Il dialogo oltre il diverbio: ancora sulla lettera del papa a Repubblica


Con il titolo redazionale – imposto dal quotidiano “La Sicilia” – “La fede di papa Francesco spiazza la logica di Scalfari” è uscito oggi questo articolo del teologo Massimo Naro. E’ una breve ma intensa riflessione sul testo di papa Francesco pubblicato l’altro ieri su Repubblica.

Invito al dialogo

«Bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione assoluta, reimpostare in profondità la questione»: in quest’avvertenza mi pare si possa cogliere il punto d’appoggio su cui la riflessione di papa Francesco – sviluppata nella lettera indirizzata a Eugenio Scalfari, l’altro ieri resa pubblica – fa leva per sollevare il mondo simboleggiato dalla modernità. Vale a dire l’universo culturale entro cui, negli ultimi secoli, fede e ragione si sono fraintese e quindi rifiutate a vicenda, concependosi – con logica “bipartisan”, secondo le ricostruzioni storiografiche del gesuita francese Henri de Lubac – l’una come il contrario dell’altra. E così dissecando l’uomo, quasi fosse un albero spaccato in mezzo, ridotto in tronconi trascinati in direzioni diametralmente opposte, a rovinare nel fideismo per un verso e per l’altro ad affondare nel razionalismo.
Il papa si smarca rispetto a questo scenario ormai ovvio e scontato, persino stantio, fermamente convinto che se non ce lo gettiamo – una buona volta – alle spalle, ogni “cortile” in cui ritrovarsi a discutere di fede e di ragione, o a confrontarci da “credenti” a “illuministi” (e viceversa), rischia di ridursi inesorabilmente alle misure puntute della controversia, come ai bei tempi dell’Enciclopedia o del Sillabo: articoli che, evidentemente, a Francesco non interessano più.
Perciò egli trasfigura la disfida dialettica che il fondatore de “La Repubblica”, pur coi modi cortesi del galateo intellettuale e della “political correctness”, gli lanciava quest’estate, in un «invito» ad accompagnarci tutti nella ricerca e a camminare insieme, così finalmente accordandoci nel seguire la stessa rotta, almeno per un tratto. Insomma: guardando verso la medesima direzione, tentando cioè di riscoprire sensi e significati condivisibili. Ed essiccando di ogni tensione polemica il dialogo, per far sì che questo non degeneri ancora, come tante altre volte già, in diverbio. È la fatica che, pazientemente oltre che sapientemente, Francesco fa tra le sue righe, lasciando decantare i registri che appartengono al termine di matrice latina (diverbio) e puntando, invece, sulle virtù custodite nel termine di matrice greca (dialogo): la proiezione di sé e del proprio “mondo” in un altro orizzonte concettuale, in un’altra tradizione dottrinale, in un’altra sensibilità culturale, in un altro universo valoriale, e la disponibilità ad ospitare presso di sé, nel proprio “mondo”, gli altri e il loro universo.
Invito al dialogo: ecco, appunto, come si potrebbe re-intitolare la pubblicazione della lettera del papa, che si rivolge a un noto intellettuale laico per ragionare – assieme con lui e a partire dalle sue domande – riguardo alla “propria” fede. La quale viene raccontata e spiegata senza alcuna presunzione universalistica, come un fatto personale. È questo l’esito del superamento – da parte del magistero pontificio, che su tale lunghezza d’onda si sintonizza col Vaticano II – degli ottocenteschi “ismi”, già riscontrabile nell’enciclica “Lumen fidei”. Per Francesco è ozioso indugiare a discutere di soggettivismo o di relativismo. Semmai è urgente comprendere la fede, e la verità di cui essa è annuncio ed esperienza, nella prospettiva della soggettualità e della relazionalità.
La fede è incontro di qualcuno con un Altro. Anzi: è – «per me», scrive Francesco, senza temere di dare impressioni sbagliate – l’«incontro personale» con Cristo Gesù e, in Lui, con Dio e con gli uomini e le donne a Lui solidali. C’è qui l’ammissione, modernissima, dell’importanza dell’io, che però non si sottrae al rapporto con quell’Altro, non svicola dal confronto con i fatti che accadono, non si esime dall’interrogarsi sulle loro implicazioni meno evidenti: chi è Costui che vive in modo così sovreccedente il suo esser-uomo? e chi è il Dio da cui proviene e con cui rimane in contatto mentre racconta le sue parabole e compie i suoi gesti rivoluzionari non meno di quando se ne rimane in disparte a pregare? e chi sono quelli che accettano la provocazione di andargli appresso lungo i sentieri scomodi del discernimento spirituale, del cambiamento religioso, del rinnovamento etico, della conversione a tutto tondo?
La verità, poi, è relazione. Non c’è da far valere le ragioni della sua assolutezza o della sua relatività, perché questi termini tradiscono un’impostazione inadeguata della «questione». Per il papa, che riecheggia la lunga tradizione ecclesiale, la verità è la ricerca umile in cui Dio s’impegna per ritrovare l’uomo. Ed è l’anelito ad oltrepassarsi che l’uomo stesso nutre in sé, nelle pieghe intime della coscienza. La verità, perciò, è quel Maestro Martire nella cui vicenda le due tensioni s’intrecciano con la tenacia dell’Amore.
Tutto ciò non è fede razionalizzata. È, piuttosto, pensiero credente. È l’intelligenza di cui pure la fede è capace, per non restare una convinzione arbitraria, per maturare in responsabile consapevolezza.

Massimo Naro

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