Verso una teologia del ministero ordinato femminile


Sull’impedimento del sesso si è scritto molto lungo la storia della chiesa. Una discussione dei presupposti di queste opinioni appare oggi del tutto rilevante per una teologia sistematica del ministero ordinato. Nel volume che qui presento offro 24 variazioni sul tema. Pubblico qui una parte del primo capitolo, dedicato appunto al “tema”, al quale seguono 24 variazioni. (ag)

IL TEMA

Un fatto, di per sé, non prova altro che se stesso. Che un fatto indichi un principio può risultare solo attraverso un procedimento argomentativo assai complesso. La Chiesa da sempre è stata coinvolta in questo genere di processi ermeneutici complicati: ha vissuto molti fatti e li ha faticosamente tradotti in princìpi. Salvaguardando quasi sempre quella inquietudine, quella incompletezza e quella immaginazione che sono sempre necessarie in questi casi. Tale fenomeno ha riguardato anche la concezione della autorità e del suo esercizio nella esperienza ecclesiale. Al cui interno la questione della “esclusione del soggetto femminile dalla ordinazione” è rimasta, per molti secoli, oggetto di una evidenza immediata, indiscussa, ma profondamente condizionata dalla cultura personale e sociale di uomini e donne.

In effetti, ben presto la Chiesa ha dovuto organizzarsi come “comunità”. Ogni comunità ha bisogno di essere diretta, regolata e amministrata. I modelli con cui la Chiesa ha pensato le forme delle proprie auctoritates sono numerosi. Quello che si è affermato ben presto ha avuto come evidenza sia la singolarità del ministro sia la sua maschilità. Questo è rimasto come un presupposto indiscusso in larga parte della esperienza ecclesiale. E ha continuato ad essere pacificamente efficace, almeno fino al concilio Vaticano II. Con l’ultimo concilio sono emerse due fondamentali novità:

a) da un lato la “singolarità” del sacerdote si è trasformata nella “pluralità e collegialità dei ministeri”. Una complessa mutazione ha investito la comprensione del ministero in due passaggi:

– da un lato recuperando un “ministero ordinato” in tre gradi (diaconato, presbiterato ed episcopato)

– d’altro canto trasformando i “gradi inferiori dell’ordo” in “ministeri istituiti”, intesi come categoria “aperta”.

b) dall’altro la affermazione della necessaria “mascolinità” del ministro ha trovato nel “segno dei tempi” della donna nella vita pubblica (“in re publica”) il suo limite intrinseco e imbarazzante. Una evidenza che ha attraversato i secoli, e che, da Aristotele a S. Tommaso d’Aquino, fino agli inizi del XIX secolo, ha considerato la donna segnata da strutturale inferiorità e incapace di autorità pubblica, è entrata in crisi, dentro le logiche della “società aperta”. E la riserva maschile ha conosciuto di recente un suo primo importante superamento.

Questo sviluppo ha posto la teologia cattolica di fronte ad una nuova domanda di argomentazione. Da un lato può sembrare che la domanda nuova debba essere formulata così: “possiamo includere le donne tra i soggetti di valida ordinazione?”. Ma la tradizione aveva piuttosto elaborato criteri di esclusione, identificando un sistema di “impedimenti”, che consideravano una serie di soggetti, che per ragioni esplicite non si riteneva potessero essere ordinati, in modo assoluto o in modo relativo. Nella lista predisposta da S. Tommaso d’Aquino, ad esempio, la donna compare sempre al primo posto dell’elenco degli “irregolari”, sopravanzando nettamente i minori e gli incapaci, gli schiavi, gli assassini, i figli naturali e i disabili.

La domanda classica, perciò, non è stata “perché dovremmo includere la donna?”, bensì “perché dobbiamo escludere la donna?”1.

Le strategie con cui la Chiesa cattolica ha provato a rispondere al “segno dei tempi” della donna che entra autorevolmente nello spazio pubblico non sono risposte classiche, almeno dal punto di vista formale, perché il mondo nel quale la chiesa aveva vissuto fino al XIX secolo pensava esattamente come la chiesa: perciò essa in quel mondo non doveva argomentare ciò che era pacificamente condiviso e se lo faceva, esprimeva in ciò il “senso comune”, non una verità teologica. E’ però utile sapere che la Chiesa premoderna tendeva a considerare tutti i battezzati come possibili soggetti di ordinazione, salvo coloro su cui esisteva un “impedimento”, mentre a partire dal XX secolo (con il Codice del 1917) si capovolge il procedimento argomentativo e si fissa come “soggetto ordinabile” soltanto il battezzato maschio (“vir”), assumendo questa come una evidenza dovuta alla specificità teologica del soggetto ecclesiale. In questo modo sorge l’idea che la esclusione sia ecclesialmente ovvia e senza bisogno di argomentazione (un fatto, appunto), e che si debba invece costruire una complessa giustificazione per la inclusione anche della donna tra i soggetti ordinabili.

