Dio nella città di J.M. Bergoglio


La rivista “Munera” pubblica nel suo prossimo numero un testo pronunciato il 25 agosto 2011 dall’allora arcivescovo di Buenos Aires come saluto iniziale al Primo Congresso di Pastorale Urbana della regione di Buenos Aires e costituisce il primo capitolo del libro Dios en la ciudad © SAN PABLO, Buenos Aires (Argentina), 2013. Si tratta di una riflessione molto interessante, di cui presento qui una ampia sintesi, anche se ogni frase delle dieci pagine originali (e che possono essere lette scaricandole dal sito www.muneraonline.eu ) meriterebbe quella attenzione che qui non ci possiamo permettere. Ho sottolineato in corsivo grassetto le frasi più sorprendenti e ho eliminato le note (peraltro assai significative). Una osservazione deve però essere fatta : diversamente da quanto si sente dire e si legge sui giornali, in questo testo vediamo come il primo mese del Vescovo Francesco non dipende semplicemente dalle sue doti umane di contatto e di rapporto. Vi è qui una « teoria dello sguardo nella città» che merita di essere considerata come il fondamento teologico di quella prassi che tanto ci ha colpito in questi ultimi giorni. Papa Francesco, fin dall’inizio, ha sorpreso tutti per come guarda e per come si lascia incontrare. Questo testo chiarisce quali sono i presupposti teorici di questa prassi sorprendente.  (a.g.) 

Dio nella città
di Jorge Mario Bergoglio / Papa Francesco

Con uno sguardo di credente e di pastore

Quando prego per Buenos Aires, ringrazio che sia la città nella quale sono nato. L’affetto che scaturisce da una tale familiarità aiuta a incarnare l’universalità della fede che abbraccia tutti gli uomini di tutte le città. Oggi che i vincoli di razza, storia e cultura non sono omogenei e neanche i diritti civili sono uguali per tutti, essere cittadino di una grande città è qualcosa di molto complesso. Nella città ci sono moltissimi “non cittadini”, “cittadini a metà” e “di troppo”: o perché non godono di pieni diritti – gli esclusi, gli stranieri, i senza tetto, i bambini non scolarizzati, gli anziani e i malati senza protezione sociale –  o perché non assolvono ai propri doveri. In questo senso, lo sguardo trascendente della fede, che conduce al rispetto e all’amore del prossimo, aiuta a scegliere di essere cittadino di una città concreta e a mettere in pratica atteggiamenti e comportamenti che creano cittadinanza.
Lo sguardo che desidero condividere con voi è quello di un pastore che cerca di andare a fondo nella sua esperienza di credente, di uomo che crede che «Dio vive nella sua città».
Nel suo Discorso sui pastori, sant’Agostino distingue due cose: la prima è che siamo cristiani, la seconda che siamo vescovi. Nel collocarci dinanzi a una città moderna dagli immaginari sociali tanto differenti, questo esercizio di distinguere gli sguardi può essere d’aiuto: non per tralasciare di guardare al gregge che ci è stato affidato, ma per immergersi in questo sguardo di fede semplice che al Signore tanto piaceva incontrare, senza curarsi di differenze di razza, cultura o religione. Perché lo sguardo di fede scopre e crea città.

[…]

Le immagini del Vangelo che più mi piacciono sono quelle che mostrano ciò che Gesù suscita nella gente che incontra per la strada. L’immagine di Zaccheo: il quale, accorgendosi che Gesù è entrato nella sua città, sente risvegliarsi il desiderio di vederlo e si affretta a salire sull’albero. La fede farà sì che Zaccheo cessi di essere un “traditore” al servizio proprio e dell’Impero, e divenga un cittadino di Gerico, che stabilisce relazioni di giustizia e solidarietà con i suoi concittadini. L’immagine di Bartimeo: il quale, quando il Signore gli concede la grazia che desidera – «Signore, che io veda» –, lo segue nel cammino. Per fede, Bartimeo cessa di essere un uomo ai margini, trascinato al bordo della strada, e si converte in protagonista della propria storia, camminando con Gesù e con il popolo che lo seguiva. L’immagine dell’emorroissa: che, in mezzo a una moltitudine che si stringe al Signore da ogni parte, tocca il suo mantello attirando il suo sguardo, rispettoso e pieno di affetto. Grazie alla fede, l’emorroissa si trova inclusa in una società che discrimina la gente a causa di alcune malattie considerate impure.
Sono immagini di incontri fecondi. Il Signore semplicemente «passa facendo del bene». Ci si meraviglia nel vedere ciò che avviene nel cuore di tante persone che, escluse dalla società e ignorate da molti, nell’entrare in contatto col Signore si riempiono di vita piena, e questa vita cresce integralmente, migliorando la vita della città.

