Nel dibattito aperto da “Universae Ecclesiae”


La Riforma Liturgica: una discontinuità non rivoluzionaria
Alcune precisazioni
di Andrea Grillo
Poiché nelle ultime settimane si sono moltiplicate le prese di posizione intorno al tema della Riforma Liturgica e del ruolo del la Tradizione rituale per la fede cristiana, è bene cercare di precisare, con tutta la serenità necessaria, e fuori da ogni spirito polemico, alcune grandi questioni di fondo, sulle quali è facile fare affermazioni che, a causa dello loro unilateralità, costituiscono poi la premessa di molte conseguenze inopportune o dannose addirittura.
La Riforma liturgica non è e non vuole essere una “rottura” della liturgia cristiana, ma vuole garantire la continuità con la grande tradizione originaria del pregare e del celebrare cristiano i fronte a una crisi che in Europa ha toccato la liturgia dalla fine del 1700. Non è il 1968 l’inizio della crisi, ma il 1790 o il 1833. Tuttavia, per sostenere questa tesi, occorre maturare uno sguardo molto equilibrato. Perché non bisogna cadere nella tentazione di contrapporre, drasticamente, continuità e discontinuità. La Riforma è la coscienza maturata nella Chiesa – e che non si può improvvisare – circa la necessità di favorire la continuità mediante una certa discontinuità. Poiché se è vero che la Riforma vuole realizzare una continuità più autentica e più efficace della Tradizione, è altrettanto vero che può realizzare questo obiettivo solo a costo di alcune decisive discontinuità. Bisogna infatti ricordare che una Riforma, se vuole essere tale, deve cambiare alcune cose importanti, dalle quali dipende il senso stesso della Tradizione. Una Riforma che non toccasse minimamente la prassi rituale della Chiesa, che non incidesse sui suoi riti, sulle sue priorità, sulla lingua o sulla relazione ecclesiale, sarebbe una Riforma falsa o la negazione stessa della Riforma. Se si decide di fare una Riforma, ma può anche non cambiare nulla, allora è evidente che si entra in una regione della incertezza che non si può più chiamare Riforma.
D’altra parte è giusto ricordare che la giusta ermeneutica del Concilio, richiamata anche da Benedetto XVI in un noto discorso alla Curia Romana nel 2005, non contrappone discontinuità a continuità, ma discontinuità a Riforma. Il che si potrebbe tradurre in questo modo: quando si tratta di fare i conti con la Tradizione in un passaggio critico, la discontinuità necessaria è quella della Riforma, non quella della rottura. Anche in questo caso la continuità, se la tradizione è in crisi, può mantenersi solo a costo di una certa discontinuità.
Su questa base è sorprendente notare come nella argomentazione spesso si voglia equiparare la “non rottura” necessaria a ogni vera Riforma con la considerazione secondo cui non c’è antitesi tra le due forme del rito romano, del 1962 e del 1970. In realtà dalla premessa che abbiamo pacificamente acquisito non discende affatto questa pretesa conseguenza. Se si fa una Riforma, ciò che viene cambiato non è più come prima. Ma questa discontinuità, che non si può negare senza negare l’idea stessa di Riforma, non può essere compatibile con la sopravvivenza di quella prassi che appunto si è voluto modificare. Qui siamo di fronte ad un problema che non è tanto liturgico o ecclesiale, ma logico. Provo ad affrontarlo partendo da più lontano. Nella lettera inviata ai vescovi nel 2007 in occasione del motu proprio, il Papa ha detto: “Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande”. Il papa ha ragione se ci chiede di restare ben piantati nella dinamica di una storia che si articola nello spazio e nel tempo: nella successione storica delle due forme non c’é nessuna contraddizione tra rito vecchio e rito nuovo. Ma appunto, solo nella successione temporale di due forme diverse! Se invece si pretende di far convivere nella stessa unità di spazio e tempo queste due forme, senza subordinarne una all’altra in modo netto e definito, si perde immediatamente l’orientamento e così anche il senso della tradizione. La Riforma liturgica è stata un atto necessario, un passaggio che la Chiesa ha avvertito e giudicato, al suo più alto livello, conciliarmente, come evento decisivo della propria identità, mentre la cosa grave è che oggi Universae Ecclesiae, e già prima Summorum Pontificum, la riducono a una opzione semplicemente possibile. Qui sta una differenza delicatissima, sottile come un capello, ma assolutamente decisiva. Se si riconosce la necessità storica della Riforma non si può affiancarle di nuovo quel rito che essa ha voluto e dovuto intenzionalmente superare. Questa non è “rottura”, è vita, è sviluppo organico, è logica giuridica e vitale delle istituzioni. Quando si facesse questa concentrazione contemporanea di una successione storica, si altererebbe irrimediabilmente tutto il senso e l’impatto dell’atto di riforma. D’altra parte, bisogna dire che se oggi ci si preoccupa di evitare che la tradizione subisca “rotture”, bisogna evitare anche di procurarne di peggiori: se la polemica sulle “ermeneutiche del concilio” è ricondotta alla sua vera intenzione, è facile vedere come non si tratta di contrapporre continuità e discontinuità, ma di contrapporre due diverse accezioni di discontinuità (ossia la Riforma e la discontinuità tout court!). Ogni Riforma introduce un certo grado di discontinuità per poter garantire un più profonda e autentica continuità.
