassi molto antica, e ragionevole alquanto, che è quella di ordinare gli alunni di una classe per cognome (dalla A alla Z) e di fare pertanto l’appello secondo questo ordine (che credo risalga sicuramente almeno alla fine del XIX secolo). Ma c’è un aspetto diverso sul quale vorrei soffermarmi e che segnala la grave astrattezza delle parole del politico leghista. Egli ha evocato un “appello ideale”, che sarebbe fatto di nomi come Matteo, Cristina, Alberto, Stefano, Maria ecc. ecc. Fatto di nomi, anziché di cognomi.

In realtà quella scuola, di cui Salvini parla, ma che dimostra di non conoscere, ormai da molti anni non prevede affatto elenchi ideali come quello da lui immaginato: perché la nostra scuola conosce, da tempo, sistemi di “denominazione delle persone” che non sono i nostri. Nella scuola italiana studiano molti stranieri. I quali si portano dietro i loro nomi “stranieri” e quindi “strani” al nostro orecchio e al nostro occhio. La tradizione italiana ha iniziato dopo il Concilio di Trento ad usare quel modo di “denominare” che noi riteniamo “naturale”: ossia nome e cognome. Matteo Salvini, Enrico Letta, Mario Draghi. Tutto facile e naturale, ci sembra. Ma già l’Europa mediterranea non è uniforme. I doppi cognomi o i doppi nomi, di tradizione spagnola o portoghese, ci fanno sempre esitare: ci sembrano due o tre persone, ma sono una sola. Così come i difficili secondi nomi anglosassoni ci imbarazzano. E che dire dei “von” o dei “van” che appaiono dei nomi tedeschi o olandesi? E siamo solo in Europa. Abbiamo però da noi soprattutto studenti cinesi, africani, sudamericani, che utilizzano sistemi di “denominazione ufficiale” che non corrispondono ai nostri. Ecco allora una buona sfida. Se Matteo Salvini, per un solo giorno, sostituisse il professore di Storia ed entrasse in una seconda media nella sua Lombardia o in Veneto, facilmente si troverebbe davanti un registro (elettronico) in cui per una decina di studenti avrebbe grande difficoltà a riconoscere quale sia il nome e quale il cognome. Meravigliosa inversione: vuoi fare una battuta ad effetto sulla “ideologia gender nella scuola” e scopri che le pedine sono disposte sulla scacchiera in modo diverso e i problemi si capovolgono. Il populismo pretende di semplificare la realtà, di renderla elementare, anche quando parla della scuola elementare, la pensa con gli schemini facili facili di 100 anni fa. Perché o non la conosce o non vuole riconoscerla. Ma sarebbe invece una bella occasione di incontro-scontro con la realtà. Una realtà che ti parla di ragazzi e ragazze che non hanno anzitutto il problema di voler essere diversi da quello che sono, ma che cercano di essere riconosciuti per quello che effettivamente sono. Questo risuona anzitutto nel loro nome e cognome. Ma tu fatichi anche solo a capire quale sia, tra quei segni, il loro nome, stenti a pronunciarlo in modo corretto e a intendere bene, da quel suono, quale cultura portano con sé, quali orizzonti hanno abitato, che cosa cercano e di quante cose hanno nostalgia, orgoglio o paura. Imparare i nomi e i cognomi dei nostri allievi è una impresa. Ci sono nomi indiani o dello Sri-Lanka che sono lunghissimi, impronunciabili, ma hanno per significato dei “piccoli poemi” come “albero sul bordo del fiume” o “bosco nascosto dalla nebbia” o “corona di fiori vermigli”… Nel cognome siamo ricondotti al gruppo famiglia o al clan o alla tribù o alla toponomastica di luoghi lontanissimi. Nel nome siamo ricondotti solo a noi stessi, sotto il suono che rievoca un santo e/o un progenitore, o anche un attore, un calciatore o un personaggio televisivo o, come per le ragazze albanesi, un fiore. Comunque sia, il nome dice la contingenza di una non rappresentabile unicità. Così come noi possiamo riferire a Salvini un certo modo di argomentare o di ragionare, certamente chi lo conosce bene e ha con lui un legame diverso, di affetto, di parentela o di complicità, potrà dire: “E’ proprio Matteo”. E così, non dicendo niente (nomina nuda tenemus), dirà di lui proprio quel tutto, che a noi sfugge. A scuola il gioco di nome e cognome non si può appiattire soltanto sulla esile questione del “sospetto gender”. Questa è una forzatura irrimediabile e una finzione elettorale senza vera sostanza e una sfigurazione dei soggetti implicati. Parlare di “nomi” e “cognomi” dei nostri alunni italiani, egiziani, congolesi, nigeriani, rumeni, tunisini, senegalesi, marocchini, albanesi o ucraini significa entrare in un’altra cultura, che è quella nella quale loro sono entrati nel mondo, e che li ha chiamati secondo regole, priorità e logiche che a noi spesso sfuggono del tutto. Il problema non è se fare l’appello per nome o per cognome, ma poter fare in modo che, quando si sente chiamato, il ragazzo o la ragazza possa riconoscersi riconosciuto/a in quel suono, in quel tono e in quel ritmo che lo/la interpella. Che si senta interpellato/a nell’appello che lo/la chiama per nome e per cognome. Per fare l’appello dobbiamo imparare i nomi delle loro vite: solo così possiamo avere la speranza di insegnare loro qualcosa dei nostri nomi e dei nostri cognomi.  Un semplice esempio di appello scolastico ci porta subito ad affrontare la questione di fondo: quale accoglienza culturale e scolare, politica e umana riserviamo a questi nostri “appellati”?  Credo che sia giusto dire al nostro comiziante: su questo ti sentiremo volentieri un’altra volta. Però vieni preparato.

 

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