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Se è vero che si è passati da un soggetto cristiano il cui sguardo stava “al di sopra” della città per modellarla, a un soggetto immerso nello shaker della ibridazione culturale e che ne subisce le influenze e gli impatti, è ora necessario riagganciarci allo “specifico cristiano” per poter dialogare con tutte le culture: ovvero con una cultura cristiana ispirata dalla fede, la cui struttura di valori ci fa sentire come a casa; con una cultura pagana, i cui valori si possono discernere con una certa chiarezza; e con una cultura ibrida e molteplice come quella che si sta preparando, che richiede un maggiore discernimento.
Essere popolo e costruire città vanno di pari passo; e così anche essere popolo di Dio e abitare nella città di Dio. In questo senso, l’immaginario teologico può essere lievito per ogni immaginario sociale.

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Lo “specifico cristiano” si concepisce come “lievito che sta già lievitando l’impasto”. Ciò coincide con il  sentirci “costretti” da un Dio che sta già vivendo nella città, mischiato vitalmente con tutti e con tutto.
È una riflessione che ogni volta ci coglie già con le mani in pasta, compromessi con la situazione dell’uomo concreto così come si dà, coinvolti con tutti in un’unica storia di salvezza.
Dunque niente proposte dotte, di rottura, asettiche, che partono da zero, che si pongono a distanza per “pensare” come fare affinché Dio viva in una città senza dio. Dio già vive nella nostra città e ci costringe – mentre riflettiamo – a uscire e andargli incontro per scoprirlo, per costruire relazioni di vicinanza, per accompagnarlo nella sua crescita e incarnare il fermento della sua Parola in opere concrete. Lo sguardo di fede cresce ogni volta che mettiamo in pratica la Parola. La contemplazione si perfeziona attraverso l’azione. Agire come buoni cittadini – in qualsiasi città – perfeziona la fede. Paolo raccomanda fin dall’inizio di essere buoni cittadini (cfr. Rom 13,1). È l’intuizione del valore dell’inculturazione: vivere a fondo l’umano, in qualsiasi cultura, in qualsiasi città, rende migliore il cristiano e feconda la città (conquistandone il cuore).
Il pastore che guarda alla sua città con la luce della fede combatte la tentazione del “non sguardo”, del “non vedere”. Il non vedere, che il Signore rimprovera con tanta insistenza nel Vangelo, presenta molte forme: quella della cecità ostinata degli scribi e dei farisei, quella dell’abbagliamento non solo delle «luci del centro», come dice il tango, ma anche della stessa rivelazione, forma del non vedere che tenta gli apostoli “sotto una apparenza di bene”; c’è poi il non guardare di quelli che “passano oltre”. Ma c’è un livello più elementare di questo “non sguardo”. È difficile da categorizzare, ma può essere descritto.
In alcuni discorsi, si intuisce come la prospettiva nasca da un “livellamento degli sguardi”, se mi è concesso esprimermi in questo modo. In essi, lo sguardo di fede non prende esistenzialmente valore come dono di Dio a un uomo che si situa alla frontiera dell’esistenza per essere guardato e guardare il Dio vivo, ma la fede è vista, per così dire, come un “risultato”: come “ciò che è già stato detto su un certo tema in un certo documento”. Questo sguardo di fede si confronta con quelli della scienza o dei media e quasi immediatamente si qualifica come “antiquato” o “non aggiornato” rispetto allo sguardo di una scienza capace di mostrare cose nuove. A partire da questo sguardo, chi parla o scrive pone se stesso in una sorta di luogo privilegiato da dove “oggettiva” sia la postura tradizionale sia il nuovo paradigma.

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Ciò che intendo dire è che i “non sguardi” sono dei “non soggetti” e la città, così come la Chiesa, necessita di essere guardata da soggetti (ecclesiali e cittadini, secondo il caso).

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Si può dire che lo sguardo di fede ci conduce a uscire ogni giorno, e sempre più, incontro al prossimo che abita nella città. Ci spinge a uscire verso l’incontro perché questo sguardo si alimenta nella vicinanza. Non tollera la distanza, avverte che la distanza sfoca ciò che desidera vedere; e la fede vuole vedere per servire e amare, non per constatare o dominare. Nell’uscire per strada, la fede limita l’avidità dello sguardo dominatore e aiuta ogni prossimo concreto – al quale guarda con desiderio di servirlo – a focalizzare meglio “l’oggetto proprio e amato”, che è Gesù Cristo venuto nella carne. Chi dice che crede in Dio e “non vede” il proprio fratello, inganna se stesso.
Perfezionarsi nella fede in questo Dio che vive nella città rinnova la speranza di nuovi incontri. La speranza ci libera da quella forza centripeta che spinge il cittadino del nostro tempo a vivere isolato, aspettando a casa la consegna dei suoi acquisti e connesso solo virtualmente. Il credente che guarda illuminato dalla speranza combatte la tentazione di non guardare, tentazione riconducibile o al vivere murato nei bastioni della propria nostalgia o alla sete di curiosare. Il suo non è lo sguardo avido del “vediamo che cosa è successo oggi” tipico dei notiziari.

