Sinodo e chiesa moderna: lessico del Vaticano II e canone tridentino
Senza che sia detto apertamente da nessuno, la ripresa di interesse per la “sinodalità” – che va ben al di là della istituzione sinodale in senso stretto – riguarda un punto decisivo del modo di intendere la tradizione, dopo l’esaurimento della sua forma “moderna”, che si è estesa dal Concilio di Trento alla vigilia del Concilio Vaticano II. In questo ambito credo che si possano valutare anche i singoli passi che sostanziano anche il Sinodo dei Vescovi sulla sinodalità, di cui in questio giorni è uscito l’”Intrumentum Laboris”, su cui ho già postato un primo commento. In un intervento apparso su FB, Linda Pocher osservava che il mio giudizio sul “linguaggio”, adottato dal IL24, le appariva troppo negativo. Forse questa reazione si può comprendere sulla base di un mio riferimento troppo veloce alla questione del linguaggio, che ora cerco di precisare.
1. Lo stile moderno e le accuse di modernismo
Una parte del dibattito che ha accompagnato la scoperta della sinodalità, voluta da papa Francesco fin dall’inizio del suo pontificato, è stata letta talora come una sorta di “modernizzazione” della Chiesa, percepita addirittura (nelle forme e nei contenuti) come a rischio di “modernismo”. Qui c’è un grande equivoco, che merita attenzione. Il sinodo, così come è stato pensato dal Concilio di Trento in poi, è stata la risposta “moderna” alla crisi della tradizione. Quando dico “moderna” intendo dire segnata da caratteristiche di “burocratizzazione”, di “accentramento” e di “clericalizzazione” che il tempo antico e medievale non conosceva. Confondere la “forma moderna” del sinodo con la tradizione è un tipico errore di prospettiva. La esigenza di “recuperare” una logica del sinodo che non sia solo “strumento di governo clericale del vescovo”, ma “espressione dell’intera Chiesa” comporta una grande fatica nell’uscire dalle categorie troppo anguste, che dopo il Concilio di Trento si sono diffuse nella Chiesa latina, ma che tra XIX e XX secolo sono entrate in crisi. Se parliamo della Chiesa cattolica solo con le parole che abbiamo imparato dal Concilio di Trento e dal Codice del 1917, restiamo fuori dalla tradizione. Il Sinodo, come concepito da Francesco, è una istituzione che dovrebbe liberarci dai pregiudizi moderni. Moderno è ciò che dobbiamo superare, non ciò verso cui dobbiamo tendere. E moderno significa burocratico, formale e istituzionale.
2. Il lessico e il canone
La mia seconda considerazione si basa su una distinzione che già parecchi anni fa aveva coniato con merito Pierangelo Sequeri. Spesso noi parliamo il lessico del Concilio Vaticano II, ma agiamo secondo un canone che resta quello tridentino. Proviamo a dirlo con altre parole: abbiamo capito che nel linguaggio non possiamo più procedere secondo logiche moderne di “burocratizzazione della fede” o di “formalizzazione istituzionale della tradizione”, ma pur cambiando le forme della espressione, continuiamo a decidere, a deliberare e a considerare normativo il canone moderno, confondendolo con la tradizione. Questo appare come un vero “elefante nella gioielleria”: continuiamo a identificare la Chiesa, che a parole vogliamo in uscita e ospedale da campo, confondendola con una normativa tridentina senza possibili novità. Alcuni esempi possiamo prenderli dai “silenzi” di cui è ricco il IL24: nessun riferimento alla ordinazione di uomini sposati, nessun riferimento alle famiglie con situazioni considerate “non regolari”, nessun riferimento all’accesso della donna al ministero ordinato. Il “canone tridentino” funziona anzitutto come “censura” di ciò che è opportuno discutere. Ma non basta. Abbiamo visto l’irruzione del canone tridentino nell’ultima parte di “Querida Amazonia”, dopo una serie di sogni, espressi in un linguaggio nuovo, l’incubo di una versione piatta e formale del ministero ecclesiale ridotto al “sacerdote”. Ma come poter tacere dei recenti documenti del Dicastero per la Dottrina della fede? La benedizione delle coppie irregolari, affermata a parole, e resa impossibile dalle circostanze; la valutazione della “validità dei sacramenti”, dove la liturgia è ridotta a retorica affettiva di deliberazioni guidate solo dal tenore delle “formule verbali”. Come tacere infine anche di “Dignitas infinita”, in cui la pretesa di una affermazione “razionale” della infinita dignità di ogni essere umano viene guadagnata in una sorta di “monologion” fuori dal tempo e dalla cultura? In tutti questi casi ad un “lessico” pienamente segnato da un nuovo modello di chiesa e di cultura, si unisce un “canone” che non lascia alcuno spazio né pratico né teorico al nuovo paradigma, assestandosi sul paradigma moderno che da 200 anni risulta inadeguato.
