4 dicembre 1963-2023: i 60 anni di Sacrosanctum Concilium


Il primo documento pubblicato dal Concilio Vaticano II – che porta il suo stesso nome – compie sessant’anni. Al bilancio del fenomeno che da quel documento è scaturito, la Riforma Liturgica, dedica un numero la Rivista di Pastorale Liturgica ( 5/2023) che porta il titolo: La riforma liturgica verso la “terza età”. Pubblico uno stralcio del mio contributo (pp.4-9).

Riforma liturgica: un punto fermo o uno stile?

La domanda con cui è formulato il titolo ci aiuta ad entrare in sintonia con un tema complesso e nel quale la polarizzazione eccessiva, pur comprensibile, non aiuta a capire il fenomeno di cui stiamo parlando. Ecco allora una prima avvertenza necessaria. Capire in che senso la Riforma liturgica è e deve restare un punto fermo, ma comprendere allo stesso tempo che lo “stile” di cui si fa carico viene da prima di essa e va ben oltre se stessa, resta un compito difficile per la Chiesa contemporanea. Essa deve imparare una diversa narrazione della Riforma liturgica: solo così potrà comprendere il passato e progettare presente e futuro. Per cercare di entrare correttamente nella domanda proposta dal titolo mi propongo di procedere il più possibile ordinatamente. Per iniziare dall’inizio, cerco di riconoscere che la Riforma liturgica è la risposta ad una “questione liturgica”, che nasce nella prima metà del XIX secolo (§.1). Da tale questione sorge il Movimento Liturgico, il cui andamento prepara e poi realizza la Riforma Liturgica (§.2). Tale movimento non è isolato, ma cresce insieme agli altri 3 movimenti che preparano il Concilio Vaticano II (§.3). Così la Riforma liturgica diventa il passaggio verso una nuova concezione dell’azione rituale, da cerimonia clericale ad azione comune di tutto il popolo di Dio insieme con il suo Signore (§.4). Il versante ecclesiologico della Riforma liturgica, all’inizio non troppo definito, ha scatenato progressive resistenze, che hanno assunto la forma di una serie di documenti, tra la fine degli anni 90 e l’inizio del II decennio del nuovo millennio (§.5). Il coraggio di papa Francesco ha aperto una fase nuova, recuperando anzitutto la intenzione originaria del Vaticano II: si tratta però di passare dalla Riforma alla Formazione (§.6): anche se gli equivoci non mancano, la strada di rilettura e di valorizzazione della Riforma è segnata (§.7).

1. Si stava meglio prima?

Come talvolta accade non solo ai giornalisti, ma anche a bravi teologi, la Riforma liturgica si presta ad essere letta “al contrario”: non come la risposta ad una crisi, ma come la causa della crisi. Scambiare la causa per l’effetto non è frutto di una grande teologia, piuttosto scaturisce da un giudizio emotivo, da affetti turbati e da nostalgie crescenti. Se si pensa che Guéranger lamentava già nel 1830 la irrilevanza della liturgia, che Rosmini negli stessi anni vedeva nell’esercizio del culto la “piaga della mano sinistra” della Chiesa e che Festugière, ai primi del 900, lamentava la perdita di ogni competenza celebrativa nel mondo cattolico, come si può dire oggi che è colpa della riforma liturgica e dei liturgisti se vi è una disaffezione verso la liturgia? E che della liturgia non bisogna parlare, ma bisogna celebrarla? Queste ingenuità, che talvolta diventano insolenze, dipendono da memoria corta. Da circa 200 anni viviamo una lunga transizione verso una nuova comprensione della azione rituale in rapporto alla fede. Di questa transizione fa parte anche l’atto di riforma dei riti, che assume una rilevanza maggiore a partire dal pontificato di Pio XII e poi diventa una cura del Concilio Vaticano II e della successiva messa in opera, tra gli anni 60 e 70. Alla questione liturgica si prova a rispondere “riformando i riti”. Come vedremo, si tratta di un passaggio necessario, ma non sufficiente.

2. Il Movimento Liturgico è il contenitore della riforma liturgica

Con la scoperta della “questione liturgica”, ossia del problema di rifondare teologicamente quelle che la tradizione medievale e moderna tendeva a comprendere come “cerimonie sacre”, nasce quello che verrà chiamato “movimento liturgico” (=ML). Nascono una serie di formulazioni teoriche e di esperienze pratiche, legate prevalentemente ma non esclusivamente al mondo monastico benedettino, che cercavano di riscoprire la “liturgia” come “fonte e culmine” di tutta la azione della Chiesa. E’ invalso l’uso, per comodità, di pensare il ML come la “preparazione della riforma liturgica”. Questa visione è semplicistica. Il ML deve essere diviso almeno in tre grandi momenti, che “contengono” la RL al loro interno, ma che non si esauriscono in essa. Per brevità possiamo così suddividere questa visione articolata del ML:

a) In primo luogo vi è una fase iniziale, che inizia già con grandi premesse del XIX secolo e che si struttura a partire dal papato di Pio X, fino ad arrivare alla enciclica Mediator Dei (1947). Questa fase si concentra prevalentemente su una nuova lettura della liturgia nella economia della salvezza;

b) Una seconda fase, che inizia subito dopo Mediator Dei, sotto Pio XII e che si conclude con la prima fase del papato di Giovanni Paolo II, e che è caratterizzata dalla “riforma liturgica” come tono dominante. La chiesa riforma i propri riti, in modo integrale.

