In dialogo sui divorziati risposati: un aiuto al Sinodo dei Vescovi da “Jesus”


Una teologia alla altezza delle sfide della famiglia contemporanea

In vista del prossimo Sinodo dei Vescovi dedicato alla famiglia vi sono alcune occasioni di dibattito e di approfondimento, che vale la pena di valorizzare.
Per papa Francesco il Sinodo che si terrà nell’ottobre 2014 deve «mettersi in ascolto dei problemi e delle attese che vivono oggi tante famiglie». Per questo è stato predisposto un questionario ed è stato chiesto ai vescovi, alle diocesi, alle parrocchie e a tutti i fedeli di «diffonderlo capillarmente».
Sembra, tuttavia, che alcuni Vescovi italiani, sua sponte, abbiano ritenuto che fosse preferibile nascondere il questionario ricevuto da Roma in un cassetto, forse confidando in quel detto della “saggezza curiale romana” secondo cui “non c’è problema difficile che, restando chiuso in un cassetto per qualche tempo, non si risolva da sé”.
La rivista “Il Regno”, invece, ha raccolto l’invito a diffondere capillarmente la discussione e invita i lettori a compilare il questionario, che ha messo in rete e che si può trovare visitando questo link:
Per documentarsi sulle questioni, oltre che la lettura del Documento Preparatorio, presentato allo stesso link, io suggerisco anche di gustare questo bel dialogo tra diversi interlocutori competenti, pubblicato sull’ultimo numero di Jesus, che riproduco qui sotto:

La Chiesa e i divorziati. Un dramma cristiano


colloquio con Oliviero Arzuffi, Basilio Petrà, Giannino Piana, Marinella Perroni, Silvano Sirboni 
a cura di Jesus
tratto da “Jesus”, dicembre 2013
A un certo punto, un ragazzo e una ragazza si incontrano. Succede in parrocchia. O durante un ritiro
spirituale. A un campo-scuola. In un gruppo di volontariato o in un’associazione ecclesiale. Sono
credenti: amore è una parola importante, nel loro vocabolario ideale. Dunque, si innamorano e
iniziano a frequentarsi. Vogliono fare le cose per bene. Fanno progetti per la vita. Si fidanzano e,
poi, si sposano. È una bella storia. Come tante che succedono ogni giorno accanto a noi. Ma non
tutte le belle storie hanno sempre un lieto fine.
I due sposi hanno dei figli, vivono attimi felici, tempi di fatica e momenti di crisi. Ce la mettono
tutta. Ma a un certo punto, l’amore — quasi all’improvviso — finisce. Uno dei due si è innamorato
di un’altra persona. O forse no: si sono semplicemente allontanati senza accorgersene. E ora si
ritrovano distanti mille miglia. Con una grande pena nell’anima, decidono di separarsi. Sono ancora
giovani, desiderano condividere la vita con una persona che li ami davvero, e che sentano di amare.
Quel loro vocabolario ideale imparato in parrocchia non prevede sentimenti finti o dimezzati. Non
accetta bluff o ipocrisie sulle questioni che fanno rima con cuore.
Ed eccoli lì, qualche anno dopo, a ingrossare le fila dei divorziati risposati: per le statistiche sociali,
un fenomeno crescente che non suscita più scalpore; per il mondo cattolico, invece, ancora dei
paria, bestie strane e imbarazzanti, che creano problemi pastorali. Fedeli difficili, che ci si affanna a
definire figli della Chiesa, quasi come gli altri. Ma che, a norma del diritto canonico, non possono
essere assolti dal loro “peccato” e, dunque, restano esclusi dall’Eucaristia. Cioè dal momento
liturgico che è considerato «fonte e culmine» della vita cristiana.
Che il nodo dei divorziati risposati sia un problema pressante e, a suo modo, urgente per la Chiesa
cattolica universale lo mostrano, oltre alle statistiche, anche i tentativi fatti a più riprese da vari
episcopati locali di aprire delle brecce pastorali nella normativa canonica, apparentemente glaciale e
di certo inflessibile, confermata fino a ieri dalla dottrina ufficiale e dal Magistero pontificio.
Qualcosa, però, oggi potrebbe cambiare. L’insistenza di papa Francesco sul tema della
«misericordia», unito al pressing provocato sulle coscienze dei pastori dall’urlo delle cifre del
fenomeno, ha dato lo spunto per avviare un Sinodo straordinario dedicato alla famiglia.
Ma qual è la situazione reale dei divorziati risposati nella Chiesa oggi? Quali sono i motivi seri che
non consentono, ancora, la loro ammissione all’Eucaristia? E ci sono delle vie teologiche, pastorali o
giuridiche per cambiare la loro condizione, che agli occhi dei più appare semplicemente
discriminatoria? Ne abbiamo discusso, nel corso di un ampio dibattito redazionale, con cinque
ospiti qualificati: Oliviero Arzuffi, cattolico impegnato nel mondo del volontariato e autore di un
piccolo e accorato volume intitolato Caro Papa Francesco. Lettera di in divorziato (Oltre Edizioni);
don Basilio Petrà, teologo morale che insegna alla Facoltà dell’Italia centrale e in varie università
pontificie di Roma; Giannino Piana, teologo morale e collaboratore fisso di Jesus; Marinella
Perroni, biblista del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo; don Silvano Sirboni, liturgista e pastoralista,
oltre che parroco ad Alessandria.
