a proposito della “pazienza di Giobbe”


Quando Giobbe perse la pazienza.

Il proverbio, la Scrittura e la crisi del “buon senso”
“La pazienza è il lungo respiro della passione. Ogni grande passione ha bisogno della pazienza e ne deve essere degna. E la vera pazienza è l’esatto contrario della resa senza passione o della rassegnazione. Vera pazienza è sempre passione spiritualmente approfondita”
E. Juengel
Se si cerca su Google una definizione del proverbio “avere la pazienza di Giobbe”, si trova questa sorprendente definizione:
“Essere molto pazienti, sopportare con rassegnazione molestie, ingiustizie e tribolazioni. Giobbe, principale personaggio dell’omonimo libro della Bibbia, è la personificazione del giusto che soffre mentre i malvagi prosperano, e che tutto sopporta inchinandosi al volere di Dio.”
Non solo la sapienza popolare, ma anche numerosi e autorevoli esponenti della grande tradizione teologica hanno avvalorato questa versione unilaterale del Giobbe paziente. E’ tuttavia significativo che questa tradizione faccia riferimento esclusivo ai primi due capitoli del libro biblico. Tutto il resto del testo è come se fosse compreso e inghiottito in quell’inizio, quasi come una semplice esemplificazione accessoria di un luminoso esempio – morale – di sopportazione del male, di rassegnazione alla sconfitta, di perdita tragica di tutti i beni, di tutti i figli, della salute del corpo e della serenità dell’animo. Vi è, lungo questa china, un grande pericolo, cui tutta la Scrittura è stata sottoposta nel corso della tradizione: ossia di perdere il testo e il contesto, e di riferirsi a Giobbe semplicemente come a un “pretesto” per la affermazione di un “pri ncipio” che poco o nulla ha a che fare con il testo e con lo stesso personaggio chiamato in causa.
A chi cerca, invece, di lasciarsi condurre non soltanto dalla tradizione della sapienza proverbiale, ma anche dal tenore effettivo del testo biblico, nella sua irriducibile conplessità, appare subito evidente che Giobbe non è affatto riducibile a quel modello di pazienza che risulta implicitamente avvalorato dalla definizione fornita dal nostro “motore di ricerca”: egli infatti, a partire dal capitolo 3 del libro biblico, comincia una lunga perorazione, nella quale cambia il suo atteggiamento. Diremmo noi che nell’ansia di ricevere giustizia, Giobbe sembra “perdere la pazienza”, almeno nel senso che il suo comportamento non rientra più nel modello di azione e di reazione “paziente” formulato dalla definizione esaminata sopra. Proprio qui si apre il passaggio ad una lettura più piena e complessiva non solo del testo biblico, ma anche del proverbio popolare. Giobbe risulta un personaggio tanto autorevole proprio perché sa mutare la nostra esperienza della pazienza. Ma può farlo purché siamo davvero disposti ad ascoltare lui, nella sua imprevedibilità, e non siamo disposti a dare ascolto soltanto ai nostri giudizi segreti e ai nostri pregiudizi inconfessati.
Dobbiamo riconoscerlo: l’impressione che lascia sul lettore quel famoso inizio, in cui Satana ottiene da Dio la possibilità di tentare Giobbe nei beni, nei figli e nel corpo, e la resistenza “paziente” di Giobbe agli insulti della sorte, hanno fatto storia e plasmato la tradizione. Giobbe si sovrappone qui all’idea stoico che Orazio ha così bene descritto: “impavidum ferient ruinae”. Tutto il resto è stato letto alla luce di quell’inizio. In realtà Giobbe appare una figura molto più complessa, se è vero che per circa 36 capitoli chiede conto a Dio di ciò che gli è accaduto. Certo, resiste alle logiche della moglie e degli amici, che rileggono la sua vicenda secondo “teologie di un evidente buon senso”: la logica della non riconoscenza, della ammissione di colpa, della retribuzione, della colpevolizzazione della vittima trapelano potenti dalle parole di apparente conforto pronunciate dagli amici. No, Giobbe resiste a questa tentazione, ma non si può dire che sia, in quanto tale, un “modello di pazienza”, almeno nel senso che il termine ha assunto negli ultimi secoli di cultura, anche cristiana.
