La differenza di Dio e la differenza dell’ordine sociale


Una questione decisiva, per ogni teologia, sta nel garantire a Dio il suo posto autorevole. Se Dio non è “altro”, se ne perde la traccia. La “immanenza” sembra la negazione di Dio. D’altra parte una “totale alterità di Dio” a sua volta minaccia ogni teologia, ridotta così al silenzio dalla trascendenza inarrivabile del divino. Lo spazio stretto tra una immanenza di trascendenza e una trascendenza capace di immanenza si compie, irriversibilmente, nella logica trinitaria del Dio che per amore diventa uomo. Padre, Figlio e Spirito Santo sono garanzia di trascendenza, di immanenza, e di relazione per sempre e per tutti con questo amore, ad un tempo altro e medesimo.

Un Dio solo “diverso” implica una cultura e una società in cui la gerarchia è il principio indiscutibile: gerarchia naturale e gerarchia sociale si corrispondono nel garantire la trascendenza di Dio. Così una gerarchia dei sessi e una differenza essenziale tra maschi della gerarchia e maschi senza gerarchia diventa la forma di visibilità della autorità di Dio.

Questo modo di pensare è stato largamente presente nella cultura tradizionale europea, fino all’avvento della tarda modernità, quando la “società dell’onore” ha identificato nella “differenza gerarchica” la forma sociale e culturale per comprendere il mondo, l’uomo e Dio stesso. Ma con il sorgere della società liberale, che possiamo chiamare società della “dignità”, questo modo di pensare è entrato in crisi. Se resta la esigenza di pensare e di sperimentare la “differenza di Dio”, questo avviene in relazione ad una “principio di immanenza” che concepisce il mondo, l’uomo e Dio stesso in modo diverso. E’ la dignità di ogni creatura a costituire il punto di partenza, che così appare, agli occhi del sapere classico, una “caduta nell’immanenza senza Dio”. Tutto viene ripensato in questa ottica, e tutto viene sospettato di “perdere ogni trascendenza”. Anche i “diritti dell’uomo” sono stati catturati in questa rilettura ateistica, che li fa derivare, colpevolmente, dalla negazione di Dio.

Questo modo di reagire al pensiero tardo-moderno non è scomparso dal pensiero teologico. A costo di produrre “dualismi a catena”, il pensiero legato alla “differenza di Dio” esige una “differenza ontologica” che attraversa la società e non sopporta la “eguaglianza” e la “libertà”, ma afferma continuamente la “gerarchia” e la “autorità”. I due punti di resistenza maggiore restano due: la non ammissione del principio di “divisione del potere” nel corpo ecclesiale, e la resistenza alla “eguaglianza di autorità” tra maschio e femmina. Il principio di concentrazione del vescovo (in ogni vescovo e nel Vescovo di Roma) di ogni potere e il principio della “riserva maschile” per l’accesso al ministero ordinato vengono pensati, assai frequentemente, come parti costitutive della “divina costituzione della Chiesa”. Qui opera una sovrapposizione tra modelli di “differenza teologica” e di “differenza sociale” che non riusciamo ancora a pensare con il dovuto discernimento.

Molto utile è considerare che cosa produce l’impatto tra queste “formae mentis” del mondo tradizionale e l’annuncio del vangelo nel mondo tardo-moderno. La inconcepibilità di uno “strumento sinodale” che mette in questione il primo principio, e il timore dell’accesso delle donne al minsitero ordinato, come crisi del secondo principio, vengono vissute come una questione non di carattere disciplinare, ma di qualità dottrinale e addirittura dogmatica. Qui lo scarso dialogo tra la teologia e la cultura contemporanea diventa, allo stesso tempo, drammatico e comico. Proietta allo stesso tempo fantasmi sulla cultura come sulla teologia. E genera mostri.

Le società ad alta differenziazione, come quelle sorte dalle grandi rivoluzioni tardo-moderne, non sono “meno differenziate”, ma “più differenziate” delle società tradizionali. L’idea che la “eguaglianza” e la “libertà” abbiano impoverito il corpo sociale è il frutto di un abbaglio assai frequente. Piuttosto sono le società tradizionali a considerare “aberranti” le trasgressioni della norma sociale, che costringe i laici e i chierici in ruoli gerarchici immutabili, così come i maschi e le femmine, nella famiglia come nella società. La uscita da queste norme stringenti non è la negazione del vangelo, ma la sua riformulazione in una cultura nuova.

Se ad una “società dell’onore” si sostituisce una “società della dignità”, nasce non solo il rischio di una “identità non riconosciuta”, che è certo un problema non piccolo, ma anche una “alta differenziazione” che istituisce nuove forme di identità, prima impossibili e inconcepibili. Anche la Chiesa si arricchisce di questa nuova dinamica. Certo, nella Chiesa cattolica, proprio la dimensione universale costringe a tener conto di un mondo complesso, nel quale continuano a convivere, spesso anche a stretta vicinanza, logiche di onore e logiche di dignità, che hanno bisogno di una lenta maturazione. Per questo una differenziazione condivisa della dottrina, almeno per ambiti continentali, sarà una evoluzione inevitabile. Il Dio “differente” si mostra molto più nella “brezza leggera” che nel “fuoco” o nel “terremoto”. Così l’amore, che è una definizione di Dio, non si lascia comprendere semplicemente come il “totalmente altro” per l’uomo, ma come ciò di cui l’uomo e la donna, ogni uomo e ogni donna, originariamente partecipano. La “alta differenziazione”, che caratterizza le nostre società e le nostre chiese, chiede il superamento delle logiche soltanto gerarchiche della società dell’onore, insieme alla correzione fraterna della società della dignità, fondata su libertà e uguaglianza. La trascendenza di Dio è in quella immanenza trasfigurata e trasfigurante che si chiama amore. Questo amore non sopporta più, in larga parte del mondo, una impostazione in cui la “differenza di Dio” si imponga, necessariamente, come “gerarchia naturale e sociale”.

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