Io vorrei restare fedele a quella logica medievale e identificare bene la questione da affrontare, formulando con cura la domanda “perché dovremmo escludere la donna dalla ordinazione?” Questo modo di impostare la questione rimane più fedele alla tradizione, e così ai nostri occhi realizza una grande inversione, ossia capovolge l’onere della prova: non è la donna a dover dar prova di essere ordinabile, ma è la Chiesa a dover provare che non è ordinabile2.

[…]

Di fronte al magistero cattolico, che afferma di “non avere il potere di cambiare la tradizione della esclusione della donna dal ministero ordinato”, la teologia registra la posizione e si domanda tre cose:

a) E’ vero che il magistero non ha il potere di includere, e mantiene perciò intatto il potere di escludere? Nella “teologia negativa” che il magistero cattolico ha adottato per non impegnarsi più in un elenco di impedimenti, che cosa alimenta l’effetto di positiva esclusione? Quale potere rimane dopo aver escluso di aver potere? La storia di un impedimento è sufficiente a giustificare tale nuova forma di impedimento? Si può essere impediti dal rimuovere un impedimento che non si riesce più a giustificare se non perché “si è fatto sempre così”?

b) Quali sono le argomentazioni teologiche che reggono questa posizione apparentemente solo negativa? La ricerca delle ragioni implicite appare necessaria, anche se la loro rassegna conduce a cortocircuiti argomentativi piuttosto allarmanti, che sembrano oscillare tra la trasformazione dei fatti in princìpi e la elaborazione di nuovi princìpi solo a custodia dei fatti acquisiti.

c) In che modo il “sesso maschile come sostanza del sacramento”, elaborato agli inizi del XX secolo, viene modificato da un numero plurale di ministeri? Se la “riserva maschile” viene superata in un ambito specifico del ministero ecclesiale (come è accaduto dal 2021 per i “ministeri istituiti”), che cosa comporta questo cambiamento strutturale per le argomentazioni utilizzate nel ragionamento teologico? Può essere considerato un “precedente” che introduce nella argomentazione teologica una nuova via di comprensione e di sviluppo?

Magistero e teologia si integrano continuamente, in un dialogo che è molto articolato anche quando resta sotto traccia. La fragilità di una posizione, che si regge sulla sola autorità, ma che non riesce a dare ragioni convincenti di ciò che asserisce, segnala una questione che è interesse di tutti affrontare con pacata e paziente lucidità. Per questo una ragionata rassegna delle argomentazioni che escludono la donna dal ministero ordinato appare oggi un compito inaggirabile, che incombe ad una teologia responsabile: responsabile anzitutto verso le donne, ma più in generale verso lo statuto stesso del pensare e del sentire cattolico. Ciò deve essere compiuto senza alcuna possibilità di scavalcare il magistero, ma per arrivare ad una revisione critica delle sue affermazioni, mostrando gli argomenti forti e quelli deboli che la tradizione ci offre e di fronte ai quali occorre prendere posizione, sul piano della ragione come sul piano della fede, senza confondere i due livelli e senza separarli. Poiché la esclusione della donna dai soggetti di valida ordinazione ha caratterizzato una lunghissima tradizione, in una alleanza profonda con il pregiudizio comune, fondandosi su argomenti biologici, antropologici, sociologici, scritturistici e sistematici, occorre oggi valutarli fino in fondo e considerare l’ipotesi che nessuno di questi argomenti sia più in grado di giustificare l’impedimento. E se non c’è più impedimento, la via è aperta: non sarà certo la strategia della “sostanzializzazione” o della “sacramentalizzazione” dell’impedimento, inaugurata sul piano giuridico all’alba della canonistica, ma ripresa nel XX secolo con nuova intenzione sistematica, a renderlo più persuasivo o più efficace.

1 S. Tomae Aquinatis, Supplementum alla Summa Theologiae, q. 39, a. 1. Il titolo di questo volume riprende letteralmente il titolo di questo articolo, per assumere la medesima postura che ha segnato larga parte del pensiero medievale e moderno sul tema, prima della “sostanzializzazione” e “sacramentalizzazione” del sesso maschile, prefigurata prima dalla canonistica medievale nel suo sorgere, ma inaugurata sistematicamente solo dalla teologia cattolica del XX secolo, con la iniziativa magisteriale e la obbedienza (e/o compiacenza) di una parte significativa del pensiero teologico.

2 E’ importante riconoscere che questa “prova” non può essere semplicemente costituita da un “fatto”. La esclusione della donna essendo un fenomeno sociale e culturale assolutamente risalente, che ha iniziato a cambiare significativamente soltanto da un secolo a questa parte, è evidente che la “prova storica” è una prova fittizia. La Chiesa non ha alcun merito nell’aver assecondato una cultura della discriminazione e non può portare questa come “prova” del buon fondamento attuale della propria prassi di riconoscimento della “chiamata al ministero ordinato”. Poiché gli ultimi documenti ufficiali tendono ad assumere fondamentalmente questa postura – considerando il fatto della esclusione secolare come una volontà del Signore e come fondamento del diritto (divino) a continuare su questa via – proprio su questo punto le 24 “variazioni sul tema” che propongo in questo volume intendono mostrare la fragilità tanto di questa via “fattuale”, quanto dei tentativi di argomentare “secondo principi” questa apparente logica oggettiva.

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