Sull’animale: non bambino, forse “antenato”?


“Il nous faudra suivre de plus près

ce passage du mond muet au mond parlant”

M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, 200

Il modo di dare le notizie, quando emergono da un contesto ritenuto autorevole e comunque posto sotto l’occhio della attenzione pubblica, porta spesso ad una distorsione enorme e incontrollata: una battuta (non felice, ma decontestuata) di papa Francesco su una “benedizione rifiutata” ad un cagnolino ha sollevato un grande scontro tra posizioni polarizzate: lo scandalo per la benedizione e lo scandalo per lo scandalo. La reazione raccontata dal papa riguarda il fatto che una signora gli abbia chiesto, en passant, di “benedire il suo bambino” che era un cagnolino. E il papa, perdendo la pazienza, ha risposto: “Signora, tanti bambini hanno fame e lei col cagnolino…”. La questione vera è la confusione/opposizione tra bambino e cagnolino, tra vita umana e vita animale. Questo è un punto su cui non è facile pensare.

Una lunga tradizione, infatti, ha usato il “genere” dell’animale per definire – per contrasto – ciò che è specifico dell’uomo. Si trova un inizio illustre di questo in Aristotele, con la famosa definizione dell’uomo come “zòon lògon échon” (Politica,1253 a: “animale che ha la parola”). Ma lungo i secoli tale impostazione ha incontrato rielaborazioni molteplici, che si sono caratterizzate per una sostanziale conferma della comprensione di questa “differenza” tra uomo e animale, individuata nella “coscienza”, nel “pensiero” e nella “parola”. Sarebbe la “interiorità” a distinguere sostanzialmente il genere umano dal genere animale. Anche Hegel, nella sua dura critica alla filosofia della religione di Schleiermacher, conferma il modello classico di relazione uomo-animale, dicendo: “Se nell’uomo la religione si fonda soltanto sul sentimento, … allora il cane è il miglior cristiano”. L’assenza nell’animale di “parola” e di “pensiero” – ossia la mancanza della facoltà della rappresentazione nel “logos” mediatore e la riduzione della esperienza animale alla “vox” che esprime la immediatezza del piacere-dispiacere – crea la “differenza” decisiva rispetto a cui l’uomo si definisce. Da questa differenza nascono, solo nell’uomo, parola, pensiero, tempo, cultura.

Nel corso del pensiero tardo-moderno, questo modello classico è stato assunto o capovolto, ma mai veramente contestato, nemmeno dal riduzionismo positivistico ed evoluzionistico. La riduzione dell’uomo a coscienza “non più animale”, o dell’uomo ad “animale interessato alla – e attrezzato per la – sopravvivenza” procedono, in fondo, nel medesimo solco e con la stessa logica. Creano tra animale e uomo una assoluta discontinuità – o una totale continuità – senza comprendere a fondo la delicata relazione tra animale e uomo sul piano del “rapporto simbolico con l’ambiente”.

Nel pensiero del filosofo francese Maurice Merleau-Ponty troviamo, invece, un tentativo illustre di ripensamento di tale relazione in una “comunità naturale” tra animale e uomo che merita di essere riscoperta, senza alcun cedimento ai nuovi riduzionismi e monismi materialistici, ma anche senza alcuna via di fuga in ontologie o metafisiche che pretendano di risolvere il problema a monte della stessa domanda. Una rappresentazione originaria starebbe – in questo caso – alla base di questa “differenza” tra rappresentazione e sentimento, sancendo un “primato a priori della rappresentazione” che renderebbe piuttosto fragile la distinzione stessa.

