Penitenza: la sua teologia e le sue forme (di Silvia Tarantelli)


Confessione donna (stampa Ottocento)

Un Convegno padovano sulla “terza forma della penitenza” è il contesto in cui sono maturate le riflessioni che mi ha mandato S. Tarantelli. Si tratta di un testo molto lucido e appassionato, che dimostra una competenza profonda, utile per considerare meglio in che modo impostare la comprensione teologica del sacramento, delle sue crisi e delle sue opportunità. Ringrazio Sr Silvia per il testo, che è tra le cose più limpide che abbia letto negli ultimi tempi sul tema. (ag)

Per un avanzamento del discernimento ecclesiale e teologico sul sacramento della penitenza. A margine della Giornata di studio interfacoltà “Ripensare la prassi penitenziale” (Padova, 27 febbraio 2023)

di Silvia Tarantelli

La Facoltà Teologica del Triveneto, la Facoltà di Diritto Canonico San Pio X e l’Istituto di Liturgia Pastorale Santa Giustina hanno organizzato lo scorso 27 febbraio una giornata di studio che potesse raccogliere e rilanciare il percorso di ricerca congiunto iniziato nel 2021, con l’obiettivo di rimettere a tema le problematiche della prassi penitenziale. Punto prospettico per leggere la questione: l’utilizzo della III forma del rito durante le fasi più acute della pandemia, come prassi da valutare e interrogare (qui il programma: https://www.fttr.it/wp-content/uploads/2022/12/FTTR-pieghevole-Ripensare-la-prassi-penitenziale.pdf).

La partecipazione è stata numerosa e vivace, lasciando percepire il bisogno di ulteriori tempi di ripresa delle tematiche. L’eco provocata dall’ascolto dagli interventi dei relatori e dell’assemblea prende qui la forma di alcune possibili riletture e rilanci, per il proseguimento del lavoro nelle comunità accademiche ed ecclesiali.

 Mi sembra utile segnalare anzitutto alcune delle risonanze dei presenti, espresse ad alta voce come domande ai relatori, o come condivisioni e confronti a margine.

Centrale è emerso il bisogno delle persone di sentirsi esposte all’incondizionatezza dell’amore misericordioso di Dio, che possa plasmare tanto la forma della chiesa quanto la forma dei riti. L’attenuazione dell’accento giudiziale del sacramento, a motivo dell’assenza della confessione individuale, e della presenza della sola assoluzione generale, inserita spesso in contesti comunitari oranti, ha portato alla luce il bisogno che la qualità sacramentale della chiesa e dei suoi riti di perdono sia un efficace sporgersi sulla gratuita misericordia di Dio.

In connessione, non a caso, è emerso il disagio, se non l’insofferenza di fedeli e presbiteri proprio relativamente agli elementi chiave della forma ordinaria della penitenza (la confessione individuale e la assoluzione), per le tracce lasciate in ciascuno da un sentire inautentico, formalistico, se non gravemente invadente. Disagio, tuttavia, provato da alcuni, inversamente, per l’assenza della confessione individuale, che apriva all’incertezza circa la validità dell’assoluzione ricevuta. In questa tensione, appare centrale il bisogno di ricomprendere e ricollocare l’aspetto giuridico del sacramento della penitenza, e il conseguente diffuso sconcerto per la possibilità che ancora oggi, alla luce del magistero di papa Francesco, sia possibile agire, tanto nella curia romana, quanto nelle accademie, senza operare una riconnessione della mens canonistica con il valore teologico della liturgia e pastorale della riforma della liturgia e della chiesa promossa dal Vaticano II, e con l’invocato approccio interdisciplinare e transdisciplinare della ricerca. Infine, forte è emerso il bisogno di una riconsiderazione dei soggetti ministeriali implicati nella prassi penitenziale, per una comunità che, viva e reale, sia tutta partecipe di quanto si annuncia e si celebra.

