La guerra nega la dignità umana. I tre strati del Magistero cattolico “de bello” e il loro difficile raccordo


La luce del recente documento Dignitas infinita illumina la questione della guerra in una forma nuova. Prima di tutto leggiamo qui di seguito il testo dei nn. 38-39, con alcune evidenziature. Va detto che la prospettiva del documento è quella della “negazione della dignità infinita”, che nella guerra trova, ahinoi, uno dei suoi luoghi classici. Ecco i due paragrafi dedicati al tema:

38. Un’altra tragedia che nega la dignità umana è la guerra, oggi come in ogni tempo: «guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali e religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana […] vanno “moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo, tanto da assumere le fattezze di quella che si potrebbe chiamare una ‘terza guerra mondiale a pezzi’”». Con la sua scia di distruzione e dolore, la guerra attacca la dignità umana a breve e a lungo termine: «pur riaffermando il diritto inalienabile alla legittima difesa, nonché la responsabilità di proteggere coloro la cui esistenza è minacciata, dobbiamo ammettere che la guerra è sempre una “sconfitta dell’umanità”. Nessuna guerra vale le lacrime di una madre che ha visto suo figlio mutilato o morto; nessuna guerra vale la perdita della vita, fosse anche di una sola persona umana, essere sacro, creato a immagine e somiglianza del creatore; nessuna guerra vale l’avvelenamento della nostra Casa Comune; e nessuna guerra vale la disperazione di quanti sono costretti a lasciare la loro patria e vengono privati, da un momento all’altro, della loro casa e di tutti i legami familiari, amicali, sociali e culturali che sono stati costruiti, a volte attraverso generazioni». Tutte le guerre, per il solo fatto di contraddire la dignità umana, sono «conflitti che non risolveranno i problemi, ma li aumenteranno». Questo risulta ancora più grave nel nostro tempo, quando è diventato normale che, al di fuori del campo di battaglia, muoiano tanti civili innocenti.

39. Di conseguenza, anche oggi la Chiesa non può che fare sue le parole dei Pontefici, ripetendo con san Paolo VI: «jamais plus la guerre, jamais plus la guerre!», e chiedendo, insieme a san Giovanni Paolo II, «a tutti nel nome di Dio e nel nome dell’uomo: Non uccidete! Non preparate agli uomini distruzioni e sterminio! Pensate ai vostri fratelli che soffrono fame e miseria! Rispettate la dignità e la libertà di ciascuno!». Proprio nel nostro tempo questo è il grido della Chiesa e di tutta l’umanità. Papa Francesco sottolinea, infine, che «non possiamo più pensare alla guerra come soluzione. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!». Poiché l’umanità ricade spesso negli stessi errori del passato, «per costruire la pace è necessario uscire dalla logica della legittimità della guerra». L’intima relazione che esiste tra fede e dignità umana rende contraddittorio che la guerra sia fondata su convinzioni religiose: «coloro che invocano il nome di Dio per giustificare il terrorismo, la violenza e la guerra non seguono la via di Dio: la guerra in nome della religione è una guerra contro la religione stessa».

1. I tre strati della elaborazione

Porto in rilievo tre linee di riflessione, quasi “tre strati” di elaborazione del problema, che convivono con una forte tensione:

– la guerra come tema “di ragione”: la riflessione razionale è del tutto necessaria, e non risolvibile sul piano della sola fede. E tuttavia la ragione porta a giustificare la guerra, a parlare di “guerra giusta”. Questo primo “strato” magisteriale, che attinge al pensiero di Agostino, ha iniziato a entrare in crisi con la prima e la seconda guerra mondiale.

– la guerra come tema “di fede e di religione”, nel senso di una “profezia” che mostri il limite intrinseco alla “logica razionale della violenza istituzionale”. Proprio in seguito ai conflitti mondiali, sembrava che il cristianesimo e altre religioni fossero entrate in questa logica diversa, che tende ad affermare che la guerra non possa mai essere “giusta”.

