La continuità dei figli rispetto ai padri e la gioia del Vangelo


Il primo papa “figlio del Vaticano II” e la diatriba sulla discontinuità

Fin dalle prime parole pronunciate da Francesco dalla loggia di S. Pietro, la sera del 13 marzo scorso, tutti ci siamo accorti – ora con stupore, ora con scandalo – di alcune novità sorprendenti, e non è stato facile collocare nella “catena” dei papi dell’ultimo secolo questo imprevisto “fenomeno nuovo”.
Può aiutare a fare i conti con la realtà la considerazione che già avevo proposto in un post precedente di questo blog (La via del Concilio di papa Francesco: abitare, celebrare, incontrare, del 15 ottobre 2013) e sulla quale vorrei ritornare brevemente.
In effetti queste novità possono avere diverse ragioni: il primo papa “che viene dalla fine del mondo” porta a Roma una cultura umana, un atteggiamento spirituale, modalità di discorso e di incontro, aspirazioni e priorità alle quali non eravamo affatto abituati.
Ma il motivo primario della sorpresa è legato ad un fattore generazionale poco considerato. Papa Francesco è il primo papa figlio del Concilio Vaticano II. Egli lo ha “ricevuto”, non lo ha né determinato, né vi ha preso parte. Ne è stato segnato nel modo di abitare la “forma ecclesiae”, nel modo di pensare la carità, nel modo di comunicare la fede e nel modo di pensare il ministero. Il Vaticano II è stato, per lui, l’orizzonte nel quale ha precisato la sua vocazione, ha mosso i primi passi da religioso e da presbitero, ha interpretato la fede, ha vissuto la chiamata episcopale e il suo ministero nella Chiesa Argentina e Sudamericana.
Per comprendere appieno la continuità di papa Francesco rispetto ai suoi predecessori del XX secolo – da Pio X a Benedetto XVI – bisogna riferirsi a questo dato biografico e cu lturale: egli è in continuità con i suoi predecessori come un figlio è in continuità con il padre. Appartenendo a una “diversa generazione” rispetto a Benedetto XVI, è difficile poterlo bloccare e fissare sulle forme papali che il suo predecessore ha incarnato in piena coerenza con la propria biografia e con la propria storia. Ma Francesco viene da un’altra storia, oltre che da un altro mondo.
In particolare, è assai curioso che oggi si voglia “garantire” la continuità di Francesco rispetto a Benedetto, costringendo il primo a “condividere” le opinioni che nel secondo scaturivano da “vissuti”, da “pratiche”, da “giudizi” che al nuovo pontefice risultano ignoti. Si pretenderebbe, in questo modo, di vincolare i vissuti, le emozioni e le esperienze alle “dottrine”, secondo la peggiore inclinazione (e tentazione) intellettualistica. E si possono considerare arbitrariamente delle lettere “ad personam” (come quelle all’Arcivescovo Marchetto o al Card. Brandmueller) come “irrevocabili” atti di magistero, senza considerare che il vero “magistero conciliare”, per Francesco, non dipende dalle opinioni che esprime sugli studi intorno a Vaticano II, o sulla importanza del Concilio di Trento, ma sul modo sciolto e aperto con cui concelebra la mattina, con cui incontra i detenuti o gli emigranti, con cui dialoga con gli atei o con cui ironizza sul clericalismo o sulla curia romana, con cui richiama alla povertà o invita alla libertà.
La “irreversibilità” del Concilio, per Francesco, non è una dottrina, ma una forma di vita.
E’ questo tratto sorprendente che abbiamo colto tutti, nitidamente, fin dalla sera del 13 marzo. Ed è questo il lato irreversibile del Concilio che si afferma proprio in occasione del suo 50^ anniversario, esattamente nel punto più alto della gerarchia ecclesiale. Francesco, col suo essere e col suo linguaggio, smentisce con chiarezza tutti quei tentativi “testardi” di ostacolare la libertà dello Spirito.
E’ sufficiente leggere pacatamente la nuova Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium” al n. 41 per cogliere la prospettiva di interpretazione che del Concilio Vaticano II ci offre papa Francesco:

“41. Allo stesso tempo, gli enormi e rapidi cambiamenti culturali richiedono che prestiamo una costante attenzione per cercare di esprimere le verità di sempre in un linguaggio che consenta di riconoscere la sua permanente novità. Poiché, nel deposito della dottrina cristiana « una cosa è la sostanza […] e un’altra la maniera di formulare la sua espressione ».[45] A volte, ascoltando un linguaggio completamente ortodosso, quello che i fedeli ricevono, a causa del linguaggio che essi utilizzano e comprendono, è qualcosa che non corrisponde al vero Vangelo di Gesù Cristo. Con la santa intenzione di comunicare loro la verità su Dio e sull’essere umano, in alcune occasioni diamo loro un falso dio o un ideale umano che non è veramente cristiano. In tal modo, siamo fedeli a una formulazione ma non trasmettiamo la sostanza. Questo è il rischio più grave. Ricordiamo che « l’espressione della verità può essere multiforme, e il rinnovamento delle forme di espressione si rende necessario per trasmettere all’uomo di oggi il messaggio evangelico nel suo immutabile significato ».[46]”

Proprio nella ostinazione con cui si vuol cercare in papa Francesco una “affermazione dottrinale” o un “linguaggio completamente ortodosso”, che possa smentire questa forma di vita apertamente e serenamente conciliare, si manifesta un grande paradosso:  il Concilio Vaticano II – ormai arrivato a tale maturazione, da generare la forma di vita di un papa – può rimanere totalmente estraneo alla comprensione di qualche attento osservatore, nella misura in cui esso mostra di conoscere bene tutti i retroscena, ma di non riuscire ad accettare il bene apparso sulla scena.

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