JESUS: Che condizione vivono nella Chiesa, oggi, i credenti che sono divorziati e risposati?
ARZUFFI: «Per ciò che è la mia esperienza, direi che mettono in atto una duplice reazione. Chi si
separa e, poi, divorzia vive uno stato di sofferenza acutissimo, una crisi d’identità che, per un verso,
può portare a forme di autodistruzione personale e, per un altro, conduce spessissimo all’abbandono
della pratica religiosa tradizionale. Questo succede soprattutto perché, da parte della Chiesa, c’è una
esclusione di fatto oltre che di diritto di queste persone, che è prescritta dalle norme canoniche: se
sei un divorziato risposato, non sei soltanto escluso dall’Eucaristia e dai sacramenti in genere, ma
non puoi essere catechista né insegnare religione nelle scuole; non puoi avere alcun ruolo all’interno
della comunità cristiana; non puoi fare il padrino o la madrina di battesimo o della prima
comunione; non puoi ricoprire alcun ruolo nelle celebrazioni liturgiche. È un “no” su tutto! Questo
ingenera amarezza e disorientamento. Ho conosciuto diverse persone che si sono addirittura
suicidate per questa sistematica emarginazione, anche se non sempre dichiarata e palese, ma quanto
mai vera nella vita concreta della comunità di appartenenza. Ma al di là dei casi-limite, la maggior
parte semplicemente abbandona la Chiesa perché non si sente accolta né accettata. Quando poi vai a
confessarti e non ti assolvono per la tua situazione, ti senti un cristiano di serie B, messo all’angolo.
Questo è il disagio che vivono cristiani che si contano ormai a milioni nel mondo. Perciò, a mio
parere, il problema va affrontato presto e con assoluta serietà, perché riguarda una parte tutt’altro
che residuale del “popolo di Dio”. Accanto a questo disagio dei divorziati risposati, ce n’è un altro di
cui non si parla quasi mai, quello dei pastori: sacerdoti e vescovi che si trovano a dover dare
risposte negative, o che non ritengono coerenti con il Vangelo che predicano dai pulpiti la
domenica, a un numero sempre crescente di fedeli che sanno in tutta coscienza essere onesti, molti
dei quali spesso non hanno responsabilità per la rottura del patto coniugale. E così, dilaniati
nell’animo e non sapendo che pesci pigliare, in via privata suggeriscono di agire secondo coscienza,
delegando al fedele la responsabilità della scelta. Ma anche questo atteggiamento non mi pare
corretto per una soluzione del problema, che invece richiede una riflessione pastorale e teologica
complessiva. Senza di questa, la Chiesa continuerà in prese di posizione ipocrite o contraddittorie
che allontanano, confondono e dividono, come è successo anche di recente: da una parte la diocesi
tedesca di Friburgo che ha reso pubblica la sua decisione di sperimentare delle nuove aperture ai
divorziati, dall’altra l’intervento sull’Osservatore Romano del prefetto della Congregazione per la
dottrina della fede, monsignor Müller, che invece è tornato a ribadire —anche con una certa durezza
— la visione tradizionale della Chiesa. Unica apertura, l’idea di allargare le maglie dei criteri per
ottenere l’annullamento del matrimonio davanti al tribunale della Sacra Rota. Una soluzione,
quest’ultima, impropria e dannosa, perché non si può affrontare un problema eminentemente
pastorale consegnandosi alla via giuridica. Comportamenti che ritengo comunque ambedue
sbagliati, perché questo problema è di competenza della Chiesa universale, non di una Chiesa
particolare né di un singolo dicastero vaticano, per quanto importante».
PETRA’: «Condivido molte cose che lei ha detto. In realtà, però, la Chiesa ha cercato di affrontare
questo problema con vari strumenti, anche pastorali. Per esempio, da anni ormai in molte diocesi
italiane e straniere esistono percorsi di accompagnamento dei divorziati risposati. Negli anni
Novanta, poi, ci fu un tentativo di soluzione ideato da tre vescovi dell’Oberrhein (Reno Superiore):
Kasper, Lehmann, Saier proposero un percorso di accompagnamento per i divorziati risposati che
venivano affidati a un prete con il quale dovevano ripercorrere la loro storia e valutarla alla luce
della dottrina della Chiesa. Poi alla loro coscienza “formata e informata” spettava decidere se la
dottrina della Chiesa poteva essere applicata al loro caso oppure no. Dal loro parroco potevano
ottenere la possibilità di accedere ai sacramenti, sulla base anche di una dichiarazione del sacerdote
che li aveva seguiti, secondo le indicazioni date dai vescovi. Questa proposta fu respinta dalla
Congregazione per la dottrina della fede, ma è rimasta qualche traccia di essa a livello pastorale.
