Da matrimoni clandestini a benedizioni clandestine? Un irriflesso modernismo istituzionale


La vera questione che sta nel cuore della Dichiarazione “Fiducia supplicans” non riguarda la “dottrina”, ma un modo moderno di intendere la “disciplina ecclesiale”, che condiziona troppo pesantemente lo stile con cui la Chiesa cattolica si dispone ad affrontare le questioni che riguardano il matrimonio e la vita di coppia. Come ho già indicato in una lettura immediata del provvedimento, subito prima di Natale, per capire le reazioni al testo della Dichiarazione dobbiamo tornare alla radice di questo atteggiamento, che potremmo chiamare di confusione tra dottrina e disciplina. Tutto comincia infatti nel 1563, quando i padri del concilio di Trento approvano, non senza esitazione, il Decreto “Tametsi”, che si chiama così proprio perché inizia da una proposizione concessiva, riguardante i matrimoni clandestini: “Quantunque i matrimoni clandestini siano sempre stati ritenuti validi…”. Di fronte a questa disciplina assai antica, fondata su elementi dottrinali non secondari, la Chiesa cattolica moderna sente il bisogno di introdurre una grande discontinuità e di rendere non solo illeciti, ma addirittura invalidi tutti i matrimoni clandestini. A questo scopo introduce la “forma canonica”, ossia un sistema di garanzia e di controllo del consenso dei coniugi, che diventa ufficiale ed efficace solo se ricevuto a certe condizioni da parte del ministro ordinato. Non i padri di famiglia, non i potenti del luogo, ma i ministri della Chiesa garantiscono il matrimonio. Questa riforma ha introdotto, a partire dalla fine del XVI secolo, una percezione del matrimonio, di cui la Chiesa diventa l’unica istituzione competente. Qui non si tratta di dottrina, ma di disciplina, però con conseguenze dottrinali ingenti, perché orientano progressivamente il cattolicesimo a considerarsi il titolare di una competenza esclusiva e totalizzante sul matrimonio. Questo, per il XVI e il XVII secolo implica conseguenze interessanti: se ad es. consideriamo le Visite Pastorali che Carlo Borromeo conduceva a Milano, scopriamo che era di competenza episcopale il modo con cui le famiglie dormivano insieme ai bambini neonati: il vescovo imponeva loro, amministrativamente, di inserire una “tavola di legno” nel lettone, per custodire il piccolo, perché non risultasse schiacciato dai corpi dei genitori. Un Vescovo che esercita poteri amministrativi, di medico o di assistente sociale è una delle conseguenze del decreto Tametsi.

Ma il mondo cambia e la Chiesa cattolica vede sorgere, a partire dal XIX secolo, sempre maggiori competenze civili, amministrative, mediche, sociali, che si sovrappongono e confliggono con le competenze ecclesiali inventate alla fine del 500. Nessuno oggi chiede al Vescovo di sorvegliare sulla forma dei letti nelle case. Ciononostante l’idea che la competenza sul matrimonio sia esclusiva continua nel Codice del 1917 e anche nel codice del 1983. Entriamo così in un “mondo parallelo”, la cui identità istituzionale fatica a giustificarsi e a darsi forma, rispetto al mondo “reale”. Il Decreto Tametsi, nelle sue conseguenze secolari, ha introdotto una sfasatura nello sguardo cattolico: anche oggi tendiamo a far diventare un “punto dottrinale irrinunciabile” quello che allora fu una decisione disciplinare, che resta pur sempre revocabile.

D’altra parte non si può dimenticare che già i padri della teologia medievale, proprio i più antichi, nel XII secolo, sapevano bene che il matrimonio era il sacramento più antico, istituito “prima della caduta”. Questo significava allora, e continua a significare oggi, che il matrimonio è il sacramento che “dice di più”, ma anche quello su cui la Chiesa ha “meno” potere, perché precede ogni rimedio al peccato, essendo già lì anteriormente alla caduta dei progenitori. Così è accaduto che la Chiesa cattolica, che per 1500 anni ha saputo bene di avere sul matrimonio un potere minore rispetto a tutti gli altri sacramenti, a partire dal 1500 non solo ha investito moltissimo potere proprio sulla dimensione coniugale, ma addirittura ha affermato, a partire dalla metà del 1800, di essere l’unica istituzione ad aver autorità sul matrimonio.

La presenza di “matrimoni clandestini”, davanti agli occhi dei padri tridentini, era diventata una contraddizione. Ma per molti secoli quei matrimoni erano stati chiamati “matrimoni naturali” ed erano stati riconosciuti come validi, per quanto illeciti, essendo fondati su una “legge più antica”. Da quando abbiamo iniziato a ragionare con la logica di Tametsi, del matrimonio vediamo immediatamente la “irregolarità” e il peccato. Per questo tendiamo a guardare al matrimonio come fa un “ordinamento statale”, che si preoccupa della conformità formale rispetto alla condizione dei soggetti. Questo è il nostro difetto di sguardo, che soprattutto in campo matrimoniale, amplia a dismisura la “dogana pastorale”. Se non usciamo da questa prospettiva, come iniziano a fare Familiaris consortio, poi Amoris Laetitia e ora Fiducia supplicans, potremmo immaginare di poter benedire le “comunità di vita e di amore” per il bene che vivono, non per i timbri che sanno presentare. In tal modo, facendo dipendere la dottrina matrimoniale da una disciplina prima cinquecentesca e poi ottocentesca, cadiamo in uno sgardo che Amoris Laetitia chiama “meschino” (AL 303). Per garantirci da ogni matrimonio clandestino, rischiamo di rendere clandestine le benedizioni delle realtà di amore “non regolare”. In nome di un empito di regalità formale e totalizzante, rinunciamo ad ogni profezia e ad ogni lungimiranza, riservandola ad un “luogo clandestino”, tendenzialmente senza spazio, senza tempo, senza rito e senza forma. Qui, io credo, in gioco non vi è soltanto il matrimonio e le sue forme storiche, ma la identità ecclesiale e il suo compito profetico oltre che regale. Così, per salvare il principio moderno della “forma canonica”, rinunciamo non solo ai tesori della realtà contemporanea, ma anche alla sapienza ecclesiale anteriore al 1563.  Le resistenze a Fiducia supplicans, che appaiono in parte anche all’interno stesso del testo, sono una forma di irriflesso modernismo istituzionale, che non riesce ad uscire dalla visione grande, ma superata, con cui il Concilio di Trento seppe introdurre una grande discontinuità nella tradizione della Chiesa. Per questo oggi abbiamo bisogno di una nuova discontinuità, più fedele alla tradizione pretridentina. Abbiamo bisogno di riscoprire la “pluralità dei fori”, di cui parlava Paolo Prodi. Aspiriamo ad una visione che possa abbassare l’attenzione ecclesiale sulla “regolarità” e possa riconoscere la santità e il bene lì dove appare, al di qua e al di là dei regolamenti sociali e istituzionali, di cui la Chiesa non deve più sentirsi unica custode. Non sulla base di una rinuncia, ma sul fondamento di un sapere più antico. Per farlo, occorre saper distinguere, con nuova lucidità, che cosa della tradizione è disciplina superabile e che cosa è dottrina irrinunciabile. Aver confuso la “forma canonica” con una dottrina indisponibile è il passo falso che minaccia la visione cattolica da secoli e che anche oggi grava sul modo con cui respiriamo di fronte alle questioni relazionali, sessuali e matrimoniali.

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