Giubileo e indulgenze: una faticosa rilettura in tempo festivo del tempo laborioso


Come spesso accade, la inerzia della tradizione è un grande fiume, che porta con sé acqua limpida, acqua torbida e fango. La limpida acqua della misericordia diventa opaca e lascia solo fango, non quando si umanizza, perché questo deve essere, ossia umanità riconciliata, ma quando introduce automatismi e pretese formali e burocratiche, prive di vera giustificazione. Il fatto che il Giubileo sia una intensificazione della misericordia, di cui vive la Chiesa e ogni fedele, è senza dubbio, storicamente, un dato innegabile e da custodire gelosamente. Ma le forme che questa intensificazione ha conosciuto lungo i secoli possono velare, o addirittura oscurare, questo stesso elemento originario e insostituibile. Che il tempo sia attraversato dalla benevolenza di Dio è una delle verità fondamentali che la fede cristiana annuncia e riconosce. In quale forma questo oggi possa essere detto e praticato non può dare per scontata la evidenza intangibile delle forme storiche. Provo a mostrare, molto brevemente, i punti delicati di questa tensione, quando proviamo ad applicarla alle “indulgenze”.

a) Una intensificazione della esperienza di misericordia ogni quarto di secolo (1975, 2000, 2025) implica una possibilità di “perdono”, che nel caso delle indulgenze non riguarda il peccato, ma la pena. Questo suppone che sia chiara, nel cristiano, la differenza tra “remissione della colpa” e “remissione della pena”. Tuttavia questa differenza, che sembra dottrinale, è in realtà una differenza storica. Segnala il fatto che nella esperienza ecclesiale ad un lungo periodo in cui la riconciliazione riguardava contemporaneamente colpa e pena (perché chiedeva che per la assoluzione dalla colpa si fossero compiute integralmente le opere penitenziali) è seguito un tempo che ha anticipato la remissione della colpa rispetto alla remissione della pena. Sono già assolto dal peccato, ma devo ancora rispondere con il lavoro della bocca, del cuore e del corpo: devo cambiare linguaggio, sentimento e azione. Questa comprensione, che cambia profondamente lungo i secoli, approda al Concilio di Trento, dove, pur restando chiaro che il sacramento della penitenza è un “battesimo laborioso”, prevale, nella recezione cattolica, l’idea di una efficacia “ex opere operato” che tende sempre più a desertificare l’esperienza di opere penitenziali. Questo fenomeno, che si è accentuato negli ultimi due secoli, e soprattutto si è irrigidito con la codificazione canonica dei primi del 900, ha reso quasi impensabile il concetto di pena temporale. E’ dunque la stessa tradizione cattolica, nel suo sviluppo, ad aver eroso il terreno su cui è giustificabile la pena temporale, come presupposto della sua remissione.

b) Un dato interessante è che, proprio a causa di questo sviluppo, le indulgenze, siccome non godono più di questa evidenza primaria e vitale della “pena temporale”, ossia della complessa elaborazione della risposta al dono del perdono, come parte costitutiva del sacramento della confessione, allora è stato facile pensare che la “pena temporale”, di cui si chiede la remissione, sia quella che riguarda i defunti. Che le indulgenze si sposino con il “suffragio” è un dato storico che entra però in collisione con una rappresentazione piuttosto faticosa: ossia con la convinzione che la pena temporale riguardi proprio coloro che si trovano fuori dal tempo, come lo sono i defunti. Con i quali restiamo in comunione, proprio grazie alla comunione dei santi, ma che non hanno come caratteristica peculiare quella della temporalità. Quello che la dottrina classica afferma, ossia la differenza tra morte individuale e giudizio finale, come “spazio temporale di purgatorio”, resta una concezione segnata dalla proiezione della temporalità dei vivi sulla intemporalità dei defunti. La morte individuale è diversa dal giudizio finale solo per chi sopravvive. Il defunto è già nel compimento del tempo. Per questo il fatto che noi possiamo attribuire ai defunti una pena temporale, che non sappiamo più pensare per i viventi, sembra un paradosso che merita riflessione. D’altra parte la convinzione che ormai le indulgenze riguardino non anzitutto i vivi, ma i defunti, emerge con chiarezza anche dal testo dell’ultima Bolla: l’indulgenza giubilare, in forza della preghiera, è destinata in modo particolare a quanti ci hanno preceduto, perché ottengano piena misericordia.” (Spes non confundit, 22). Ma come possiamo attribuire pacificamente ai defunti ciò che fatichiamo a concepire per i viventi?