Insomma, nella Chiesa sono stati tentati vari modi per andare incontro a questo problema. Già nel
1979 era stato aperto un po’ l’orizzonte con la soluzione del “fratello-sorella”…».
JESUS: Sarebbe a dire?
PETRA: «I divorziati risposati vengono riammessi all’Eucaristia, a patto che si impegnino a vivere
con il nuovo coniuge come “fratello e sorella”. È una via che in genere suscita molta perplessità per
ovvi motivi, però è basata su una precisa logica. Nella tradizione cattolica l’unione sessuale è atto
proprio degli sposi; perciò accettando l’astensione dall’atto coniugale le persone riconoscono che la
loro unione non è veramente coniugale. In tal modo, discutibile, spesso accusato di ipocrisia, si è
tuttavia aperto uno spazio di accoglienza pastorale che ha consentito a molti l’accesso ai sacramenti
JESUS: Se oggi ci troviamo a discutere di questi temi, ovviamente è perché la Chiesa cattolica
ritiene proprio dovere custodire e predicare un preciso comandamento di Gesù riguardo alla
indissolubilità del vincolo matrimoniale, che tradizionalmente si rintraccia in alcuni brani dei
Vangeli di Marco e di Matteo e in alcuni passi delle lettere di Paolo. Forse, allora, può essere
utile partire dalle Scritture?
PETRÀ: «Sì, in genere ci si riferisce a questi testi. La cosa interessante è che, mentre Marco non
prevede eccezioni al comandamento dell’indissolubilità, Matteo in due suoi testi prevede una
eccezione del tipo: “Ma io vi dico che chiunque ripudia sua moglie, quando non sia per motivo di
fornicazione (in greco: porneia), e ne sposa un’altra, commette adulterio”. Un problema serio è la
traduzione precisa di porneia. La tesi più recepita oggi è che essa indichi un atto o un
comportamento “immorale” in ambito sessuale. E naturalmente, nel matrimonio questo ha anche
carattere adulterino. Da san Girolamo in poi, l’Occidente ha interpretato l’eccezione del Vangelo di
Matteo in modo preciso, come consenso alla separazione ma non alle nuove nozze. In ambito
orientale l’interpretazione è stata diversa. Da Girolamo fino agli anni Cinquanta, sia i cattolici sia gli
ortodossi erano d’accordo sul fatto che la porneia indicava la fornicazione adulterina. La differenza
era riguardo alla soluzione».
PIANA: «Vorrei richiamare l’attenzione su un altro testo, quello della Prima lettera ai Corinzi di
Paolo, dove si parla del cosiddetto “privilegio paolino”. Qui, sia pure come extrema ratio, si
riconosce al coniuge convertito, che viene ostacolato nella possibilità di vivere la fede, non solo il
diritto di separarsi, ma anche di accedere a un nuovo matrimonio. Questo, se da un lato mette in
evidenza la priorità della fede, il fatto che essa costituisce il valore più alto che, nel caso di
conflitto, va privilegiato, dall’altro sembra tuttavia relativizzare il valore dell’indissolubilità, cioè
negare quella assolutezza che sembra caratterizzare la presa di posizione di Gesù. O forse non ci
ricorda che l’indissolubilità, più che essere un valore umano, naturale, è un’istanza evangelica — in
questo senso va intesa la sua radicalità — che può essere compresa solo all’interno di una
prospettiva di fede, e che non può certo essere perciò ridotta a fatto etico e tanto meno giuridico?
Evidentemente questo comporta, quando si traduce l’istanza sul terreno giuridico-pastorale, la
possibilità, anzi la necessità, della mediazione. È quanto ha fatto, a suo tempo, Matteo avendo come
riferimento le comunità giudeo-cristiane, alle quali si indirizzava il suo annuncio»
JESUS: Se si è raggiunto un consenso univoco solo a partire da san Girolamo, ciò significa che
in precedenza la prassi della Chiesa primitiva, quella dei primi secoli, era diversa da oggi.
Giusto?
PETRÀ: «In Oriente è abbastanza chiara, in Occidente un po’ meno. In Oriente sicuramente
l’eccezione matteana ha agito nel senso di consentire la separazione e le nuove nozze, almeno per il
coniuge innocente. San Basilio dice esplicitamente che questa “regola” viene applicata soltanto
all’uomo. Anche in Occidente ci sono segni che vanno in quella direzione: l’Ambrosiaster parla di
una prassi presente a Roma nel IV secolo che sembra ammettere l’eccezione delle nuove nozze.
L’Occidente però è più complesso. Si può dire che la posizione di Girolamo è andata acquisendo
una forza crescente, fino a imporsi definitivamente nel diritto canonico medioevale».
