“Esistono molti Ratzinger”. Una teologia ‘selettiva’ della storia (di R. Saccenti)


 

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Parafrasando una nota affermazione di H.U. von Balthasar a proposito di K. Rahner (“Ci sono molti K. Rahner”), presento un testo importante, con cui R. Saccenti propone una rilettura della comprensione della “storia” che ha caratterizzato il pensiero di J. Ratzinger, nelle varie fasi della sua opera. Proprio nel giorno delle esequie del Vescovo emerito di Roma mi pare un modo molto adeguato di rendere onore ad un uomo di pensiero, non rinunciando a pensare fino in fondo intorno alle sue teorie. Ringrazio il prof. Saccenti, che insegna Storia della Filosofia medievale presso l’Università degli studi di Bergamo e che così ci aiuta a dipanare uno dei nodi più intricati della teologia di J. Ratzinger. (ag)

Una teologia “selettiva” della storia. Su Ratzinger e la visione della storia

di Riccardo Saccenti

La morte di Benedetto XVI ha portato con sé un dibattito sulla figura di Joseph Ratzinger e sulla sua eredità teologica e magisteriale che non può esaurirsi nel volgere della sola contingenza del trapasso terreno del Pontefice emerito. E questo non solo perché il suo pensiero è oggi il punto di riferimento di quella parte dei cattolici, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, che guarda con preoccupazione e timore una realtà giudicata agnostica, quando non “acristiana”. Da teologo, da perito conciliare, da Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e da Vescovo di Roma, Ratzinger ha articolato riflessioni e idee, decisioni e scelte che hanno espresso un modo di concepire la natura del cristianesimo e della Chiesa e di intendere il rapporto del Popolo di Dio con il mondo che hanno modellato il sentire di non pochi credenti e al tempo stesso sollevato questioni e controversie profonde legate agli snodi essenziali che attengono la vita cristiana in questo passaggio storico.

Fra i giudizi su Benedetto XVI che prendono forma in questi giorni alcuni hanno voluto mettere in evidenza una questione teologicamente centrale, le cui ricadute sono misurabili sul terreno del suo magistero: il modo di guardare alla storia. La teologia di Ratzinger viene giudicata al riguardo con modalità che appaiono, talvolta, opposte. Da un lato, si evidenzia una rigidità nel rapporto fra la traditio e la sua traduzione storica, che confina ogni rilettura del deposito di fede nel criterio di una stretta “continuità”1. Dall’altro lato, al contrario, si rivendica la natura “storica” della teologia di Ratzinger, perché profondamente segnata dalla nozione di “storia della salvezza”2. Le due posizioni più che essere antitetiche colgono due elementi che coesistono nella biografia intellettuale del teologo: la priorità data al cristianesimo come fedeltà all’evento che è il Cristo, giudicato come unico e univoco non solo nel contenuto ma nelle sue ricadute teologiche ed ecclesiali; l’idea che la vicenda temporale della Chiesa si giochi in un progressivo riassorbimento e purificazione dell’umano nella cornice della fede.

Provare a misurarsi con il modo con cui Ratzinger ha guardato alla storia e con il peso che questo concetto ha assunto nella sua riflessione teologica richiede allora di far tesoro di queste due letture, collocandole però – in una sorta di salutare tautologia metodologica – dentro l’esigenza di storicizzare il pensare stesso del teologo. Perché fra gli scritti su Agostino e Bonaventura del giovane Ratzinger degli anni Cinquanta del Novecento e la trilogia dedicata a Gesù di Nazaret sussiste una distanza non solo cronologica. Esistono infatti molti Ratzinger, che emergono dal misurarsi del suo pensiero con contingenze che mettono in discussione nodi concettuali diversi e alimentano un costante ripensare i fondamenti della visione teologica. Vi è certamente un dato di continuità, soprattutto per quanto attiene alla riflessione sulla “storia” e sul suo valore in chiave cristiana ed è dato dalla sensibilità agostiniana e bonaventuriana che accompagna Ratzinger. E tuttavia questo elemento non resta uguale a sé stesso lungo la sua parabola intellettuale, ma assume consistenze diverse nelle stagioni di una vita che con lo scorrere dei decenni giudica in modo sempre più problematico il rapporto fra cristianesimo e mondo contemporaneo.