 A commento di questa risonanza, colloco alcune considerazioni.

La prima e fondamentale è la seguente: il sacramento della penitenza ha già ricevuto una elaborazione teologica compiuta e chiara su ciò che gli è proprio, e nonostante gli sia proprio, manca, risulta non espresso e non esperibile nelle sue forme rituali. La sua fondamentale e inscindibile natura teologica ed ecclesiale, la sua strutturale connessione con le dinamiche di conversione proprie della vita cristiana (“virtù di penitenza”), il suo carattere laborioso, la sua identità in connessione con i sacramenti dell’iniziazione cristiana, la sua processualità e gradualità che invocano tempi, spazi e corpi di penitenza, la pluriformità che bene corrisponde alla storia del sacramento, ed è chiesta dalla sostanziale differenza tra confessione di devozione e confessione del battezzato gravemente peccatore. Tutto questo nel secolo scorso è stato profondamente elaborato a livello teologico, e confermato dalla voce di chi ha lavorato alla riforma del rito promossa dal concilio e ne ha valutato l’utilizzo nel sinodo dei vescovi del 1983. La crisi di identità della penitenza, che la mostra s-naturata, è un dato, e continuare a ripeterlo non sembra particolarmente fruttuoso nel promuovere un avanzamento.

 Da questa constatazione, si possono aprire almeno queste due piste di lavoro.

 1. Appare necessario promuovere, per la coscienza ecclesiale e teologica relativa al sacramento della penitenza, un processo di riconciliazione con la sua storia recente, in vista dello scioglimento del blocco che impedisce la ricomposizione della frattura tra teologia del rito e forma del rito. Gli studi storici e teologici hanno mostrato come, nel caso di questo sacramento, il processo di riforma conciliare sia andato incontro ad un sostanziale fallimento, bloccando il rito (che genera la mens teologica, e non ne è solo generato) nella sua forma tridentina. Il processo sinodale in corso da un lato, e gli interventi magisteriali di Francesco in materia liturgica, per la promozione di inculturazione ed adeguamenti, per la restituzione di competenze e di autorità alle conferenze episcopali locali, per il chiarimento dell’inderogabile autorità magisteriale del Vaticano II (cf Magnum principium, Traditionis custodes e Desiderio desideravi) appaiono come contesto opportuno perché la parresia episcopale e locale possa esprimersi in vista di revisioni ed adattamenti legittimi chiesti dallo “stato di morte” – così si è detto nella giornata – di questo sacramento. Se non ora, quando?

2. Data la chiarezza dell’identificazione delle problematiche del sacramento della penitenza a livello teologico, apparirebbe più utile considerale come “dati” e lavorare per promuovere affondi possibili sulle singole questioni, che consentano alla ricerca di avanzare e alla comunità di recepirle, anche “solo” nella forma di attenzioni celebrative già possibili, ancor prima di scomodare sperimentazioni pastorali. Esemplifico quattro ambiti che nel dibattito sono emersi con rilevanza.

    1. Se chiediamo al sacramento della penitenza di esporci all’incondizionatezza della misericordia di Dio, chiediamo qualcosa che non gli è primariamente proprio, e che esso non è nelle condizioni di manifestare in modo chiaro. Tale esperienza di grazia appartiene fondativamente ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, mentre la penitenza è fondativamente laboriosa, vede una inedita centralità del soggetto penitente (i suoi atti sono materia e la sua soggettualità ministeriale) perché si manifesti l’iniziativa perdonante di Dio. Occorre lasciare alla penitenza di essere l’esperienza della riconciliazione con Dio nel lavoro di riparazione del proprio volto di battezzato e del volto ecclesiale entrambi sfigurati dal peccato, e farsi carico della constatazione che le forme dei riti (e della chiesa) sembrano non riuscire ad introdurre all’esperienza imprescindibile del volto misericordioso di Dio. Che deve poter trovare risposta, non primariamente e fondativamente nel sacramento della penitenza.