PERRONI: «Da biblista, dico che dovremmo usare molta accortezza e prudenza quando facciamo
ricorso ai brani delle Scritture. È pericoloso utilizzare in maniera disinvolta dei versetti che si
riferiscono a questioni precise e a contesti precisi, per trovare risposta a nodi teologici e pastorali di
duemila anni dopo. È interessante notare, per esempio, che nei commentari classici a questi testi,
alla fine si dica che quanto espresso non c’entra niente con la pastorale dei divorziati risposati. È un
atteggiamento molto sano. Per esempio, nel brano del Vangelo di Marco, è evidente che l’oggetto
del contendere è la polemica tra cristiani e giudei: la posizione di Gesù viene utilizzata per sostenere
la prassi cristiana dell’indissolubilità, in opposizione a una poligamia di fatto. Il problema era
dunque quello di una giovane Chiesa che doveva trovare una sua identità in rapporto alla prassi
precedente, pesante e ingombrante, di secoli e secoli, incarnata dalla Legge ebraica. E la legge
ebraica, che prevedeva il cosiddetto “libello del ripudio” che il marito doveva concedere alla moglie
se voleva separarsi, era già una norma che aveva superato la prassi antecedente, di gran lunga
peggiore. Era paradossalmente una norma “femminista”, visto che al tempo di Mosè la prassi era
che i maschi potevano ripudiare la moglie per qualunque futile motivo. Mentre con il “libello”, il
ripudio era portato a un livello di formalizzazione giuridica, con la necessità di testimoni, ed era
quindi un modo per proteggere le donne dall’arbitrio assoluto dei maschi: per le donne, significava
che esse non potevano essere considerate adultere, e quindi lapidabili. Anzi, avevano la possibilità a
loro volta, se lo desideravano, di risposarsi. Insomma, il testo di Marco è tessuto in tutt’altro
contesto rispetto al nostro. Se vogliamo trovare risposte evangeliche alle questioni teologicopastorali
di oggi, forse dobbiamo cercarle altrove, specialmente nell’atteggiamento di misericordia
che Gesù ha avuto nei confronti dei suoi simili».
JESUS: Dai Vangeli e dalle Scritture, la Chiesa nel corso del tempo ha estratto alcune norme
“precetto”, vincolanti giuridicamente, e altre norme “ideale di perfezione”, cioè norme
profetico-escatologiche, quindi ideali a cui tendere. Come è successo che la questione
dell’indissolubilità del matrimonio sia finita tra le “norme precetto” e non tra le “norme ideale
di perfezione”?
PETRÀ: «Per quanto riguarda il piano storico, la trasformazione dell’indissolubilità in una norma
principalmente giuridica avviene nel Medioevo, quando il vincolo coniugale diventa una “cosa”, un
oggetto, separato dalla vicenda dei coniugi. Nella concezione greca, invece, l’indissolubilità ha la
forma del “comandamento”, per cui si può affermare che il valore e il senso di verità del rapporto
coniugale è che non si sciolga, e insieme dire che l’adulterio è un peccato capace di rompere il
matrimonio, Non a caso da molti è equiparato alla morte del matrimonio»
JESUS: Dunque, nella Chiesa latina, il diritto canonico “comanda” sulla teologia e sulla
liturgia…
PETRA: «Il punto di snodo è il Concilio di Trento, che stabilisce la forma canonica del matrimonio:
per evitare i guai sociali provocati all’epoca dal fenomeno dei matrimoni clandestini, i Padri
conciliari stabilirono che una forma giuridica diventasse condizione per la validità del sacramento».
PIANA: «Petrà ha ragione. Questa, nonostante il Vaticano II e gli indubbi sviluppi teologici e
pastorali, è ancora la situazione attuale dalla quale è difficile uscire, se non si procede a una
rinnovata riflessione teologica ed etica. Per questo mi pare importante la distinzione, cui si è
accennato, tra norme-precetto, che sono norme chiuse, circoscritte, che obbligano a una adesione
totale — è questo il caso dei comandamenti che hanno un carattere imperativo-negativo — e norme
escatologico-profetiche, che sono invece norme aperte, e non pii consigli, che hanno di mira l’ideale
di perfezione, e che stimolano il credente a un cammino di permanente conversione. Che
l’indissolubilità appartenga a questa seconda categoria di norme mi pare fuori dubbio. E questo non
solo perché così è stata da sempre interpretata dalla tradizione protestante che la considera Vangelo e non legge, ma anche perché questa è oggi anche l’opinione della stragrande maggioranza degli esegeti cattolici. E
sufficiente richiamare il fatto che il testo sull’indissolubilità è da Matteo inserito anche nel discorso
della montagna, le cui istanze normative hanno un evidente carattere escatologico-profetico».
PERRONI: «A me fa davvero impressione questo predominio del diritto canonico. La soluzione
riproposta oggi di aumentare le possibilità di ricorso alla Sacra Rota, dichiarando “nulli” i
matrimoni, è contraddittoria: “nullo” vuol dire che non è mai esistito, Ma come si fa a dire che un
serio rapporto matrimoniale, durato magari 10- I 5 anni e forse anche con dei figli, non c’è mai
stato?
C’è stato, eccome! Magari è ormai finito, ma resta indelebile nella vita delle persone. In questo
senso — direi — il matrimonio è indissolubile: perché non scompare come se niente fosse.
Indissolubile, insomma, non significa eterno».
