Il crimine, il peccato e la condizione umana: le parole di papa Francesco sulla omosessualità


 

papa-2BFrancesco-2B3

 

Le dichiarazioni di papa Francesco a proposito della omosessualità che “non è un crimine” hanno sollevato una serie di reazioni di giusto interesse, ma spesso basate su alcune confusioni che fanno parte della cultura contemporanea e che meritano un occhio di attenzione. Ecco il testo integrale del passaggio sul tema della intervista alla Associated Press. Pur essendo tratto da un testo ancora più ampio (per il quale rimando qui,) è già sufficiente a comprendere più correttamente la intenzione della dichiarazione, tenuto conto che la domanda a cui Francesco risponde verteva sulla “criminalizzazione degli omosessuali” e sull’appoggio che alcuni vescovi danno alle leggi penali contro la omosessualità, punita talvolta anche con la pena di morte:


«La condanna dell’omosessualità arriva da molto lontano. Oggi credo che i Paesi che hanno condanne legali siano più di cinquanta. E di questi credo che una decina abbiano la pena di morte. Non la nominano direttamente, ma dicono “coloro che hanno comportamenti innaturali”. Cercano di dirlo in modo nascosto. Ma ci sono Paesi o almeno culture che hanno questa forte tendenza. Penso che sia ingiusto. Qui in udienza io ricevo gruppi di persone così. Siamo tutti figli di Dio e Dio ci ama così come siamo e per la forza che ognuno di noi ha di lottare per la propria dignità. Essere omosessuali non è un crimine. “Sì ma è un peccato”. Prima distinguiamo tra peccato e crimine. Ma è peccato anche la mancanza di carità verso il prossimo, e allora? Ogni uomo e ogni donna devono avere una finestra nella loro vita alla quale rivolgere la loro speranza e poter ricevere la dignità di Dio. Ed essere omosessuali non è un delitto, è una condizione umana».

Per capire meglio queste dichiarazioni occorre precisare, anzitutto, che il mondo tardo moderno, scaturito dalle rivoluzioni di fine XVIII secolo, ha introdotto una distinzione preziosa. Ossia quella tra “reato” dal punto di vista penale e “peccato” dal punto di vista morale e religioso. La distinzione non è necessariamente né una opposizione, né una contraddizione: salvaguarda e produce due ordini diversi e irriducibili della esperienza. A ciò si deve aggiungere anche una terza categoria, quella dell’”illecito”, che si distingue tanto dal reato quanto dal peccato. Ciò che è reato dal punto di vista penale è sempre un illecito dal punto di vista del sistema giuridico, ma può non essere un peccato ed essere addirittura una virtù. Si pensi ad una legge penale che stabilisca il reato di “studio universitario” per le donne. Certamente l’ordinamento giuridico considera illecito anche solo il tentativo di iscrivere una donna alla università. Ma dal punto di vista morale e religioso, potrà essere una virtù garantire lo studio “clandestino” per le donne. D’altra parte è ben possibile che ciò che la tradizione morale e religiosa considera peccato (ad es. l’adulterio) possa essere stato considerato reato (come era in Italia fino al 1968) e continui ad essere considerato un “illecito” (che ad es. porta all’addebito della separazione). Ovviamente tra diritto penale, diritto civile e amministrativo, morale e religione ci sono tante forme di influenza reciproca. Ad es. in Germania ancora oggi la “fornicazione” (Unzucht) ha rilevanza penale, mentre in Italia non è così. Le storie dei rapporti tra crimine, illecito e peccato sono legate alle storie delle culture, delle lingue e dei popoli. E ci sono evoluzioni di ognuno dei tre termini: ci sono reati antichi che vengono “depenalizzati” (ad es. l’adulterio) e reati nuovi che “sorgono” (come l’omicidio stradale). Questo accade anche nelle tradizioni religiose: ci sono azioni che erano non-peccato (come la guerra o la pena di morte) e che per la evoluzione della coscienza di fede e della cultura diventano peccato. Se consideriamo la questione specifica della “omosessualità”, le parole di papa Francesco mi pare che suonino anzitutto a difesa della possibilità garantita all’ordinamento giuridico di non tradurre in crimine ogni peccato. Questo sarebbe il segno di una mancanza di laicità, che consiste appunto nel garantire sempre una certa elasticità e distinzione tra il comportamento pubblico, quello comunitario e quello privato. Questo, tuttavia, solleva una grande questione. Se a livello pubblico e privato possiamo apprezzare una certa accoglienza della identità e del comportamento omosessuale, che cosa possiamo dire e fare sul piano ecclesiale? Ci è sufficiente restare fedeli alla classica identificazione della omosessualità con un “vizio della castità”, senza però pretendere che questa lettura valga né sul piano pubblico né sul piano privato? O possiamo correggere quella impostazione classica semplicemente con la aggiunta di uno “stile di carità”?