c) Da che cosa deriva questa possibilità ecclesiale di “rimettere la pena”? La tradizione utilizza due argomentazioni. Da un lato appare come un aspetto che discende dal “potere delle chiavi”. Da questo punto di vista la indulgenza può essere ridotta ad “atto amministrativo”, che nelle categorie usate dal medioevo non dipende dal “postestas ordinis”, ma dalla “potestas iurisdictionis”. Questa riduzione amministrativa della remissione della pena crea una sorta di “miraggio”, che nel deserto delle opere penitenziali può fare molto male. Il miraggio è costituito dalla possibile separazione amministrativa della remissione della pena dalla remissione della colpa. Questa distinzione è diventata una scissione e una rimozione del rapporto tra colpa e pena e diffonde atteggiamenti assai rischiosi: da un lato semplifica la remissione del peccato, e dall’altro illude sulla facilità festiva della remissione della pena, che ha senso (come festa) solo nell’orizzonte di una feria laboriosa di risposta umana alla grazia di Dio. Per questo una rilettura della indulgenza come “preghiera della Chiesa” è apparsa a partire dalla metà del XX secolo come una lettura diversa, che in parte risulta recepita anche dal magistero, ma che non riesce a superare del tutto i cortocircuiti teologici e pastorali, che tendono a burocratizzare l’atto, trattandolo quasi come un “sacramento” autonomo. Una sorta di “ottavo sacramento”, quasi un sacramento della pena. Ma non si tratta di un sacramento, bensì solo di un sacramentale. E’ iniziativa ecclesiale di orazione, non atto formale di santificazione.

d) L’ultimo punto che merita attenzione è forse il più ampio: ossia quale concezione della penitenza sacramentale viene favorito da una lettura semplicemente amministrativa delle indulgenze? Vi è qui un nodo profondo, che abbiamo già chiamato la “burocratizzazione” del sacramento. Se il sacramento viene spostato integralmente sul versante del dono di grazia e perde la coscienza della dimensione “cooperante” della grazia del perdono, ossia del lavoro della libertà coinvolto nel sacramento, allora le “pene temporali” diventano un mero “residuo”, di cui si parla ogni 25 anni, esclusivamente nella forma paradossale della loro remissione: se ne parla solo quando scompaiono. Se parliamo del “fare penitenza” solo in occasione della “cancellazione” della pena, in realtà non sappiamo più di che cosa stiamo parlando e alimentiamo anche con queste indulgenze “una tantum” lo stesso formalismo che viene sorretto da un sacramento della confessione elaborato ordinariamente senza lavoro della libertà, come puro dono di grazia. Così il semplice dono della assoluzione dal peccato viene a confermare il semplice dono della assoluzione dalla pena: entrambi però sono pensati in astratto, in modo immediato e senza dimensione processuale. Questa tradizione, così deformata, merita una accurata e profonda revisione.

Rimettere festivamente le pene temporali, come rimettere una tantum i debiti, presuppone che ci sia una esperienza feriale tanto della pena temporale quanto del debito. Se non so di avere debiti, perché mai dovrei gioire per la loro remissione? Solo il peso quotidiano del debito mi fa gioire per la sua remissione. Allo stesso modo non è possibile non avere alcuna esperienza delle “opere penitenziali” e poi gioire per la loro remissione. Questo vale per i vivi e a maggior ragione vale per i defunti. Vi è qui una sfasatura tra dottrina teologica, parola del magistero ed esperienza dei fedeli che non si risolve facendo diventare oggetto di fede una contraddizione dell’esperienza. Né può capitare che siano i regolamenti della Penitenzieria Apostolica a sostituire la nostra esperienza: non è questa una materia su cui possa esserci supplenza ecclesiale, né è possibile che il processo laborioso del cambiamento personale possa ridursi ad una procedura meramente esteriore di remissione.

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