PETRÀ: «Sì, il vero nodo è che noi, come Chiesa, dobbiamo essere nelle condizioni di riconoscere
la possibilità del fallimento matrimoniale. Tutte le altre soluzioni sono palliativi. I matrimoni
falliscono, anche quelli dei cattolici, perché siamo umani! Bisogna riconoscere questo dato».
SIRBONI: «Prima ancora del fallimento e restando nell’ambito teologico-giuridico, non è affatto
fuori luogo chiederci quanti matrimoni in chiesa siano veramente anche sacramenti. La domanda
“scandalosa” fu posta dal cardinale Ratzinger nel 1998 quando era prefetto della Congregazione per
la dottrina della fede, e pubblicata su uno studio a nome della stessa Congregazione. Egli si chiede
se battezzati, che non hanno mai creduto veramente in Dio o che non credono più, possano contrarre
un matrimonio sacramentale. All’essenza del sacramento, afferma sempre Ratzinger, appartiene la
fede; resta da chiarire la questione giuridica circa quale evidenza di “non fede” abbia come
conseguenza che un sacramento non si realizzi. Si tratta di una questione fondamentale e delicata
che esige studi approfonditi, ma che non è lecito ignorare, visto che i sacramenti sono “sacramenti
della fede” e che le ricadute pastorali sono tutt’altro che insignificanti».
PIANA: «Sono d’accordo. Personalmente, non guardo certo con grande simpatia alle dichiarazioni
di nullità della Sacra Rota, anche se riconosco che negli ultimi decenni i meccanismi si sono affinati
e si procede con maggiore serietà rispetto al passato. Sono tuttavia convinto che esistano, e non
siano pochi, i casi di effettiva nullità per mancanza di condizioni fondamentali di partenza. Mi ha
colpito, da questo punto di vista, un intervento di Benedetto XVI alla Sacra Rota sul finire del suo
pontificato, nel quale — ricollegandosi idealmente alla riflessione del 1998 — Papa Ratzinger
invitava gli officiali del Tribunale romano a prendere in considerazione, come fattore sul quale
riflettere per decidere circa la nullità del matrimonio, la questione della fede. Questo perché, in una
società secolarizzata e caratterizzata da un grande pluralismo di sistemi valoriali come l’attuale, i
valori del matrimonio, e in particolare l’indissolubilità, non sono sempre facilmente percepibili
laddove non esiste una seria formazione religiosa. Credo che se si facesse un’indagine seria al
riguardo, non pochi matrimoni celebrati in chiesa risulterebbero “nulli”. Il problema di cui qui
discutiamo è senz’altro diverso, ma mi pare giusto ricordare anche questo aspetto».
JESUS: A parte il tema della nullità giustamente ricordato adesso, che cosa fare quando i
matrimoni — anche quelli di cattolici convinti e consapevoli — falliscono?
PETRÀ: «Nella tradizione orientale, la soluzione c’è. Le Chiese ortodosse hanno sottratto il
discorso dell’indissolubilità alla rigidità giuridica medioevale. L’indissolubilità è vista come un
comandamento che può essere ferito dal peccato. E dunque, come per ogni peccato, c’è la
possibilità, attraverso il sacramento della penitenza, di aprirsi a un futuro di nuove possibilità.
Naturalmente oggi nella nostra Chiesa occidentale la cosa non è facile, perché comporta un
cambiamento che tocca l’intero impianto giuridico-dottrinale. E se non si risolvono le questioni
dottrinali, ci mancano gli strumenti concettuali per affrontare adeguatamente il problema».
JESUS: I nodi concettuali sono due: la riammissione dei divorziati risposati all’Eucaristia e —
cosa diversa — la possibilità di celebrare in chiesa eventuali seconde o terze nozze. Ma certo, con
le statistiche che ci troviamo di fronte, il problema ha assunto dimensioni tali da far intuire che
non c’è impianto dottrinale che tenga…
PETRA: «Riguardo al primo punto provo a sintetizzare la questione di fondo così: un rapporto
sessuale, posto in una relazione di autentica condivisione d’amore, è buono e lecito? Nella mentalità
comune odierna verrebbe di dire di sì. Ma questo non corrisponde alla tradizione della Chiesa
latina: il rapporto sessuale è buono e lecito solo entro un matrimonio valido, che tra due fedeli
cattolici è solo il matrimonio sacramentale. Ammettendo all’Eucaristia i divorziati risposati
coniugalmente attivi verremmo a considerare valida la loro nuova unione, cosa non compatibile con
la permanenza della validità della prima. Dunque, se non si prende in esame anche la teologia della
sessualità non si va molto avanti. Nella nostra dottrina non può darsi — almeno così sembra — la
coesistenza di due matrimoni validi: bisogna maggiormente riflettere perciò sulla questione della
validità del matrimonio. La Chiesa potrebbe tentare nuove vie in sintonia con l’impianto “giuridico”
tipicamente latino. Un esempio: il canone 1141 afferma l’indissolubilità del matrimonio rato e
“consumato”. Nel Vangelo non si dice come “consumare” il matrimonio, non c’è nulla in proposito.