Mi si permetta di fare un esempio, non liturgico, ma disciplinare, per rendere più chiaro il mio discorso. Pensiamo a che cosa fu la Riforma tridentina dell’episcopato, segnata dalla introduzione dell’obbligo di “residenza”. E’ certo una grande discontinuità rispetto alle prassi dei secoli precedenti. Proprio questa discontinuità, difesa e promossa per decenni e per secoli, ha prodotto lentamente una diversa visione dell’episcopato, meno amministrativa e più pastorale, meno imperiale e più paterna, meno prefettizia e più liturgica. Che cosa sarebbe accaduto se con un Motu Proprio, un Papa della seconda metà del 600 avesse affermato che la “non residenzialità” non era mai stata abrogata e che quindi, a loro scelta, i vescovi avrebbero potuto risiedere o non risiedere nella loro Diocesi, a seconda dei loro affetti, attaccamenti o appartenenze? E’ovvio, si tratta solo di un esempio per mostrare la contraddittorietà – anzitutto logica e strutturale – di una contemporanea assunzione di prospettive tra loro compatibili nel divenire della storia, ma che risultano del tutto incompatibili se assunte contemporaneamente.
E’ vero, la storia non è un insieme di spaccature, ma non è neppure un accumulo di forme diverse: se nel divenire garantiscono la continuità, quando invece vengono assunte come contemporanee creano solo una crescente confusione e un grande pasticcio. La continuità della identità del rito romano oggi viene garantita dai riti della riforma liturgica, non dalla giustapposizione di questi con quelli che, a causa dei loro limiti, sono stati sostituiti dai nuovi. C’è una chiara visione dello sviluppo organico del rito romano solo se si procede secondo questo sviluppo storico, rispettandone la diacronia che è vita, non invece se lo si considera astrattamente sul piano di una astorica contemporaneità di forme tutte ugualmente disponibili. Se il modello è quello della crescita organica, nell’adulto c’è il bambino, ma la continuità è garantita non dalla compresenza di membra bambine e adulte, di linguaggio bambino e adulto, ma nell’assumere, da parte dell’adulto, la ricchezza della propria infanzia, lasciandone cadere i limiti, le fragilità e le inconseguenze.
Altro è il discorso a proposito di ciò che viene definito, anche ufficialmente, il disegno di “Riforma della Riforma” che questi ultimi documenti (Motu Proprio “Summorum Pontificum” e Istruzione “Universae Ecclesiae”) vorrebbero cominciare a determinare. Mi pare che siano emerse, dalle recenti parole del Card. Koch, alcune affermazioni che meritano una attenzione critica. La condizione di parallelismo tra due forme dello stesso rito è riconosciuta del tutto innaturale per la Chiesa. Essa crea disagio, soprattutto perché i due riti non sono un parallelismo di lunga data e di ampia esperienza, ma sono il risultato di una Riforma molto recente, in cui il rito nuovo ha voluto, intenzionalmente, sostituire il precedente. E’ però sorprendente che il progetto di giungere ad un “nuovo rito comune”, che superi il dualismo, dovrebbe scaturire da questa fase – lunga e defatigante – di grande e innegabile disorientamento, che anche il card. Koch riconosce ma che preferisce descrivere in modo idealizzato come “mutuo arricchimento”. Vi è dunque, anche qui, una sorta di contraddizione: il dualismo di forme rituali crea imbarazzo, ma da questo imbarazzo progressivo dovrebbe scaturire quel chiarimento che permetterebbe, non si sa quando, una nuova unità. Strano ecumenismo intra-ecclesiale, che per chiarirsi le idee, sembra volerle conondere del tutto, sottraendo alla pastorale quelle evidenze e quelle direttrici sicure, che la grande stagione conciliare non cessa di suggerire.
Infine, una parola sulla Riforma liturgica come inizio o come fine. Mi sembra di dover concordare del tutto sul fatto che la Riforma Liturgica non è una fine, ma un inizio. Si può dire anche così: la riforma liturgica è necessaria – non opzionale – ma non è sufficiente, bensì deve compiersi in una formazione/iniziazione che i nuovi riti devono operare sul corpo della Chiesa. Riforma Liturgica non è più tanto la riforma che la chiesa fa dei propri riti, ma la riforma che i riti sanno fare della Chiesa. Per questo, però, non è necessario un “Nuovo movimento liturgico”. E’ necessario continuare il Movimento liturgico che per molti decenni ha preparato il Concilio e la Riforma, che poi si è espresso nel preparare i testi della Riforma Liturgica con tutte le competenze necessarie, e che infine oggi, con un compito ancora più complesso e prezioso, deve ridare parola e azione ai riti stessi. Anche in questo trovo che ci debba essere un bella continuità, tra coloro che hanno preparato e coloro che oggi attuano la Riforma. Non è vero che ci sia in questo una rottura necessaria. Non è vero che molti di coloro che hanno fatto la Riforma oggi si siano pentiti. Io non ne conosco uno. Chi sono? Dove sono? Non è vero che si debba ricominciare daccapo a Riformare. E’ vero invece che la Riforma ha bisogno di una terza fase dell’unico Movimento Liturgico, che nello sviluppo organico di questo ultimo secolo, non senza difficoltà, ieri come oggi, cerchi di mantenere in comunicazione il passato con un presente aperto al futuro di Dio. In tutto questo restiamo convinti che occorra onorare la memoria di ciò che è avvenuto nella Chiesa cattolica in questi ultimi 50 anni. Ma possiamo farlo solo in quello Spirito che grazie al Concilio Vaticano II “abbiamo visto chiaramente passare tra noi (e chi ora lo nega, e c’era, purtroppo sa bene che cosa fa: la sua parlata lo tradisce)” (Pierangelo Sequeri).
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