Oltre il parmenidismo e la filosofia neoclassica (di Nicola Garau)
Un amico e collega, filosofo e teologo, Nicola Garau, che ha studiato a fondo il pensiero di Severino e di Bontadini, interviene nel dialogo tra Marco Cavaioni e me a proposito della concezione della “mediazione”. Lo ringrazio e credo che abbia scritto cose importanti per meglio comprendere l’intreccio di questioni filosofiche e teologiche che ruotano intorno alla discussione sul pensiero severiniano. E la apertura, filosofica e teologica, ad una sintesi tra critica del materialismo e del razionalismo in K. Marx, svolta linguistica in Wittgenstein e fenomenologia di C. Sini appare un percorso promettente. (ag)
Prassi e fondamento della verità. Oltre il parmenidismo e la filosofia neoclassica
di Nicola Garau
Colgo volentieri l’invito del prof. Grillo a prendere parte al dibattito relativo al pensiero di Severino ripreso in questo blog, dopo quasi trent’anni dal suo intervento in Contro Severino, come risposta alle recenti critiche a lui mosse da Marco Cavaioni.
Il tema della disputa, in effetti, mi coinvolge direttamente perché proprio il confronto Bontadini-Severino riletto in chiave teologico-fondamentale è stato l’oggetto del mio lavoro di baccellierato le cui conclusioni hanno trovato corpo anche in un articolo pubblicato col titolo “Il pensiero che non trova Dio. Il dibattito Bontadini-Severino: un confronto con la dottrina della Chiesa”, in Theologica & Historica. Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, xxiv (2015), pp. 143-170.
In quel lavoro, assumendo il punto di vista teologico-fondamentale, riflettendo, cioè, sulla dottrina dei praeambula fidei e sui pronunciamenti magisteriali messi a confronto coi temi emergenti dal dibattito Bontadini-Severino, giungevo ad escludere che la dottrina della Chiesa potesse ritenere la Rivelazione compatibile con qualsiasi pensiero filosofico ontologista o panteista e, in ultima analisi, monista, perché questa nega esplicitamente che “unica e identica è la sostanza, o l’essenza, di Dio e di tutte le cose” (Dei Filius can. 1, n. 3).
Su questa linea di pensiero teologico-filosofica si muovono Salmann e Grillo a ribadire la profondità del Mistero cristiano e del Mistero di Dio “ineffabile, incomprensibile, invisibile, inafferrabile con le nostre rappresentazioni umane” (CCC 42) con la conseguente negazione dell’univocità dell’essere e l’affermazione dell’analogia entis. Una linea chiaramente osteggiata dal neoclassicismo di Cavaioni che, sulla scorta di autori come Bacchin, Stella, ma anche Severino e Bontadini (su questo, invero, mi pare che la scuola padovana e la scuola neoscolastica milanese convergano) presuppone la coincidenza tra pensiero ed essere o, come direbbe Bacchin, la medesimezza di pensiero ed essere dalla quale discende la possibilità di parlare dell’essere come assoluto.
Tutta l’estesa produzione di Severino, così come le raffinatissime critiche a lui rivolte da autori come Bacchin e Stella poggiano, invero, su questo dogma razionalista: l’identità tra essere e pensiero da cui deriva la possibilità (questi autori direbbero, forse, la necessità) di porre un discorso sull’essere come assoluto, eterno, di considerare l’Intero del positivo o la totalità perché, in fin dei conti, il pensiero altro non sarebbe che trasparenza dell’essere, anzi, più radicalmente, coinciderebbe con l’essere.
La rilevazione di una simile assunzione dogmatica introduce, allora, almeno il sospetto che le cose stiano davvero in questo modo. C’è davvero medesimezza tra essere e pensiero? Considerando il fatto che il pensiero si consegna esclusivamente nel linguaggio sarebbe lecito dubitare per più ragioni, se non altro considerando la natura stessa del linguaggio, non riducibile al concetto di rappresentazione e, come organismo vivente, ben più impastato di prassi, opacità e corporeità di quanto affermi la purezza del Logo occidentale. Ma su questo si dovrà tornare.
Se ben intendo la posizione espressa da Cavaioni, egli parte dal presupposto che l’essere, in quanto assoluto, nega in sé stesso l’effettiva mediazione di due distinti: se non c’è relazione tra essere e pensiero perché l’essere coincide col pensiero e viceversa, ciò che resta è la pura immediatezza di pensiero ed essere.
La mediazione, allora, altro non sarebbe che distinzione perché: “la mediazione è, in realtà, intrinseca ai (presunti) immediati, i quali pertanto sono tali solo negandosi (negando la loro presunta, solo presupposta, ma inessente immediatezza)”. La mediazione sarebbe, quindi, il porsi della negazione degli immediati, che coincide, cioè, con la distinzione, per cui la conclusione a cui perviene è che “l’immediato ‘è’ la sua negazione (mediazione), cioè il suo originario mediarsi o risolversi nell’atto del mediarsi”.