Diremmo quasi che, se Giobbe dovesse proprio essere riconosciuto come modello di “uomo paziente”, secondo quanto dichiara ingenuamente lo stesso proverbio popolare che consideriamo, la nostra esperienza della pazienza sarebbe costretta a mutare drasticamente rotta, a convertirsi ad una logica diversa, meno semplice e più articolata. Di fronte a Giobbe il nostro vocabolario dovrebbe essere corretto, il nostro cuore dovrebbe sentirsi trafitto, il nostro sguardo avrebbe da purificarsi e le nostre orecchie da affinarsi. Perché Giobbe, in ultima analisi, è sicuro modello di una “certa” pazienza, ossia della resistenza alla tentazione, ma non della pazienza intesa come rassegnazione o passività. E’ la pazienza teologale in gioco, non la pazienza morale.
Possiamo allora molto brevemente ripercorrere la vicenda di Giobbe nella sua integralità scritturistica (1) e poi confrontarla con l’esito proverbiale (2) per trarne infine conclusioni tanto brevi quanto sorprendenti (3).
1. La protesta di Giobbe: il testo biblico e l’amnesia della tradizione
Il libro di Giobbe non lascia dubbi: in esso non vi è traccia alcuna di una “sopportazione con rassegnazione”, come vorrebbe l’incauta definizione che il “senso comune” fa circolare con disinvoltura nella rete informatica. Anzi, il profilo del personaggio è disegnato con potenza poetica proprio all’interno di una tensione fortissima tra la accettazione di un destino di perdita radicale (dei beni, dei figli, della salute) e la passione con cui a Dio è chiesta ragione di tutto questo . Alle spalle di Giobbe lo scenario è terribile: una insolita alleanza tra Dio e Satana per “tentare” il giusto non rassicura il lettore. Ma Giobbe non ci sta. In Giobbe la “resa” è strutturalmente congiunta e non separabile dalla “resistenza”. La “proverbialità” di Giobbe è messa subito in questione: già dal capitolo 3 del libro Giobbe non conferma affatto il modello di pazienza del senso comune, anzi lo sovverte e lo disarma. Pazienti – nel senso comune del termine – sono piuttosto gli amici di Giobbe, non lui. E Giobbe non fa altro che contestare duramente quelle logiche come troppo impazienti di arrivare a una soluzione, di trovare un colpevole o almeno una morale. No, egli resiste, in nome di una “altra pazienza”, di una pazienza altra e diversa .
La resa di Giobbe davanti a Dio viene soltanto ben 37 capitoli più avanti, dopo una “resistenza” smisurata. E’ resistenza “nella fede”, che lo porta a maledire la sua nascita, a chiedere conto al Signore, a chiamarlo in giudizio, a protestare la propria innocenza. Dio, intervenendo alla fine del libro, spiazza Giobbe, lo riconduce ad una origine più alta e a una logica più sottile. Ma Dio spiazza ancor più gli amici, ai quali chiede di rendere onore a Giobbe, alla sua speranza contro ogni speranza, alla sua nobile resistenza. Giobbe riappare “paziente” solo al capitolo 42, nell’epilogo. Ma la condizione di questa nuova “pazienza spassionata” – che piace tanto al lettore borghese, che, come direbbe Kierkegaard, può allungare le gambe sotto il tavolo, mentre fuma la sua pipa – è il pathos pieno di urgenza e sollecitudine, che ha dato parola a Giobbe nella sofferenza, nell’abbandono, nella derelizione, contro cui egli ha protestato con una forza e una lucidità senza pari. Certo, ora egli sa che si era rivolto a un Dio “conosciuto solo per sentito dire”. Ora sa che “tutto si può sopportare” nell’amore di Dio. Ma si può sopportare solo perché non si è rassegnati, ma si resta vigilanti, pronti, dipendenti, capaci di novità .