3. Un nuovo canone liturgico e la sua rimozione
In realtà, noi abbiamo avuto, nella esperienza della tradizione degli ultimi 60 anni, non solo un “lessico nuovo”, ma anche forma canoniche “nuove”. Questo vale, in modo speciale, per la liturgia. Il Concilio Vaticano II non ha solo fatto “bei discorsi” sulla liturgia, ma ha dato origine ad una “traduzione della tradizione” che ha prodotto una riforma complessiva, di tutti gli atti rituali della vita cristiana. Non è un caso che proprio su questo “canone nuovo” si sia concentrata la resistenza più ostinata, di chi non voleva e non vuole uscire da una comprensione “moderna” della Chiesa. La strategia di “sospendere” la efficacia canonica della riforma liturgica, che tra il 2007 e il 2021 ha permesso a molte comunità di potersi interpretare come “cattolico-romane” di fatto rifiutando non solo il nuovo lessico, ma il nuovo canone liturgico, ha trovato una risposta netta da parte di papa Francesco. Questo è bene. Ma non è sufficiente a superare la tentazione di opporre, continuamente, ad un lessico della apertura, la rigidità di un canone moderno, indifferente ai soggetti e perciò produttore di individualismo. Di qui la scelta di “non tematizzare” tutta una serie questioni che hanno, al centro, il diritto dei soggetti (e la loro dignità) prima che l’assetto istituzionale della regolarità. Di quello di cui occorre deliberare non si deve tacere. Ogni rimozione si capovolge in insensibilità. E se rimandassimo questa occasione, sarebbe la certificazione di non potersi autocomprendere se non nelle forme moderne, burocratiche ed istituzionali che dalla metà del 1500 organizzazione il lavoro della Curia Romana.
4. In un sinodo si delibera a partire dalle argomentazioni
Da ultimo, per tornare alla questione del linguaggio, è certo utile aver sottolineato il dovere di un reciproco ascolto, come una sorta di “faro primario” che ha segnato tutte le tappe del lavoro sinodale. Ma per dare all’ultima Assemblea uno strumento di lavoro efficace, occorre introdurre “linguaggi di orientamento” e non semplici “costatazioni” sui passaggi più delicati, su cui la Chiesa cattolica non può più affidarsi ai suoi “linguaggi moderni”. Anche la dottrina dogmatica è stata segnata da questo limite e deve essere accuratamente ripensata, per offrire soluzioni vere e non “rinvii” o “disattenzioni”. Offrire argomenti è parte decisiva di una tradizione di confronto: se il primo a rinunciarvi è lo strumento di lavoro, a patirne sarà il lavoro stesso. Alla fine sarà importante deliberare e dalle deliberazioni si valuterà in quale misura il Sinodo, con il suo lungo percorso, ha permesso davvero allo Spirito di parlare, oppure ha saputo imbrigliarlo nelle maglie delle evidenze moderne e burocratiche con cui è stata costruita la dottrina e la disciplina cattolica dal Concilio di Trento in poi.