c) Una terza fase, che convenzionalmente si può far iniziare nel 1988 (a 25 anni da SC) e che dovrebbe caratterizzarsi la recezione della riforma liturgica, con la esperienza, conseguente alla riforma ma diversa da essa, di una Chiesa che si lascia trasformare dai propri riti (riformati).

In questa ricostruzione una cosa è evidente: la riforma liturgica non è il punto di arrivo, ma un necessario punto di passaggio: è passaggio ad altro. D’altra parte non c’è alcun bisogno di “nuovi movimenti liturgici”, perché il ML continua necessariamente anche dopo la riforma liturgica.

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6. Affermare un punto fermo o realizzare uno stile?

Il punto fermo della riforma dei riti e lo stile di formazione liturgica non sono in contraddizione. Questa mi sembra oggi la questione centrale, per offrire una lezione equilibrata di che cosa è capitato in questi 60 anni. Il punto fermo da affermare, e che nessuna nostalgia o elucubrazione può mettere in questione, è che il Vaticano II prima e la sua recezione del primo decennio poi, hanno ritenuto la riforma del rito romano una necessità per la Chiesa. Questa affermazione, che non può giustificare alcuna idealizzazione del passato, deve però comporsi con una seconda affermazione, per certi versi più difficile. Il principio di riforma non si giustifica da sé, ma solo se fonda una esperienza di fede e una forma ecclesiale con uno “stile” di comunione e di partecipazione, che non si genera semplicemente “difendendo la riforma”. Anzi, l’unico modo per difendere la riforma è permetterle di essere “strumento per altro”, per una “forma ecclesiae” più ricca e più profonda. Il fatto che la liturgia tridentina abbia per secoli saputo “formare” la esperienza di fede potrebbe farla apparire come passaggio obbligato e nutrire così “nostalgie rubricistiche”. Ma questa via è chiusa. Resta invece aperta la provocazione di un “sapere pratico e corporeo” che la rubrica moderna ha spesso ridotto a normativa clericale, ma che dice invece trasgressione del verbale in una non verbalità più originaria e più ricca. Si tratta di imparare lo stile di formazione a partire dal punto fermo della riforma. Solo così si esce dall’imbarazzo e si cammina secondo ciò che il Concilio ha anticipato, come si poteva fare allora, ormai 60 anni fa.

7. Le sfide antiche e nuove

Nel momento di maggiore polarizzazione, favorita paradossalmente da un atto che voleva essere di “riconciliazione”, la prospettiva magisterialmente dominante in Summorum Pontificum sosteneva questa teoria: se si fosse tornato a celebrare anche con il rito preconciliare, si sarebbe trovato un equilibrio per l’influsso reciproco che il NO avrebbe esercitato sul VO e il VO sul NO. La realtà ha smentito clamorosamente questa ipotesi, che assomigliava sempre di più ad un sofisma. La sfida, che si è aperta immediatamente dopo il MP Traditionis Custodes (2021), e che abbiamo visto chiaramente prospettata in Desiderio desideravi (2022) consiste nel ricalibrare in modo adeguato il rapporto tra Riforma e Formazione. Se è vero, infatti, che la Riforma dei riti è stato un atto necessario e un punto fermo, dal quale non si può sfuggire, altrettanto vero è che non si tratta di un fine, ma di un mezzo. La riforma liturgica è lo strumento con cui la Chiesa, riformando i propri riti secondo scienza e coscienza, consegna ai riti la possibilità di essere riformata. Tornerei qui, in conclusione, ad una idea che ha formulato alcuni anni fa il collega Roberto Tagliaferri e che mi pare molto adeguata. L’espressione “riforma liturgica” significa due cose diverse: la riforma che la chiesa fa dei riti e la riforma che i riti fanno della chiesa. La polarizzazione del postconcilio deriva dall’aver opposto queste due prospettive. Con la sua lettera Desiderio desideravi papa Francesco richiama la necessaria integrazione di una “formazione/iniziazione” accanto alla difesa della riforma. I riti riformati sono il terreno comune, ed unico per tutti, su cui le diverse sensibilità ecclesiali sono chiamate e confrontarsi, per crescere a partire dai nuovi riti: lasciando loro la parola, nella forma specifica con cui le azioni rituali esercitano la loro autorità, e così parlando non solo all’uomo adulto, ma anche al bambino, al primitivo, al pazzo e all’animale che è in noi. Quasi una “ecologia integrale” della riforma liturgica.

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