Che cosa è la “sostanza” del depositum fidei?


L’anniversario del Concilio Vaticano II, che celebriamo dall’ottobre scorso, trova la sua origine nel famoso discorso “Gaudet Mater Ecclesia” di Giovanni XXIII. Giuseppe Ruggieri, in un importante articolo di circa 10 anni fa (Esiste una teologia di papa Giovanni?, in Un cristiano sul trono di Pietro. Studi storici su Giovanni XXIII, a cura della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna, Servitium editrice, Bergamo 2003, pp. 253-274. ) ha studiato accuratamente una delle espressioni centrali di quel discorso, che si presta ad essere facilmente fraintesa. Ascoltiamolo in questo passaggio centrale della sua considerazione critica e filologica del famoso discorso. Il brano è qui riportato senza le abbondanti e preziose note, per le quali si rimanda all’originale. 

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La sostanza del depositum fidei

E’ molto nota l’affermazione che papa Roncalli fece in Gaudet Mater Ecclesia sulla necessità di distinguere la “sostanza del deposito della fede” dal suo rivestimento. Quella distinzione era funzionale al rinnovamento della dottrina. Con una contrapposizione cara a Roncalli (l’abbiamo già vista a proposito della chiesa che non è un museo ma un giardino da coltivare), la GME insisteva sul fatto che nei confronti della dottrina, l’atteggiamento della chiesa non può essere di pura custodia, ma di promozione. Il motivo della insufficienza di una mera custodia della dottrina è martellante e ritorna almeno 5 volte (LL. 502-503; 513;; 653ss.; 759; 801ss.): non si tratta di ribadire questo o quel punto dottrinale, ma “occorre un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze, in corrispondenza più perfetta della fedeltà all’autentica dottrina”. Proprio l’autenticità della dottrina richiedeva il balzo innanzi. Questo significava porre la pastorale, non come momento di un adattamento successivo della dottrina già formulata, ma come momento costitutivo della dottrina stessa della chiesa. Infatti occorre distinguere tra la sostanza della dottrina e la formulazione che la riveste. E’ del rivestimento che “un magistero a carattere prevalentemente pastorale” deve tener gran conto. La storia attuale con le sue esigenze diventa il luogo in cui deve essere infatti colto un “postulato” essenziale alla dottrina della chiesa: la dottrina deve essere studiata ed esposta ea ratione quam tempora postulant nostra”: ll. 802-808 . La connotazione pastorale è, in questa visione, inserita all’interno, come esigenza intrinseca alla dottrina perché se ne renda presente la sostanza nel tempo: pastorale come ermeneutica storica della verità cristiana.”
Io vorrei qui, a chiarimento del pensiero di papa Roncalli, rileggere 4 documenti […] (con più ampiezza il primo e solo di striscio e marginalmente gli altri), giacché sono convinto che in lui ci siano appunto delle costanti e che occorre leggere i testi su un arco quanto più vasto possibile diacronicamente. E vorrei iniziare proprio dal termine sostanza. La tentazione di vedere nella dialettica tra sostanza del deposito della fede e rivestimento una dialettica analoga a quella aristotelica tra sostanza e accidenti è infatti alla portata di mano.  Il pensiero di Roncalli su questo punto verrebbe quindi omologato a quello dei teologi che distinguono tra ciò che essenziale e ciò che è mutevole, in una prospettiva tutto sommato essenzialista. E’ quindi necessario, nella misura in cui i testi lo permettono, il ricorso ad un’analisi quanto più accurata possibile.

Iniziando dal testo primo cronologicamente tra quelli da noi specificamente considerati (18 febbraio 1956), la lettera pastorale su Lorenzo Giustiniani  notiamo come il termine sostanza emerga nella prima parte della lettera diverse volte e in termini quanto mai istruttivi. Già nelle prime pagine del documento troviamo affermazioni significative.
Dapprima parlando delle opere di Lorenzo Giustiniani, Roncalli dice che esse “sono tutte penetrate e si direbbe stillanti la sostanza viva di un altro volume – la Sacra Bibbia” (330)
Poi, dopo aver affermato che la Bibbia, di fatto, nell’uso liturgico, è presente ai cristiani nel Messale e nel Breviario, Roncalli dice che essi sono “sostanza viva di dottrina perfetta, che sopravanza ogni altro insegnamento offerto all’uomo a sua direzione.” (331).
Il terzo uso del termine, sempre nelle pagine iniziali del documento, è invece cristologico e biblico al tempo stesso. Si dice infatti che il Nuovo Testamento, si innalza come su preziosissime pietre, sopra i 45 libri dell’Antico, per costituire “l’insieme del grandioso monumento delle relazioni divine con l’umanità, quando il verbo Divino la venne a ricercare sulle frontiere del nulla per risollevarla allo splendore della sua stessa sostanza” (ivi).
Il termine sostanza è quindi accompagnato per ben due volte dall’aggettivo viva e, un’altra volta, nello stesso documento, si userà un’endiade: sostanza e luce (341). L’immagine dello “stillare” impiegata nel primo dei testi, evoca nella lingua italiana lo stillare della rugiada o del miele. E, ancora, con immagini legate alla penetrazione delle acque in un tessuto, nella seconda parte della lettera Roncalli afferma che le opere dei padri “trasudano dalle loro pagine le parole, i sensi, lo spirito, gli ardori e la tenerezza del testo sacro” (341).
“Sostanza” quindi per Roncalli, nell’uso concreto che egli fa del termine quando esso viene rapportato al contenuto della dottrina cristiana, non corrisponde alla categoria aristotelica. Le immagini da lui usate vanno piuttosto nella direzione di ciò che nutre l’uomo, lo alimenta, gli dà vita e luce.
Sorprende in questo senso che egli non senta il bisogno di identificare questa sostanza a nessuna formula rigida, ma che per lui essa sia identica alle “parole, i sensi, lo spirito, gli ardori e la tenerezza del testo sacro”.
Ed è allora chiaro il ritorno dell’immagine della sorgente. Se sostanza è ciò che alimenta, allora, con l’associazione all’acqua pura di una sorgente, si dice che la “dottrina” cristiana sia “polla scaturiente” dalla ricchezza della sapienza divina contenuta nelle scritture. Dove occorre prestare attenzione all’ossimoro. Giacché ciò che “scaturisce” non è propriamente polla=sorgente.  Esiste quindi una forzatura dell’espressione sempre per sottolineare evidentemente la funzione del dissetare che è propria di una sorgente. Se quindi la dottrina mantiene dentro di sé la freschezza e la purezza delle acque della Scrittura e questa a sua volta quella della sapienza divina, è quasi naturale parlare sempre di “sorgente”.
Sostanza della dottrina cristiana è ciò che è in grado di alimentare la vita dei cristiani. Il suo rivestimento letterario a questo punto non è un “accidente”, proprio perché la “sostanza” non è la sostanza opposta agli accidenti di aristotelica memoria. Il rivestimento letterario in evoluzione corrisponde invece alla perenne giovinezza della chiesa, alla sua caratteristica di giardino sempre da coltivare. Il rapporto tra sostanza della dottrina e suo rivestimento, più che nel contesto della logica aristotelica, va quindi posto in quello, evidenziato dalla linguistica, del rapporto tra significante (rivestimento letterario) e significato (dottrina).
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