Tre passi falsi dei vescovi di fronte a “Fiducia Supplicans”


Ho cercato di comprendere le ragioni fondamentali che hanno portato una serie di vescovi e di episcopati, a rifiutare il testo di Fiducia supplicans o a tentare di svuotarlo di ogni significato effettivo e operativo.

Credo di poter identificare queste difficoltà in tre punti-chiave della tradizione, di cui questi vescovi – per ragioni non uniformi e non lineari – mostrano di non essere consapevoli. Mi pare che decisiva sia una autocomprensione episcopale non sacramentale, una lettura del sesso con la categoria predominante di atto impuro e una lettura solo tridentina del matrimonio. Provo a spiegare in forma sintetica ciascuno di questi problemi.

a) Forse non è noto, neppure ai vescovi, che con il Concilio Vaticano II, la chiesa cattolica ha recuperato una visione sacramentale dell’episcopato, che per quasi un millennio aveva preso congedo dalla coscienza e dalla riflessione cattolica. Questo significa che il Vescovo non è più anzitutto il titolare di un “potere di giurisdizione” (che riguarda il governo e la parola), ma è il testimone dei “tre doni” (tria munera) che in Cristo riceve ogni battezzato, e che trovano una specifica forma di realizzazione nel “ministero ordinato”, pensato ora proprio in rapporto al munus profetico, al munus sacerdotale e al munus regale. Se un Vescovo trascura, oggi, la dimensione profetica e sacerdotale del proprio “officium” (che è dono) può sentirsi quasi offeso e comunque spiazzato da una iniziativa che il “vescovo di Roma”, che conosce bene questa decisiva evoluzione, determina sul piano della disciplina ecclesiale. Il Vescovo “preconciliare” (nel cuore e nella mente) tende a interpretarsi come custode di una “dottrina e disciplina” che amministra, con un controllo diretto su tutte le “parole” che si usano. E finirebbe facilmente per condannare come errore anche la Dichiarazione stessa! Il nuovo modello di vescovo, che attinge ad una esperienza più antica, sa che è chiamato anche ad essere profeta e a benedire le diverse forme con cui il bene si presenta in mezzo al popolo di Dio. Per questo deve sapere di essere “vertice” di quel sacramento dell’ordine, che è non solo “amministrazione di governo”, ma “possibilità di profezia” e “luogo di celebrazione” nel centro e nella periferia. Egli non ha come principio decisivo “non scandalizzare”, ma dare parola alla Parola di Dio che non si identifica con le tradizioni umane. E che il “disonore” deve essere riletto come “domanda di dignità”.

b) Accanto a questo primo motivo, mi pare chiara una seconda soggezione che segna le reazioni di questi Vescovi sconcertati. Ed è il primato che il “peccato sessuale” ha assunto nella autocomprensione ecclesiale dal XVII secolo in poi. Se Roma parla di superare la “pena di morte” come sanzione, o la “guerra” come rimedio diplomatico, difficilmente i Vescovi si stracciano le vesti perché si mette in gioco una evidenza della tradizione. Se invece si tocca la dimensione degli “atti impuri” e si esce dalla costrizione (recentissima) a pensare masturbazione e genocidio nella medesima (rozza) categoria di “atti intrinsecamente malvagi”, la reazione ad una sapiente declinazione dei livelli di relazione al bene diventa cieca e quasi furiosa. Poi può essere espressa in modo più diretto e più velato, ma rivela la incapacità di uscire da una lettura borghese (o tribale) del peccato. La superbia e l’ira non hanno peso, ma la lussuria sembra mettere sempre in gioco Dio e la natura. In questo modo, volendo custodire la tradizione, la si distrugge.

c) Il terzo livello di inadeguatezza di queste posizioni episcopali, venute alla luce dopo il 22 dicembre 2023, sta in una comprensione meramente tridentina del matrimonio e del ruolo che la Chiesa cattolica esercita di fronte ad esso. Se si continua a pensare che “il matrimonio tra due battezzati sia ipso facto sacramento”, allora la immediatezza della competenza tende ad essere totalizzante e a rendere quasi impossibili tutte le necessarie distinzioni che la Chiesa cattolica ha utilizzato fino al 1563 e che poi abbiamo in larga parte perduto. La stessa Dichiarazione, all’inizio del suo testo, cerca di rassicurare episcopato e fedeli, e lo fa con linguaggio tridentino. In quel linguaggio, rafforzato dai codici del 1917 e 1983, resta uno spazio esiguo alla profezia ecclesiale. In questo spazio si è collocata con decisione la Dichiarazione, che conosce sia la nuova comprensione dell’episcopato sia la diversa lettura della dimensione sessuale del peccato e della grazia.

Se si uniscono questi tre livelli di inadeguatezza nelle medesime persone (vescovi, presbiteri e/o fedeli), si capisce la rozzezza delle reazioni e la mancanza di relazione tra le parole e le cose. Le differenze culturali vanno sicuramente considerate, e fanno parte di ciò che sacramentalmente i vescovi devono valutare: ma una teologia arretrata, e appiattita sulle forme della società dell’onore, fa danni in Africa come in Europa, a Parigi come a Montevideo, facendo diventare grandi le cose piccole e piccole le cose grandi. Rileggendo la domanda di dignità come mancanza di onore e temendo anzitutto che il rapporto con forme “irregolari” suoni a disonore della Chiesa e della tradizione. Facendo dipendere dalla fuga dal disonore il senso dell’episcopato, il valore della castità e il senso del matrimonio. Qui ci sono almeno tre punti di analfabetismo ecclesiale, che toccano la cultura e la pratica di vescovi, forse viziati dalla illusione di poter perpetuare anche oggi un modello di Chiesa, di morale e di matrimonio che il Concilio Vaticano II ha profondamente iniziato a ripensare.

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