Il ripensamento delle categorie

Al fine di comprendere meglio la identità omosessuale, vi è nella Chiesa cattolica la lenta elaborazione di una serie di distinzioni tra orientamento o tendenza omosessuale, assunzione personale dell’orientamento e compimento dell’atto sessuale. La comprensione in termini di peccato ufficialmente non riguarda l’orientamento, ma già la sua assunzione e sicuramente il compimento dell’atto. La libera scelta è identificata nella mancata resistenza all’atto omosessuale, che la continenza prescriverebbe. Vi è qui il nucleo della risposta che troviamo nei documenti più recenti e nel Catechismo della Chiesa Cattolica. E’ evidente che si tratta di una elaborazione ancora piuttosto rozza, perché perviene al rispetto della persona omosessuale, ma condiziona il rispetto alla scelta della continenza. Qui si innesta una scissione tra persona e suoi comportamenti che tende a pensare la omosessualità come vizio o come patologia, non come identità. Se quella omosessuale non è una identità viziosa o malata non può essere separata dai comportamenti che la integrano. La ammissione che si tratta di una “condizione umana” mi pare la apertura più grande, che tuttavia esige una grande rielaborazione del sapere tradizionale.

In effetti questa lettura “in fieri” si basa su una comprensione troppo drastica della alterità e della fecondità, che viene riferita soltanto alla coppia maschio-femmina. Con ciò si tende ad escludere che vi sia vera alterità tra due persone dello stesso sesso e che tra di loro possa esservi fecondità. La autorità della natura viene assunta in modo immediato e quasi identificata con la volontà di Dio. Pensare la alterità e la fecondità anche tra persone dello stesso sesso, superando la visione della omosessualità come “autocompiacimento infecondo”, sarebbe la strada da percorrere. Ma qui occorre riconoscere che i pronunciamenti ufficiali tra la fine del millennio scorso e l’inizio del nuovo millennio hanno introdotto “definizioni” che condizionano pesantemente la evoluzione interna della coscienza ecclesiale e della sensibilità. Per poter intervenire autorevolmente sulle pratiche ecclesiali occorrerebbero due passaggi diversi. Occorrerebbe anzitutto una nuova Istruzione della Congregazione per la Dottrina della fede, che proponesse una lettura diversa del fenomeno omosessuale, sulla base di una comprensione più ampia della sessualità. Questa sarebbe la premessa per una modifica anche dei numeri del Catechismo. Forse sarebbe anche molto utile una ricollocazione diversa del tema all’interno del CCC. Ora esso appare in una sequenza piuttosto imbarazzante. La sequenza delle “offese alla castità” è infatti questa: lussuria, masturbazione, fornicazione, pornografia, prostituzione, stupro e infine, sebbene in un diverso paragrafo, la omosessualità.

Il papa e la teologia

Per questa evoluzione, come è chiaro, non si può chiedere sempre al papa di fare “la lepre”. Quel che Francesco ha detto del Vescovo, vale anche per il vescovo di Roma: talvolta deve stare davanti a tutti, più spesso al centro, talvolta in fondo, con i più lenti. Spetta prima di tutto ai teologi e ai cattolici competenti offrire nuovi schemi per comprendere la omosessualità in modo più rispettoso. Solo così sarà possibile una reale accoglienza di coloro che vivono apertamente la loro identità omosessuale. Questo implica una elaborazione del rapporto tra assetti ecclesiali ed assetti sociali che non è affatto facile. Soprattutto se l’assetto sociale, ossia il riconoscimento pubblico dei diritti e dei doveri dei soggetti, ha preso strade nuove e tutela beni che da parte della comunità ecclesiale non si ritengono tali. E tuttavia una lettura credente e morale del mondo non è incompatibile con la crescita della tolleranza e del rispetto. Ma la “libertà di coscienza” è un bene riconosciuto ufficialmente nella Chiesa cattolica solo dal 1965. Questo fatto non va dimenticato e condiziona altamente anche il modo con cui “chiediamo al papa sovrano” di disporre un nuovo assetto. Far maturare una cultura della accoglienza e del rispetto ha bisogno non solo di “atti di autorità”, ma di teologi che abbiano la audacia di pensare in grande la identità sessuale di tutti. Su questo, in Italia, non mancano voci di grande interesse, come quelle di Basilio Petrà e di Aristide Fumagalli, che da almeno un decennio lavorano accuratamente sul tema, liberando la ragione credente da diversi pregiudizi. La evoluzione della dottrina cattolica, con tutta la dovuta articolazione, è l’unico modo per restare fedeli alla tradizione e per “fare cultura” nel contesto del mondo contemporaneo. Distinguere tra peccato, reato e condizione umana, come saper elaborare non solo “stili di carità”, ma anche “percorsi di giustizia” e “categorie di rispetto”, fa parte di quei compiti complessi, che la Chiesa non può mai delegare integralmente al suo passato.

Share