– ma la guerra trova oggi supporto religioso-credente alla sua giustificazione e gestione: questo tema è specifico degli sviluppi non solo antichi, medievali e moderni, ma post-moderni. Questa è la urgenza (anche intracristiana, oltre che interreligiosa) degli ultimi 30 anni. Oggi vediamo, di nuovo, guerre tra cristiani in Europa e guerre tra ebrei, cristiani e musulmani in medio oriente. Le fedi e le religioni non solo “perdono profezia”, ma esacerbano la ragione, e possono arrivare a parlare di “guerra santa”.

Che cosa manca, in questo sistema di logiche giustapposte? La correlazione dei piani, che è delicatissima, ma decisiva. La guerra eventualmente “giusta”, la guerra strutturalmente “ingiusta” e la guerra dichiarata presuntuosamente “santa” stanno tra loro in una tensione irrisolta.

I tre piani (ossia la riflessione razionale, la profezia della fede e la invocazione della fede per semplificare la giustificazione della guerra, fino a santificarla) esigono un chiarimento previo:

a) la guerra, come l’omicidio, è un “peccato”, una violazione della legge divina e umana.

b) In alcuni casi l’omicidio può essere giustificato, e così sembra poterlo essere la guerra.

c) Escludere l’omicidio e la guerra dalla realtà non è un modo per comprenderle. Ma assumere la giustificazione dell’omicidio e della guerra come regole generali è il vizio opposto, altrettanto se non ancor più grave.

2. Excursus sulle parole irresponsabili sulla “difesa sempre legittima”

Vorrei ricordare lo slogan irresponsabile di un politico italiano: “la difesa è sempre legittima”. Lo stesso potremmo chiederci della guerra: “la guerra di difesa è sempre legittima”? La risposta è no. La ragione degli uomini, sulla base della esperienza, ha stabilito che la “legittima difesa” debba essere provata nel contesto, proprio perché “non ogni difesa è legittima”. I criteri di considerazione della difesa fanno parte della sapienza umana per quanto riguarda l’omicidio individuale.

Qui appare, a mio avviso, un profilo delicatissimo della questione. Ossia la differenza strutturale tra omicidio e guerra. Non si deve mai dimenticare che la guerra – nonostante tutte le nostre “etiche” interne alla guerra (nonostante tutte le speculazioni sullo ius in bello, oltre allo ius in bellum) – fa saltare ogni ordine etico. E’ il principio del dominio della forza, che prevarica su tutto e non vede più nulla di “degno”. Alla radice di questa differenza fondamentale, dobbiamo però ricordare come la sovrapposizione tra “ragione” e “fede” non è mai garantita a priori. Il motivo per uscire definitivamente dalla logica bellica è solo una “dignità infinita dell’altro”, che corrisponde però alla finitezza del suo diritto. Ma qui, nella radice cristiana della argomentazione, vi è un problema storico, che dobbiamo ancora elaborare.

3. La dignità infinita e un nuovo magistero de bello

Occorre notare che il testo recentissimo, che ho citato all’inizio, ha nelle sue prime parole (proprio al n.1) alcune espressioni impressionanti, che ci sono molto utili a comprende la correlazione tra “ragione” e “fede” nella concezione della “dignità infinita”. Ecco l’incipit del documento:

1. (Dignitas infinita) Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi. Questo principio, che è pienamente riconoscibile anche dalla sola ragione, si pone a fondamento del primato della persona umana e della tutela dei suoi diritti”. (DI 1).

Poco più avanti il testo pretende di identificare, in tutta la storia cristiana, questa verità: “Fin dall’inizio della sua missione, sulla spinta del Vangelo, la Chiesa si è sforzata di affermare la libertà e di promuovere i diritti di tutti gli esseri umani”. (DI 3) Curiosamente la nota 4, che segue proprio questa affermazione, cita però (con l’inciso “ponendo attenzione solo all’epoca moderna…) solo documenti dal 1891 in poi. Perché mai? Perché la elaborazione ecclesiale è stata lenta e ha proceduto al traino delle evidenze culturali a partire dal XIX secolo in poi.