1. Fra Agostino e Bonaventura

È certamente vero che Agostino e Bonaventura rappresentano i due punti di riferimento nell’elaborazione della visione della storia di Ratzinger. E tuttavia si tratta non dell’interezza della produzione teologica di questi autori ma di alcuni testi specifici, il De civitate Dei del vescovo d’Ippona e le Collationes in Hexaemeron del dottore e generale dei Frati Minori, testi ai quali Ratzinger si approccia negli anni degli studi universitari, del dottorato e della tesi di abilitazione e nei quali coglie un richiamo ad una chiara alterità fra Dio e storia che vede nel Cristo il centro e il metro con cui misurare il rapporto con il mondo3. Rispetto all’impostazione di una certa neoscolastica, dominante negli ambienti della teologia romana degli anni Cinquanta del Novecento, emerge l’idea che la costruzione teologica si giochi nella temporalità del rapporto fra il Cristo e la cultura umana e si articoli come una progressiva accettazione del valore salvifico del primo da parte della seconda.

Matura qui l’idea che la historia salutis si determini come una sorta di assorbimento nella fede di ciò che qualifica l’umanità come tale, in una dinamica che è anche purificazione e sublimazione dell’umano. Quasi che quanto creduto dalla Chiesa sia un setaccio capace di “isolare” quel che è più autenticamente umano, assumendo un valore che va al di là del perimetro stesso dell’insieme dei battezzati. La storia, in questo senso, è espressione di questo cammino e delle tensioni che segnano una relazione fra Chiesa e umano nella quale la prima è chiamata all’atto di una testimonianza radicale e continua dei contenuti del suo credere, mentre il secondo può riconoscere nel Cristo il paradigma della propria compiutezza.

L’insegnamento della Chiesa, che nel tempo ripropone la perennità del depositum fidei, nel Ratzinger degli anni del Concilio ha davanti a sé il problema di discutere le forme con cui dare corpo alla trasmissione della fede. Da qui l’adesione del perito del cardinal Frings a quelle istanze che insistevano sull’idea che il soggetto investito di questo compito non fosse solo la gerarchia, ma piuttosto l’interezza del Popolo di Dio. In questo senso, il lavoro di Ratzinger sul testo di Lumen gentium rappresenta il completamento di una evoluzione continua della traduzione in forma istituzionale della autocoscienza ecclesiale. La Pastor aeternus, con cui il Concilio Vaticano I fissava i tratti del primato petrino in età contemporanea, non era dunque da superare ma da integrare, bilanciandola, con la nozione ecclesiologica di collegialità e con la nozione di “Popolo di Dio” accanto a quella di “Corpo mistico”.

Col mutare dello sfondo storico e la crisi che attraversa forme e contenuti della cultura europea a partire dagli anni Settanta, la relazione fra Chiesa e mondo assume per Ratzinger una valenza diversa. La messa in discussione di paradigmi concettuali e sistemi di credenza e delle loro traduzioni sul piano istituzionale assume una valenza problematica, perché pone il problema di un esercizio della ragione che non si pone il problema del proprio compimento nel perimetro della fede, ma piuttosto sul piano della sola umanità. A contatto con quanto prende forma in Europa e nel Nord America, la distinzione fra città dell’uomo e città di Dio non è più funzionale alla salvezza della prima nella seconda, ma porta a leggere il rapporto fra i due piani come una cesura di fatto incolmabile e causata da un voler escludere la fede dalla sfera del “ragionevole”. Con la griglia “storica” elaborata negli anni Cinquanta, la cultura contemporanea appare a Ratzinger strutturalmente segnata da questo limite, che si traduce non solo nella areligiosità, ma investe anche la dimensione antropologica, perché arriva ad amputare una parte essenziale e strutturale dell’umanità: il riconoscimento della Verità che ha una sua oggettività nella assolutezza del divino che nel Cristo/Evento si è rivelato.

2. Storia e metafisica

Quella di Ratzinger è una visione della storia della salvezza che certamente pone una serie ipoteca sulla impostazione metafisica di matrice neoscolastica. Se il Cristianesimo è rivelazione di un Dio che diviene punto terminale nel quale è chiamata a ricomprendersi l’interezza dell’umano, la struttura ontologica della realtà assume una valenza secondaria rispetto alle tappe temporali di un processo di cristianizzazione che è inteso come sinonimo di umanizzazione. E tuttavia, in questa storia scandita da tappe specifiche, i diversi passaggi assumono il valore di snodi essenziali, irreversibili, che orientano in un senso specifico il percorso dell’evangelizzazione affidato alla Chiesa.