Il diritto canonico, invece, ne stabilisce la forma canonica, intendendola come consumazione
“fisica”. Alcuni teologi hanno proposto di passare dall’idea della consumazione fisica a quella della
consumazione “esistenziale”. La consumazione diventerebbe così un processo, di cui magari si
possono stabilire le fasi. Per ora non si è arrivati a una conclusione positiva, anche perché il diritto
canonico ha grandi capacità di soluzione all’interno del sistema, ma poca fantasia nell’allargamento
del sistema. Però, in ogni caso, una questione fondamentale resta anche quella della teologia della
sessualità».
PERRONI: «Sì, è esattamente questo il problema: la concezione della sessualità e, in particolare, il
controllo sulla sessualità che le religioni — tutte, non soltanto la Chiesa cattolica— hanno esercitato
e continuano ad esercitare. Il Concilio Vaticano II, con la Gaudium et spes, ha già compiuto un
salto teologico in avanti rispetto al passato, introducendo una visione del matrimonio e della
sessualità in cui si sottolinea che bisogna continuare ad amarsi per tenere in vita il matrimonio. È lo
stesso salto che pone la “consumazione” del matrimonio su una frontiera diversa da quella
zoologica: basta un atto sessuale a fare un bambino, mentre per costruire una coppia matura che
porta avanti un progetto di vita ci vuole molto di più».
ARZUFFI: «Il fatto è che questa intuizione del Concilio non è poi stata sviluppata né
teologicamente né giuridicamente, dal diritto canonico».
PETRÀ: «Il diritto ha i suoi limiti. Figuratevi che non riesce a dire neppure in modo formale che ci
deve essere amore coniugale nel matrimonio. Lo sottintende e basta. In effetti, la preoccupazione
canonistica dopo il Concilio è stata principalmente quella di evitare di “ridurre” il matrimonio a una
pura alleanza d’amore, che sta o cade con la sopravvivenza dell’amore stesso tra i coniugi».
ARZUFFI: «E non è giusto e naturale, questo?».
PETRÀ: «Questo è un altro discorso. Ma il concetto di “naturale” ci porterebbe lontano. Basti
pensare al fatto che l’amore è stato importante per il matrimonio soltanto nella cultura occidentale e
soltanto negli ultimi secoli. In precedenza, il matrimonio era essenzialmente un fatto sociale. Non ci
si sposava ordinariamente per amore. Semmai, nei casi fortunati, si imparava a volersi bene perché
si era sposati».
JESUS: E dunque come si esce dall’attuale impasse? Il prossimo Sinodo straordinario sulla
famiglia potrà aprire delle prospettive nuove?
PERRONI: «Durante il Concilio di Trento, a proposito dei matrimoni clandestini, la Chiesa ha
mostrato una reattività al contesto: la teologia, il diritto canonico e la pastorale si sono mossi per
rispondere ai problemi che si ponevano all’epoca. È la logica del Vangelo. Non si capisce perché,
dunque, non possa succedere la stessa cosa oggi su problemi divenuti pressanti».
PETRÀ: «Esistono due tradizioni cristiane diverse, quella greca e quella latina. Però c’è qualcosa
che le accomuna e che può consentire punti d’incontro. Nella tradizione latina possiamo avere due
elementi di appoggio. Il primo è basato sulla prassi: tutti i cambiamenti canonici che hanno portato
all’allargamento dei riconoscimenti di nullità sono legati all’esperienza di fallimenti matrimoniali.
La conclusione possibile è che la Chiesa ha un potere reale di intervenire sui fallimenti matrimoniali
e di adottare le soluzioni indispensabili per aiutare la ricostituzione di una nuova unione in un
contesto di conversione. L’altra via è legata a un dato che può apparire strano a dirsi: di fatto, noi
nella tradizione latina ammettiamo la possibilità di contrarre molti matrimoni. E il caso dei vedovi:
nel caso di vedovanza, ci si può risposare, anche un numero indefinito di volte. In Oriente non è
così: neppure i vedovi possono sposarsi più di tre volte, proprio come i divorziati. Per noi la morte
fisica consente semplicemente le nuove nozze, senza limiti. Ed è sempre stata una cosa pacifica,
visto che il fine principale del matrimonio era considerato quello procreativo. Ora, visto che è ormai
chiaro che il fine del matrimonio include sempre l’unità interpersonale dei coniugi — e poiché la
morte fisica, secondo la dottrina cristiana, non interrompe l’esistenza personale — si può fare questo
ragionamento: così come la Chiesa ha accettato in passato le nuove nozze in caso di vedovanza, può
ora accettare delle nuove nozze in casi che sono paragonabili alla morte fisica. Quando cioè si
configurano condizioni equiparabili alla morte, diciamo la morte morale di un matrimonio
irrimediabilmente concluso e fallito, allora si potrebbero ammettere delle nuove nozze. Ed è il caso
dei divorziati».
