Introversa Ecclesia – un instant book sulle nostalgie tridentine


Ieri è stato pubblicato in Brasile il volume

Andrea Grillo, Igreja Introvertida: Dossiê sobre o Motu Proprio “Summorum Pontificum”, “Cadernos Teologia Pùblica”, 8(2011), n.56 (INTROVERSA ECCLESIA. Dossier sul Motu Proprio “Summorum Pontificum”)

Pubblichiamo qui la pagina finale

Epilogo: per una chiesa non introversa

Alla fine , la questione liturgica sottesa agli strani provvedimenti degli ultimi anni a proposito del “rito romano” sembra superare la liturgia stessa, e perfino la ecclesiologia , per presentarsi, ultimamente come questione logica e come questione antropologica.
E’ anzitutto una questione logica, poiché presume di poter identificare la continuità del rito romano con la contemporaneità di diverse forme del medesimo rito. Ciò che rende significativa la continuità di una tradizione non è la convivenza in tempi diversi di forme storiche diverse, ma la trasformazione nel tempo del medesimo rito in forme necessariamente diverse. Per questo la pretesa che la continuità della tradizione possa essere assicurata dal rito del 1970 contemporaneamente al rito del 1962 è anzitutto un errore logico.
Ma è anche una grave forma di ristrettezza antropologica. La pretesa di imporre a tutta la Chiesa Universale le angustie comportamentali e le forzature esistenziali della Curia Romana mi sembra ultimamente l’aspetto più singolare di tutta questa vicenda. Gli ufficiali di Curia, come si sa, spesso per molti decenni sono costretti ad una “vita di ufficio” che impedisce loro di avere rapporto con comunità ecclesiali “reali”. Così, per esercitare una prestigiosa funzione di potere e di servizio, finiscono per celebrare quasi sempre l’eucaristia “senza popolo”. Solo uomini con una tale formazione (deformata) possono concepire, stendere e firmare documenti che cominciano a parlare dell’eucaristia a partire dalla “missa sine populo”. Questa categoria – che come categoria residuale rimane nell’uso ecclesiale – può diventare categoria portante dell’esperienza solo per queste “categorie” di preti e vescovi, antropologicamente segnati dalla vita curiale. Per tutto il resto della Chiesa, il 99,90% , tale impostazione o è irrilevante o è preoccupante o è disturbante.
Con tutto il rispetto e il riconoscimento per la funzione che la Curia Romana svolge nella vita della Chiesa, non è sbagliato chiedere ad essa che non pretenda di estendere le proprie abitudini, forse inevitabili, alla vita della Chiesa non curiale e che non desideri, con leggi universali, coprire e giustificare le proprie peculiarità troppo particolari o, meglio, troppo extra ordininem.
A ciò bisogna aggiungere un’ultima considerazione: il Motu Proprio Summorum Pontificum prevedeva, già una verifica del triennio ad experimentum, nella quale sono stati coinvolti tutti i vescovi della Chiesa universale. Di fatto la Istruzione “Universae Ecclesiae” sembra recepire i risultati di questa verifica. Ma è legittimo chiedersi se davvero la verifica ci sia stata. Perché da un lato è molto facile che il regime di “comunione nel silenzio” abbia suggerito a molti vescovi di tacere le situazioni di grave disagio che il Motu Proprio ha creato nelle proprie diocesi. Ogni denuncia avrebbe potuto suonare, indirettamente, come una critica al Papa. D’altra parte è altrettanto facile che gli organi preposti ad accogliere le osservazioni dei Vescovi abbiano letto in modo trasversale e orientato le stesse dichiarazioni dei Pastori delle Chiese locali. Insomma, l’intera vicenda non fa onore alla comunicazione nella Chiesa cattolica romana e solleva in modo inaggirabile la questione di come si debba esercitare la comunione nella chiesa, con le diverse e preziose istanze del magistero papale, del magistero episcopale e del magistero teologico, ognuna con la sua funzione e con la sua dignità. Di questo equilibrio ha bisogno una Chiesa che possa fare del rispetto nella sincerità una forma alta e irrinunciabile di comunione. Solo così potrà essere non introversa, ma davvero universa.

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