Tale approccio, che trova una chiara esplicitazione nel saggio forse più articolato e bello di Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, suppone che l’incontro fra la fede cristiana e la cultura greco-romana sia un dato non occasionale o una mera contingenza storica, ma un elemento strutturale e strutturante della coscienza teologica del cristianesimo4. In quel testo Ratzinger recupera l’atteggiamento dialettico nei confronti della ragione filosofica che ritrova nella tradizione del suo Agostino e del suo Bonaventura, evidenziando il rischio che i filosofi abbiano: «sì imparato a misurare il mondo, ma disimparato a misurare se stessi»5. E tuttavia, sposando la linea secondo cui: «Le inderogabili risposte <ai problemi riguardanti il contenuto della fede> si potranno trovare unicamente appuntando gli occhi sulla configurazione concreta della fede cristiana, che ci accingiamo d’ora in avanti ad analizzare sulla scorta del cosiddetto Simbolo apostolico»6, Ratzinger individua in una traduzione teologica maturata utilizzando e riformulando l’argomentare della filosofia di matrice greca l’unica e autentica ipostatizzazione dei contenuti della fede.

E in questo emerge come il nodo metafisico, che per Ratzinger rappresenta un problema nella misura in cui rischia di ridimensionare la dialettica fra fede e storia, fra Parola ed Evento, ritorna come fatto che è al cuore stesso della formulazione teologica della fede cristiana. Perché le verità credute per fede che il Simbolo articola delineano un preciso ordine metafisico, che dalla dinamica trinitaria si riflette a determinare i rapporti fra Creatore e creatura fino a delineare il paradigma relazionale che è misura dell’esistente.

Del resto, il dualismo fra storia e metafisica è fatto strutturale anche nei due modelli che ritornano nella lettura teologica della storia di Ratzinger, ossia in Agostino e Bonaventura. Ed è elemento irriducibile e forse incomponibile perché attiene alla presa d’atto della distanza che separa e al tempo stesso unisce Dio e mondo e che è, appunto, asse portante di una metafisica che dialoga con la temporalità della rivelazione e della fede creduta.

In questo senso, dunque, la teologia di Ratzinger reinterpreta e traduce nella teologia della seconda metà del Novecento e dei primi decenni del Ventunesimo secolo una tradizione antica nel pensare cristiano, preoccupata di evidenziare un’alterità, quella di Dio rispetto al mondo, che però si esplicita in una direttrice precisa e univoca a livello storico, che è quella del cristianesimo e di un certo cristianesimo, inteso come fedeltà ad una traditio che è continuità. Da questa linea argomentativa resta escluso il nodo del rapporto conflittuale fra cristianesimo e cultura greco-romana e l’osservazione che la traduzione della fede, che prende corpo nei Padri della Chiesa, non solo non è univoca e continua, ma nemmeno è l’unica possibile.

Quello che è il cristianesimo del I-V secolo non appare allora come espressione di una inculturazione, cruciale certo nella vicenda storica della fede, ma non assolutizzabile sul terreno delle forme e soprattutto dell’intelligenza reciproca del credere e del pensare, che il cristianesimo è capace di produrre nel rapporto con l’umano. Da qui la fatica che la lettura storica di Ratzinger fa nel guardare al maturare di culture teologiche altre da quella europea e mediterranea, perché figlie dell’incontro con “ragioni” diverse da quella del logos. L’America Latina, come anche le diverse regioni dell’Asia e i confini di frattura e incontro ecumenici, non rappresentano solo i luoghi della geografia di un cristianesimo che deve misurarsi con il mondo globale. Sono l’espressione della capacità della fede e del Vangelo di dialogare con l’umano e con le tante forme della sua “ragionevolezza”, in un reciproco illuminarsi che incarna forse nel senso più intimo e profondo l’adagio che Gregorio Magno riferiva all’intelligenza della Bibbia e secondo cui: «scriptura crescit cum legente».