Ciò che una simile impostazione nega radicalmente, in virtù dell’assunzione della coincidenza tra pensiero ed essere, è proprio la stessa pensabilità di una mediazione reale tra due estremi che vengano pensati nella loro irriducibile realtà e dualità. Tutto sprofonda nella considerazione della coincidenza tra essere e pensiero per cui l’alterità viene pensata come negazione e ridotta a semplice distinzione, fase dialettica della storia dell’essere o dello spirito.
Il prof. Grillo, non a caso, manifestando nell’univocità dell’essere la principale carenza di Severino, ma, di riflesso, rispondendo anche all’impostazione neoclassica di Cavaioni, ritorna sulla dottrina dell’analogia entis ponendone con forza le ragioni filosofiche e vitali perché “la pretesa di ridurre tutto ad una unica accezione dell’essere, distorce tanto l’essere quanto la mediazione”, per cui conclude esistenzialmente: “L’eternità di ogni uomo, come la eternità di ogni foglia non si lasciano dimostrare solo logicamente. La immediatezza del vivere e del morire, ‘ciò che non muore e ciò che può morire’ non sono ‘fedi’ cristiane, dantesche o semplicemente umane, ma sono ‘dati’ ed evidenze comuni, che chiedono una mediazione diversa da un principio logico”.
Ora, facendo un passo avanti nella discussione, sottoscrivendo integralmente la critica del prof. Grillo, ma senza approfondire la dottrina dell’analogia entis, si vorrebbe contestare non tanto e non solo l’univocità dell’essere predicata da Severino, ma anche il principio della coincidenza tra essere e pensiero che governa l’impostazione neoclassica e l’impostazione di vecchi e nuovi razionalismi.
Si diceva, il pensiero si consegna esclusivamente nel linguaggio in quanto pensiamo attraverso parole, costruiamo discorsi attraverso parole e, anche volendo andare alla radice del pensiero, alla contemplazione, cioè, della semplice presenza, questo sguardo rappresenta pur sempre una ricostruzione successiva, per mezzo di discorsi, afferente alla nostra coscienza. Nulla è dato al di fuori del linguaggio attraverso cui viene pensato, ma, forse, con ancor più radicalità, tutto è posto nella pratica linguistica, nei cosiddetti giochi linguistici, direbbe Wittgenstein.
Si tratta, invero, di provare a pensare che il linguaggio prima di rappresentare alcunché è prassi e che la significatività non si risolve nel gioco della rappresentazione corrispondentista oggetto-segno, metafisicamente canonizzata dalla tradizione nella formula della verità adaequatio intellectus et rei, ma si istituisce nell’intreccio delle pratiche, direbbe Carlo Sini, in cui “oggetti e soggetti si stagliano sempre all’interno di un intreccio di pratiche, i cui confini sfumano in un limite indefinibile, cioè in un rinvio che continuamente si riapre, idealmente all’infinito. Quindi non abbiamo mai a che fare con soggetti e oggetti assoluti, cioè sciolti dall’intreccio di pratiche che li costituisce e li supporta” (C. Sini, Inizio, Jaca Book, Milano 2020, p. 61).
Quel che si vorrebbe suggerire o evocare, per quanto, probabilmente, sia un abominio per chi parte dal presupposto che l’essere e il pensiero coincidono, è la reale considerazione di ciò che teoreticamente cade al di fuori del pensiero, vale a dire, la prassi, la quale risulta irrappresentabile se non come movimento di trasformazione materiale costante della realtà. Ciò che si vorrebbe suggerire, come già Marx nella prima tesi su Feuerbach (1845) è che “difetto principale di ogni materialismo – e aggiungerei io del razionalismo vecchio e nuovo – […] è che l’oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma di oggetto o di intuizione; ma non come attività umana sensibile, come attività pratica, non soggettivamente” e ancora, la seconda tesi: “La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. È nell’attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica”.
Queste tesi su Feuerbach di Marx, così come il pensiero delle pratiche di Sini e la teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein (ma si vorrebbe aggiungere, sottotraccia, anche il pensiero di Peirce) aprono scenari ben più ampi dello spazio dedicabile in questo breve post, ma sono tali da suggerire la possibilità di un pensiero altro rispetto all’impostazione metafisica classica o neoclassica, un pensiero che considera la verità non come rappresentazione ma come processo, prassi trasformativa della realtà.
Riconsiderando oggi i miei trascorsi studi teologici non vedo necessariamente un’incompatibilità di questa impostazione filosofica come praeambula per un rinnovato discorso teologico. Del resto, l’esperienza cristiana prima ancora che teoria è prassi di vita, anzi, la verità si consegna nella prassi, si conosce nell’azione, invero, come dice l’apostolo: “chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (Gv 3, 21). Non a caso la fede contempla il Logos, che è la verità, non in discorsi teoretici, ma nella carne del Figlio di Dio che si è fatto uomo in Gesù Cristo, vita vissuta, prassi trasformativa della realtà a immagine del Padre.