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Se partiamo dalla constatazione che l’anti-città cresce con il non sguardo, che la maggior esclusione consiste nel nemmeno “vedere” l’escluso – quello che dorme per strada non lo si vede come persona, ma come parte della sporcizia e dell’abbandono del paesaggio urbano, della cultura dello scarto, dello “scarico” – la città umana cresce con lo sguardo che “vede” l’altro come concittadino. In questo senso, lo sguardo di fede è fermento per uno sguardo di cittadinanza. Per questo, possiamo parlare di un “servizio della fede”: un servizio esistenziale, testimoniale, pastorale.

Sguardo che include senza relativizzare

Sto dicendo che la fede, per sé sola, migliora la città? Sì, nel senso che solo la fede ci libera dalle generalizzazioni e dalle astrazioni di uno sguardo dotto che, come suo frutto, porta solo maggiore conoscenza.

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Se ci situiamo nell’ambito della carità, possiamo dire che questo sguardo ci salva dal dover relativizzare la verità per poter essere inclusivi. La città odierna è relativista (tutto è valido), e forse a volte cadiamo nella tentazione di pensare che, per non discriminare, per includere tutti, sia necessario “relativizzare” la verità. Non è così. Il nostro Dio che vive nella città – nella cui vita quotidiana si coinvolge – non discrimina né relativizza. La sua verità è quella dell’incontro che scopre volti, e ogni volto è unico. Includere persone con volti e nomi propri non implica relativizzare valori né giustificare antivalori; al contrario, non discriminare e non relativizzare implica avere la fortezza per accompagnare i processi e la pazienza del fermento che aiuta a crescere. La verità che accompagna è quella che mostra percorsi futuri più che giudicare le chiusure del passato.
Lo sguardo dell’amore non discrimina né relativizza perché è misericordioso.

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Questo sguardo è personale e comunitario. Si traduce in agenda, segna tempi più lenti di quelli della realtà (avvicinarsi a un malato richiede tempo) e genera strutture accoglienti e non espellenti, cosa che pure esige tempo.

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Un Dio vivo in mezzo alla città chiede di andare a fondo nel cammino di questo sguardo che proponiamo. Non è un guardarsi l’ombelico come invece lo è il “guardare a come guardiamo”.
Perché la città, come il deserto, produce miraggi.
Con le migliori intenzioni, può accadere che ci inganniamo. La fede va sempre sfidata a superare le illusioni. Siamo rimasti delusi (alcuni di noi forse eccessivamente) dalle illusioni delle ideologie politiche, e dal guardare non solo le città, ma anche l’intero Continente attraverso ideologie che proponevano vie rapide per raggiungere la giustizia. Il prezzo è stato la violenza e una svalutazione della politica che solo recentemente sta iniziando a cambiare di segno. Oggi ci sono altri miraggi. Forse attraverso il contrasto temporale possiamo comprenderne la radice. Se i miraggi politici esigevano un passaggio rapido all’azione, le illusioni dotte piuttosto lo “ritardano”. Il punto è che, se la teoria diventa tanto complicata, invece di favorire “uscite apostoliche”, favorisce piuttosto “discussioni sui piani apostolici”.

[…]

Dio vive nella città, e la Chiesa vive nella città. La missione non si oppone al fatto di imparare dalla città – dalle sue culture e dai suoi scambi – nel momento stesso in cui usciamo per predicarle il Vangelo.
Questo è un frutto del Vangelo stesso, il quale interagisce con il terreno nel quale cade come seme. Non solo la città moderna è una sfida, ma lo sono state, lo sono e lo saranno tutte le città, tutte le culture, tutte le mentalità e tutti i cuori umani.

[…]

La dinamica è la stessa di Giovanni nella lavanda dei piedi: la coscienza lucida e onnicomprensiva del Signore (sapendo che il Padre aveva posto tutto nelle sue mani) lo spinge a cingersi il grembiule e a lavare i piedi ai suoi discepoli. La visione più profonda e più alta non spinge a nuove visioni, ma all’azione più umile, situata e concreta.

Tenendo conto di queste riflessioni, e per concludere, possiamo dire che lo sguardo del credente sulla città si compie in tre attitudini concrete:

– L’uscire da sé per andare incontro all’altro si compie nella vicinanza, in una attitudine alla prossimità. Il nostro sguardo deve essere sempre pronto a uscire e a farsi vicino. Non autoreferenziale ma trascendente.
– Il fermento e il seme della fede trovano compimento nella testimonianza (se conosciute queste cose le mettono in pratica, saranno felici). Dimensione martiriale della fede.
– L’accompagnamento trova compimento nella pazienza, nella hypomoné, la quale accompagna i processi senza fare loro violenza. 
In questa direzione mi pare che debba andare il servizio che, come uomini e donne credenti, possiamo offrire alla nostra città.
                                                                         (traduzione dallo spagnolo di Stefano Biancu)

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