Esiste una dottrina cattolica sulla donna ecclesialmente autorevole?


Il dispositivo di blocco contro la indole pastorale

Nella discussione che accompagna la riflessione ecclesiale verso la Assemblea del Sinodo dei Vescovi, alla comprensione della donna viene premessa una convinzione spuria, che altera profondamente il dibattito, e che proviene da una lunga tradizione, in cui la donna ha subito una comprensione “minorata” della propria dignità. Il fatto grave, che si è realizzato nel 1994, è stata la pretesa “dogmatizzazione” di questo impedimento disciplinare. Con un testo molto laconico, il magistero pretendeva, allora, di ridurre la questione ad una problematica assunzione dogmatica di un fatto storico: sarebbe una pretesa della “divina costituzione della Chiesa” la riserva maschile dell’accesso al ministero sacerdotale. Non è difficile costatare che nella discussione alcuni interlocutori attraibuiscono “alla dottrina cattolica” questa posizione. E suggeriscono che, per vedere riconosciuta diversamente la autorità femminile, ci si possa rivolgere solo ad altre tradizioni (protestanti, anglicane…). Credo sia utile mettere in chiaro che in questo giudizio vi sono diverse imprecisioni, che conducono a conclusioni errate:

a) la posizione affermata dal magistero nel 1994, con pretese definitive, è semplicemente una posizione “vecchia”, che ha caratterizzato la lunga tradizione in cui la Chiesa si è identificata come “societas perfecta” e “societas inaequalis”. In una tale società, che arriva fino agli inizi del XIX secolo, la gerarchia dei sessi è una differenza essenziale all’ordine sociale e all’ordine cosmico: in un certo senso è Dio la garanzia di questa gerarchia. E, a sua volta, solo la gerarchia dei sessi rispetta Dio e l’ordine naturale.

b) Questo assetto ha suscitato un lavoro teologico di giustificazione della gerarchia dei sessi mediante una duplice giustificazione classica: sul piano della autorità e sul piano della anatomia. Da un lato si invoca la condizione di “soggezione creaturale”, che sarebbe costitutiva della donna” e dall’altro la “mancanza di somiglianza con la maschilità del Verbo incarnato”: nelle due linee di interpretazione domenicana e francescana, queste visioni arcaiche hanno creato una impalcatura di argomentazioni in cui la esclusione ecclesiale corrispondeva con la esclusione civile.

c) Con il sorgere del mondo tardo-moderno, la dignità della donna in ambito pubblico appare uno dei “segni dei tempi” più impegnativi per tutta la cultura comune ed anche per la cultura ecclesiale. E’ stato facile confondere la tradizione cristiana con la tradizione vecchia, la virtù cristiana con il mancato riconoscimento della dignità della donna anche sul piano pubblico. E la resistenza sul paradigma vecchio può trovare, anche oggi, una giustificazione teologica fondamentalistica, che dice “si è sempre fatto così” e “Dio lo vuole”.

d) La scelta di Ordinatio Sacerdotalis è duplice: non avanza argomentazioni classiche (perché sa che non sono più sostenibili), si rifugia in una presunta “evidenza storica positiva” della continuità con la azione originaria del Signore (che avrebbe chiamato liberamente solo “maschi”), e prova a dogmatizzare questa “non argomentazione” come una verità da credere in modo definitivo.

e) L’elemento nuovo, e preoccupante, è la rinuncia alla argomentazione e lo spostamento della “riserva maschile” sul piano di una fede “senza ragioni”. Questo è un modo nuovo (potremmo dire meramente affettivo ed emotivo) di sostenere una cosa vecchia, ossia il primato del maschile sul femminile in fatto di “vita pubblica”. La domanda di “argomentazione teologica”, che si vorrebbe suscitata dal documento, è in contraddizione con il documento stesso: in effetti, tutti i tentativi che in questi 30 anni sono stati proposti, non sono altro che mistificazioni della “gerarchia perenne dei sessi”, come pregiudizio interno alla società chiusa.

f) Con Ordinatio sacertotalis si fa il contrario di ciò che il Concilio Vaticano II ha chiesto: si irrigidisce una “formulazione del rivestimento” e si perde la sostanza del depositum fidei. Il Signore ha chiamato “homines” per l’annuncio del Vangelo: storicamente questa parola è stata interpretata in modo diverso: subito come “maschi galilei”, poi come “maschi circoncisi”, poi come “maschi”. Una apertura ad una chiamata rivolta a tutti i “nati da donna” (maschi e femmine) fa parte di quel cammino affidato alla storia e alla coscienza, rispetto al quale Ordinatio Sacerdotalis costituisce un modo troppo semplice, e troppo comodo, per nascondere la testa sotto la sabbia e fingere che la storia e la coscienza (anzitutto delle donne) possano essere ridotte alla irrilevanza. Vi è, in tutto questo, non solo “difesa impaurita”, ma anche “violenza senza rispetto”.

Per questo mi pare che sia giusto dire: questa non è classica dottrina cattolica, ma un colpo di coda dell’antimodernismo, di un modo vecchio di pensare la identità femminile, che cerca di azzerare il dato nuovo e promettente del “segno dei tempi”, ripetendo una formula che tenta di assolutizzare una “riserva maschile”, di cui non riesce più a spiegare il fondamento sistematico. Una teologia di autorità senza autorevolezza.

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