PERRONI: «Per me il nodo serio resta il rapporto tra religione e controllo della sessualità. La
Chiesa cattolica ha dimostrato di avere una difficoltà enorme a dire “abbiamo cambiato idea”. È
accaduto anche sul tema della contraccezione, con l’enciclica Humanae vitae. Cambiare idea e
prassi in tema di sessualità, nel mondo ecclesiale, sembra quasi un “cedimento” al mondo, alla
mondanità, alla pruderie, allo spirito dei tempi, alla licenziosità e via dicendo. Non si capisce,
invece, che la Chiesa ha sempre “adeguato” sé stessa al contesto in cui si trovava, certamente a
partire dal proprio bagaglio valoriale, ma confrontandosi in maniera dialettica con il tempo e con il
luogo in cui viveva. E questa è stata la condizione fondamentale per l’annuncio del Vangelo».
PETRÀ: «La difficoltà per la Chiesa è di passare dalla dimensione della soluzione individuale, caso
per caso, alla dimensione di una soluzione generale, valida per tutti. Solo una soluzione generale
può garantire equità e giustizia nei confronti dei divorziati risposati come anche di tutti gli altri.
Faccio un esempio: non si può continuare a insegnare in generale che non ci si deve risposare, e poi
contemporaneamente ammettere semplicemente i divorziati risposati alla comunione. C’è qualcosa
che non funziona, sono atteggiamenti contraddittori».
SIRBONI: «È ovvio che si debba parlare dei divorziati risposati anche in modo generico a partire da
principi generali. Tuttavia gli stessi documenti della Chiesa — in particolare Familiaris consortio e
il Direttorio di pastorale familiare della Cei — riconoscono che le diverse situazioni non sono
omologabili sebbene, alla fin dei conti, tutti si trovino poi di fronte allo stesso scoglio
insormontabile dei principi dottrinali e soprattutto disciplinari. C’è il coniuge innocente e
abbandonato ingiustamente; c’è chi ha contratto un nuovo matrimonio in vista dell’educazione dei
figli; c’è chi ha riconosciuto la propria colpa. Ci sono divorziati risposati del tutto indifferenti alla
fede cristiana; altri, invece, sinceramente desiderosi di poter vivere una piena vita cristiana e non
solo di poter fare la comunione in occasione di cresime e prime comunioni. La Chiesa, attraverso i
suoi pastori, ha il dovere di fare questo discernimento e non solo teoricamente».
JESUS: E qui torniamo al tema del Sinodo, che è chiamato a riflettere e a cercare soluzioni che
valgano per tutti e che tengano conto delle esperienze della Chiesa universale. Il documento
preparatorio del Sinodo è particolarmente interessante perché, al contrario del passato, pone
domande più che offrire risposte. Chiede suggerimenti e indicazioni ai vescovi anche sugli
argomenti di questo nostro dibattito. Allora, proviamo anche noi a offrire qualche modesto
suggerimento: a vostro giudizio, i padri sinodali quali nodi dovrebbero affrontare? E quali
soluzioni teologiche e pastorali potrebbero trovare per affrontare il problema crescente dei
divorziati credenti?
PERRONI: «lo suggerirei due atteggiamenti di fondo. Il primo può sembrare paradossale, ma
secondo me sarebbe importante se la Chiesa di Roma, il Papa, chiedesse perdono a tutti quelli che
per questa disciplina della Chiesa hanno sofferto in modo terribile. Sarebbe un atteggiamento di
partenza che ribalta un po’ la prospettiva e, se non altro, accetta di partire dall’ascolto delle
situazioni reali. Il secondo atteggiamento che chiederei è quello di accettare un maggior pluralismo
all’interno della Chiesa, mettendo in pratica l’idea stessa di sinodalità. Così come succede sul
celibato sacerdotale, che nella stessa Chiesa cattolica, a seconda dei riti (latino oppure orientali) è
disciplinato diversamente, allo stesso modo si potrebbe provare a fare riguardo al nodo dei
divorziati risposati. Servirebbe anche per mostrare ai membri del popolo di Dio che la Chiesa è una
realtà differenziata e plurale, e non un monolite tetragono e centralizzato».
PETRA: «In vista del prossimo Sinodo, avrei tre suggerimenti che mi sembra si riferiscano a
questioni fondamentali. In primo luogo, la Chiesa dovrebbe prendere atto che i matrimoni
falliscono. È ora di fare i conti con il principio di realtà, anche perché il contesto sociale porta a una
maggiore fragilità dei rapporti e la Chiesa non può più chiudere gli occhi di fronte alle sempre più
numerose crisi matrimoniali. La seconda questione è quella della riflessione teologica: come
fronteggiare questa situazione? Quali piste teologiche battere per poter riconoscere, in qualche
modo, i fallimenti matrimoniali, aprendo anche delle prospettive di vita per il futuro alle persone
coinvolte, quindi anche la possibilità di una riammissione all’Eucaristia e la celebrazione di nuove
nozze. Se non troviamo una soluzione teologicamente consistente, restiamo con le armi spuntate.