In un testo del 1948, che riproduce sette trasmissioni radiofoniche, andate in onda tra l’ottobre e il novembre di quell’anno per il secondo canale della Radio francese – e che è stato pubblicato solo nel 2002, essendo stato ritrovato soltanto allora nel cassetto della sua scrivania, non essendo mai stato pubblicato prima – alcune delle intuizioni che prenderanno forma più compiuta nel 1958, vengono anticipate, sia pure in contesto “divulgativo” e “popolare”. In questi sette capitoli, che delineano una rapida e intensa presentazione della fenomenologia, il capitolo IV è centrale e si intitola: Esplorazione del mondo percepito: la animalità. Dopo aver parlato di un “risveglio del mondo percepito” l’autore aggiunge che questo fenomeno, tipico della filosofia e dell’arte moderna, può essere compreso meglio se si tiene conto di una condizione che egli esprime con un doppio passaggio:

“…impariamo a veder nuovamente il mondo attorno a noi da cui ci eravamo distolti nella convinzione che i nostri sensi non potessero insegnarci nulla di valido e che solo un sapere rigorosamente oggettivo meritasse di esser preso in considerazione. […] In un mondo così trasformato non siamo soli, e non siamo soltanto tra uomini. Questo mondo si offre anche agli animali, ai bambini, ai primitivi, ai pazzi, che lo abitano a modo loro e che coesistono con esso” (M. Merleau Ponty, Conversazioni, SE, Milano, 2002, 43-44.)

Il tema dell’animale introduce la differenza di “mondi”: accanto al “mondo adulto” appare ai nostri sensi – restituiti alla loro originaria autorità – un “mondo animale”, un “mondo infantile”, un “mondo primitivo” e un “mondo pazzo”. Questi “mondi” coesistono e in qualche modo costituiscono il sostrato e la articolazione del mondo “adulto”.

Ciò è tanto più importante per il fatto che il pensiero classico non ha minimamente valorizzato nessuno di questi “soggetti”: animali, bambini, primitivi e pazzi sono considerati come “diminuzioni dell’uomo” e non come sue componenti.

Dietro a questa riscoperta dell’animale e del suo “mondo” si mostra una critica del pensiero classico e della sua “antropologia compiuta”: l’animale non è semplicemente l’altro da noi, ma è anche, paradossalmente, il “medesimo”.

Che gli animali sia “privi di mondo” è una evidenza antica, che arriva fino ad Heidegger. Alla quale reagisce una nuova attenzione alla “comunità naturale” tra animale e uomo. Vita umana e vita animale non possono contrapporsi perché la prima è inclusa nella seconda. Nell’animale scopriamo il nostro “fondo”, allo stesso tempo limpido e oscuro. La differenza umana rispetto a questo “fondo comune” non si può perdere, anche se deve essere pensata non come una opposizione, ma come uno sviluppo interno ad una comunanza originaria.

Il cane, o il gatto, non sono figli o bambini. Stanno invece nella direzione degli antenati piuttosto che in quella dei discendenti. Nel contesto di un discorso sulla “denatalità” la sostituzione dell’animale al figlio è ovviamente problematica. Se la signora avesse detto “può benedire questo nostro antenato” avrebbe forse ottenuto una risposta diversa. D’altra parte anche i bambini, quelli veri, non sono forse ciò da cui tutti noi veniamo? I figli non sono forse per noi tutti non solo il segno del futuro, ma anche simbolo insuperabile del comune passato? E’ certo che in questione non vi è la benedizione dell’animale, ma la confusione tra il cucciolo di cane o di gatto e il cucciolo di uomo: l’animale che è senza peccato può sempre illudere sulla superiorità della assenza di libertà. La perfetta aderenza tra essere e dovere, che l’animale incarna inesorabilmente e magicamente, consola e spiazza. Dunque, sulla differenza da custodire non si può dubitare, soprattutto se il tema di cui si intende parlare è la denatalità. Purché sappiamo assicurare che il passaggio tra il “mondo muto” e il “mondo parlante” non sia pensato né come semplicistica identità, né come un salto senza continuità, ma neppure come una preziosa differenza senza comunità naturale.

Per chi volesse approfondire la questione rimando a due testi: al volume che appare come immagine di questo post e che è il frutto di un Convegno organizzato presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo (Ph. Nouzille (ed.), L’animale, Roma, Aracne, 2017) e il grande testo di J. Derrida, L’animale che dunque sono, Milano, Rusconi 2021.

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