    2. Al tempo stesso, occorre compiere un discernimento sull’identità di questa invocazione. Il bisogno di sentirsi esposti all’incondizionatezza della misericordia di Dio è sensus fidei, o è “perdono facile” (che per Ricoeur è fuga e rimozione), che esprime nodi culturali, fragilità antropologiche, riduzioni giuridiche-meccanicistiche che si associano e si nascondono alla nostra consapevolezza? Una sola situazione ecclesiale, particolarmente evidente, ci consente di riconoscere che, se fossimo noi parte lesa – e lo siamo – non saremmo disposti ad un perdono “incondizionato”, perché non sarebbe vero (e neanche “tradizionale”). Quanto sta accadendo nella crisi ecclesiale a motivo degli abusi sessuali commessi su minori e persone vulnerabili mostra chiaramente i danni umani, ecclesiali e teologici di un perdono facile, ridotto ad assoluzione, e vede la società civile recuperare gli atti tipici dei processi penitenziali, fuori dai quali non può esserci assunzione di responsabilità: riconoscimento della colpa e del danno, risarcimento, riparazione, presa in carico delle modifiche strutturali necessarie perché gli atti non si ripetano. E poiché siamo tutti, membri della chiesa, parti lese, data la natura ecclesiale del peccato, possiamo intuire come nel sacramento della penitenza non sia in gioco anzitutto l’incondizionatezza del perdono di Dio quanto il suo manifestarsi nel nostro laborioso riparare al male che fa male, a noi e a chi sta attorno a noi.

    3. E’ possibile parlare sensatamente di natura ecclesiale del sacramento della penitenza a partire da un contesto storico-culturale-sociale, come il nostro, in cui le appartenenze e le identità sono deboli, e anche le forme ecclesiali, non solo quelle rituali, appaiono sconnesse dalle identità che la teologia mette a fuoco? Quale esperienza ecclesiale costituisce il substrato da cui riflettiamo sulla penitenza e sulla sua natura ecclesiale, mentre la comunità non appare ancora nella sua soggettualità, possibile solo nella forma della pluriministerialità e di una leadership condivisa? Lo “stato di penitenza” – così si è detto nella giornata – a cui ci ha esposti la pandemia, in particolare il primo lockdown, infatti, è stato costituito più dall’insostenibile urto con la morte e la fragilità rimosse, come questione ampiamente umana e culturale, che con una condizione di conversione ecclesiale. Se non fosse così, le comunità ecclesiali sarebbero rifiorite grazie alla pandemia, e invece manifestano grandi difficoltà, a meno che non abbiano potuto connettere questa condizione esistenziale con l’identità della propria comunità di appartenenza.

    4. Il sacramento della penitenza funziona quando risponde al bisogno di un contatto intimo e personale a livello relazionale, che consente profondità e crescita. Tuttavia, anche questa figura del sacramento non le è propria, in modo primario e fondativo, e lo ha esposto nella storia ad una sorta di onnipotenza associata al ministero della direzione spirituale, che invece non ha qualità sacramentale. E anche in questo caso la crisi degli abusi mostra a quali deformazioni si è potuti arrivare, con atti compiuti proprio in forza della potenza della giustificazione teologica e dell’autorità derivante dalla parola “spirituale” del ministro ordinato nella confessione sacramentale.

Queste, ed altre tante possibili considerazioni, invocano la prosecuzione del lavoro ecclesiale e teologico, perché i bisogni e gli appelli fondamentali del popolo di Dio trovino risposta, ma con adeguata collocazione nelle differenti e specifiche prassi ecclesiali, guidati da una sorta di unicuique suum. Alla penitenza sta il suo avere le proprie sorti intimamente legate alle sorti dei sacramenti e dei processi dell’iniziazione cristiana: questa è la sua natura, da sempre, da cui ripartire e continuare a lavorare.

Silvia Tarantelli

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