Questa riflessione va affrontata dai teologi, sia elaborando modelli che possono derivare
dall’esperienza di altre Chiese, in particolare quelle orientali, anche se credo che non siano
facilmente trasferibili in Occidente, sia proponendone di nuovi. In questo senso, devono essere
molto ben preparati i contenuti teologici per il Sinodo, devono essere chiesti i contributi teologici,
non soltanto ai “soliti noti”, ma anche ad altre persone, indicate specialmente dalle Chiese locali,
dalle associazioni teologiche locali, dalle università. Infine, la terza questione, cioè il livello della
cura pastorale. Una volta inquadrato il problema teologicamente, la mediazione pastorale può anche
articolarsi in maniere diverse, tentando varie sperimentazioni. Al Sinodo bisognerebbe lavorare su
questi tre livelli contemporaneamente: il principio di realtà, una riflessione teologica approfondita e
seria e il problema della mediazione pastorale. A mio parere, il punto più delicato è quello
teologico, ma penso ci siano risorse per affrontarlo con successo. È mai possibile che il Signore non
dia intelligenza alla Chiesa? In tutti i momenti-chiave della storia ha portato intelligenza alla
Chiesa, in modo che essa rispondesse alle sfide che di volta in volta si ponevano. Perché non ora?».
SIRBONI: «Confortati dalla prassi orientale e soprattutto dalla certezza che Gesù Cristo è stato
inviato dal Padre non per i sani ma per i malati, non per condannare ma per salvare ciò che era
perduto, sono molti oggi, specialmente dopo i numerosi interventi di papa Francesco sulla
misericordia di Dio, che si chiedono cosa impedisca, dopo una seria valutazione dei singoli casi e
un congruo periodo di vera, sincera e certa penitenza, di riconoscere una seconda unione coniugale,
ancora vivente il primo coniuge e quindi la piena riammissione alla vita della Chiesa, comunità di
feriti risanati dalla grazia, di peccatori pentiti e perdonati dalla divina misericordia. Non si
tratterebbe di riconoscere la pienezza del sacramento nuziale che si realizza soltanto nel matrimonio
unico e indissolubile, ma di riconoscere con un rito liturgico la realtà di salvezza costituita da
quell’unione coniugale, inscritta nella natura umana, che viene prima del sacramento e che, come
dice la stessa preghiera sugli sposi, “riceve quella benedizione che nulla poté cancellare, né il
peccato originale né le acque del diluvio”».
PIANA: «La questione dei divorziati risposati, dell’accesso ai sacramenti e dell’inserimento pieno
nella comunità cristiana è centrale, e spero che i voti formulati da Petrà trovino una risposta
positiva. Vorrei aggiungere che esistono anche altre urgenti questioni pastorali di grande portata,
dettate dai profondi cambiamenti culturali e sociali in corso. Ne ricordo solo due che coinvolgono
soprattutto l’Occidente: il forte incremento dei matrimoni civili, che stanno superando, anche nel
nostro Paese, almeno nelle grandi città del Nord, il numero di quelli religiosi; e l’aumento costante
delle convivenze, soprattutto nel mondo giovanile. Sono due fenomeni importanti che non possono
non interpellare la pastorale della Chiesa».
ARZUFFI: «A me basterebbe che i padri sinodali affrontassero senza pregiudiziali — e anche senza
sentirsi vincolati e bloccati dall’ansia della “continuità” teologica e giuridica con il passato —
questo tema, in modo da offrire una soluzione, una via di speranza a chi come me vive questa
situazione con sofferenza. Io e tante migliaia di altri credenti come me vogliamo stare ben dentro la
Chiesa, partecipare pienamente e attivamente alla vita ecclesiale, senza sentirci “tagliati fuori”,
perché, molto spesso, l’esclusione non è diretta e palese, è per lo più “ovattata” con altre
motivazioni. Il paradosso più incomprensibile è che questo di noi divorziati risposati sembra essere
l’unico peccato imperdonabile agli occhi della Chiesa. Qualcuno scherzosamente mi ha suggerito
che, invece di divorziare, avrei potuto ammazzare mia moglie, tanto poi, con una buona
confessione, tutto si sarebbe sistemato. Una provocazione oltre i confini dell’assurdo, che rivela
però le contraddizioni insite in questo modo di concepire l’indissolubilità e che mette in discussione
un certo modo di essere Chiesa. È importante perciò che i padri sinodali diano risposte di speranza e
all’altezza dei problemi che la contemporaneità pone sul tappeto, che lo si voglia o meno. Anche
perché il potere che Gesù ha dato a Pietro, il potere di sciogliere e legare, non lo ha dato per gioco o
per finta. E la Chiesa lo ha esercitato non poche volte, durante il corso della sua storia, e non sempre
a proposito. Quindi anche oggi la Chiesa ha il potere, e il dovere, dì cambiare prassi rispetto al
passato, adeguandola al vissuto degli uomini della contemporaneità. Non dimentichiamo che il
“genio” del cristianesimo è sempre stato quello di saper incarnare, nel presente e per tutti, il
messaggio di misericordia di Gesù di Nazaret. Occorre proseguire in questa sana e tradizionale
“conversione continua”, se non vogliamo rischiare dolorose scissioni nel corpo ecclesiale. Divisioni
che ora sono annidate nelle singole coscienze, ma che domani potrebbero esplodere in veri e propri
scismi».
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