La pretesa che questa sia una “evidenza di ragione” ha tutti i suoi limiti, per quanto sia una profezia culturale del tutto rispettabile. La ragione è inaggirabile per la fede, ma la fede mostra continuamente alla ragione il suo limite. D’altra parte la ragione può cancellare l’orizzonte di fede e a sua volta la fede può rendere del tutto irrazionali i comportamenti umani.

Questo è accaduto anche al pensiero cristiano e cattolico più classico. A dispetto dell’idea della “continuità” dell’insegnamento dottrinale, la dignità umana, come dignità infinita, non è un concetto noto a Tommaso d’Aquino (ma a nessun altro teologo fino al XIX secolo). Nella grande questione della Summa Theologiae II II q 64 dedicata all’omicidio, l’articolo 2 giustifica l’uccisione del peccatore proprio sul piano della dignità. Negli argomenti a favore Tommaso cita il Salmo “Di buon mattino sterminerò tutti i peccatori della regione” (sal 101, 8) e nel corpus si dice: “Con il peccato l’uomo abbandona l’ordine della ragione: perciò decade dalla dignità umana, che consiste nell’essere liberi e nel vivere per se stessi…Così sebbene uccidere un uomo che rispetta la propria dignità sia cosa essenzialmente peccaminosa, uccidere un uomo che pecca può essere un bene” ( II II, 64, 2, ad 3), perché un uomo cattivo è peggiore e più nocivo di una bestia, si dice in conclusione, citando Aristotele.

Non vi è alcuna dignità infinita: c’è una dignità molto finita e subordinata ad un raffronto tra vita vegetale, animale, e umana. L’uomo che pecca, in quella visione, perde la propria dignità.

4. Conclusione

Una cultura della guerra, come peccato contro la carità, si fonda su evidenze storiche in cui l’omicidio come peccato contro la giustizia può essere giustificato quando è verso un peccatore. Questa “riserva” costituisce un bacino di violenza potenziale, che va ben al di là delle regole razionali di composizione del rapporto tra aggressione e difesa.

Vi è dunque una evoluzione nel modo di considerare la “dignità” come “dimensione infinita” e che non può mai essere perduta. Questa novità, che esordisce tra XVIII e XIX secolo, trasforma, gradualmente e profondamente, sia la concezione dell’omicidio, sia la concezione della guerra.

Credo che sia fondamentale, anzitutto oggi, proprio per gettare luce sui percorsi cristiani che generano violenza, entrare in questo denso confronto, anzitutto con se stessi e con le “zone d’ombra” della propria tradizione (largamente comune a tutta la cultura occidentale), che possono ancora lasciare tracce, anche nei cattolici, di questa forma di concezione della (mancata) dignità del peccatore, che perciò diventa motivo sufficiente a giustificare la sua riduzione a soggetto “senza dignità”. La squalificazione della “indegnità” del nemico, che si sente proclamata, anche oggi, non solo da leader politici, ma la leader religiosi, implica una pericolosa distorsione tanto della fede, quanto della ragione. Su questo, lucidamente, Dignitas infinitarichiama l’attenzione urgente, anche se non provvede ad una riformulazione diversa delle evidenze di S. Agostino nel V secolo e degli allarmi della prima metà del XX secolo. Nel XXI secolo la questione guerra è diventata più complicata ed esige, anche dal Magistero cattolico, risposte nuove, che non possono essere messe, semplicemente, in continuità con le risposte del V o del XX secolo. Il “fenomeno guerra” è talmente diverso, da quando la guerra è diventata “mondiale” e ha iniziato a coinvolgere strutturalmente i “civili inermi”, che la teologia deve aggiornare in profondità le proprie categorie, per salvare i chiarimenti che può offrire del fenomeno. Altrimenti essa tradisce il fenomeno alla cui intelligenza dovrebbe servire e con ciò tradisce anche se stessa.

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