3. Una teologia “europea”

La riflessione sulla storia che attraversa il pensare teologico di Ratzinger esprime dunque una specifica comprensione di cosa sia il cristianesimo: uno stato che è quello ultimo della natura umana, nel quale si sana la frattura fra fede e ragione grazie ad una fede che è strutturalmente “ragionevolezza” e dunque è limite del pensare perché ne è la regola. Tale visione della storia evidenzia il valore dell’itinerario storico del cristianesimo intendendo quest’ultimo come una traiettoria lineare, dove i momenti di crisi non sono tornanti ma passaggi necessari per ritornare alla dinamica di un dire l’assolutezza del cristianesimo come verità creduta non solo su Dio ma sull’uomo. In questo modo la storia, per come Ratzinger la intende, diventa luogo in cui la Chiesa e i cristiani operano una scelta “selettiva”, nel guardare ad una traditio fatta di continuità temporale e dottrinale segnata dal criterio della fede “retta” (orthodxa), ossia di quella che si presenta come “ragionevole”. Questo esclude però dal rapporto con la traditio uno spazio più esteso, tanto in senso sincronico che diacronico, che è quello del molteplice pensare teologico che il cristianesimo ha prodotto, delle tante fedi “rette” che sono possibili di fronte alle diverse forme di ragionevolezza dell’umano.

Una tale constatazione consente di cogliere un tratto peculiare della biografia intellettuale di Ratzinger, ossia la sua natura fortemente “europea”. In questo si coglie un elemento di verità nei giudizi che vedono nella sua teologia l’espressione di un tentativo di ridare centralità, almeno culturale, all’Europa e a quella che per Ratzinger è la sua tradizione culturale e spirituale, inestricabilmente fusa col cristianesimo. È certamente vero che si è davanti ad un tentativo di ridefinire, in un mondo non più europeo, il ruolo religioso e intellettuale del cristianesimo del Vecchio Continente. E tuttavia, l’immagine dell’assise del Vaticano II, delle migliaia di vescovi raccolti nella basilica di San Pietro, è anche l’icona di una Chiesa che in modo irreversibile matura, nella seconda metà del Novecento, la consapevolezza diffusa di avere una natura “planetaria”, ossia di essere totalità nella quale abitano traduzioni diverse della fede e della sua traditio, che sono chiamate alla medesima responsabilità davanti al Vangelo e al mandato dell’annuncio del kerygma.

Per una Chiesa entrata in questa dimensione, la storia univoca della fede, pensata da Ratzinger, richiede di essere integrata, forse trascesa, in una concezione che compiutamente ne coglie il valore come luogo teologico e spazio in cui si danno i segni tempi. Il dualismo fra Parola ed Evento, fra Parola e storia, che per la sensibilità di Ratzinger è elemento rischioso, che diventa anche deriva verso la frattura interna ad una traditio intesa come continuità assoluta e coerente, è piuttosto polarità irriducibile, che produce reciproca intelligenza in una crescita in profondità e qualità della fede che è, nel suo pluralismo irriducibile, processo di umanizzazione.

Il valore della riflessione teologica di Ratzinger resta centrale per capire gli orientamenti culturali e magisteriali della Chiesa degli ultimi quarant’anni. E lo è a maggior ragione nella misura in cui si è capaci di coglierne con acume critico le caratteristiche, le istanze e soprattutto i limiti. L’orientamento fortemente marcato dalla centralità dell’Evento/Cristo come punto in cui il cristianesimo si rivela nella sua assolutezza come salvezza dell’umano, risponde a esigenze centrali nella riflessione teologica e filosofica degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, e produce un’interpretazione del mandato conciliare – l’aggiornamento indicato da Giovanni XXIII nel discorso di apertura l’11 ottobre 1962 – che richiede di completare il percorso della Chiesa con la collegialità e la nozione di Popolo di Dio (Lumen gentium), o con il riconoscimento della unicità della fonte della Rivelazione mediata da traditio e scriptura (Dei verbum). Nei decenni successivi, tuttavia, quello stesso schema determina una lettura che da critica diviene pessimistica della contemporaneità, individuando uno iato fra fede e umanità, fra cristianesimo e ragione che risponde però ad una sorta di traslazione del “caso europeo” su scala planetaria. È questa problematicità che emerge dal pensare teologico di Ratzinger che ne fa un termine di confronto imprescindibile, tanto per i suoi continuatori quanto per i suoi critici.

Riccardo Saccenti

1 Cfr. Ratzinger, tra tradizione e modernità. Intervista ad Andrea Grillo, di P. Mele, disponibile su www.rainews.it.

2 Cfr. M. Borghesi, La salvezza è una storia. La teologia di Joseph Ratzinger, disponibile su www.ilsussidiario.net.

3 Cfr. J. Ratzinger, Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino, Jaca Book, Milano 1971; Id., San Bonaventura. La teologia della storia, Porziuncola, Assisi 2008.

4 Cfr. J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 199611.

5 Ibidem, p. 39.

6 Ibidem, p. 49.

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