2. Il pretesto proverbiale: letture parziali e facili fraintendimenti della storia
Nonostante tutto questo, dobbiamo chiederci, ancora: come siamo arrivati a questa nostra lettura “semplicistica” della pazienza, che la equipara alla rassegnazione? Forse una linea ermeneutica feconda può essere quella che ci viene suggerita con acume da E. Juengel , quando rilegge le “sfortune teoriche” del concetto di “passione” come orizzonte della incomprensione della “pazienza”: secondo queste dinamiche il cosiddetto “buon senso” giudica delle cose per così dire “in contumacia”, nell’assenza di una esperienza autentica e piena delle cose stesse, facendo agire pre-giudizi che distorcono strutturalmente l’accesso al reale. Il pregiudizio che per lungo tempo ha gravato sulla compresione “media” della pazienza potrebbe essere formulato così:
“l’io appassionato per definitionem sembra essere impaziente, il paziente invece spassionato” .
A seguito di questa lettura del rapporto tra passione e pazienza – nel quale sembra prevalere la reciproca esclusione – può aver prevalso quel “giudizio segreto della ragione comune” che ci impone di comprendere la pazienza come rassegnazione e la passione come impaziente. Di per sé, questa evoluzione della tradizione, che sarebbe facile scoprire in una ripresa moderna del tema, alla luce di una rinascita della influenza del pensiero stoico sulle logiche, anche cristiane, del buon senso, ha costretto a pensare a Giobbe nei termini di una “pazienza spassionata, rassegnata, mere passiva”. Con questo criterio, tuttavia, il libro biblico, nella sua complessità, risulta pressoché inaccessibile, ermeticamente chiuso, quasi come un inutile e stravagante ampliamento – lungo 40 capitoli – di ciò che di essenziale possono dire soltanto i primi due, che sono gli unici capaci di rientrare – non senza qualche grave forzatura – nel modello teorico della “pazienza spassionata”. Ha detto Agostino, nel De patientia: “Dio è paziente senza patire”: questa è una delle sorgenti della nostra incomprensione della “pazienza di Giobbe” . Dopo di lui sia Kant che Hegel, per quanto su fronti opposti, non sono riusciti a comprendere quel profondo legame tra “passione” e “pazienza” che struttura così potentemente la figura e il messaggio di Giobbe . La riscoperta del testo biblico, in tutta la sua ricchezza, ci permette oggi di scoprire un altro Giobbe e una diversa pazienza.
3. Conclusioni: la protesta non-indifferente della pazienza contro la indifferenza triste della rassegnazione
La via della pazienza non ha gli abiti della moderazione, né quelli della temperanza, né quelli della buona educazione. Giobbe è paziente in una forma sorprendente, quasi scandalosa. Resiste nella protesta, nella ribellione, nella ostinazione. Pazienta con passione. La sua è la “pazienza del pathos”. Come ha scritto Elie Wiesel, Giobbe “può essere con Dio, talora contro Dio, ma mai senza Dio” . La sua pazienza è questo “mai senza”, che è invece tanto difficile per la moglie, per gli amici, potremmo quasi dire per ogni lettore comune e per bene, che resti sordo alla logica profonda della storia terribile dell’uomo di Uz.
Giobbe, dal capitolo 3, “perde la pazienza”, che recupererà solo in seguito ai due grandi discorsi con cui Dio si manifesta, dopo lungo silenzio, alla fine del libro. Questo lungo deserto della “impazienza” appare subito grande e terribile all’occhio del lettore che non si fermi nella lettura ai primi due capitoli. Questo sviluppo sorprendente non rientra affatto nel modello di “uomo paziente” che la tradizione degli ultimi secoli ha costruito e suggerito al comportamento e alla meditazione. Qui si colloca la nostra rilettura possibile, ma ardua, del proverbio di senso comune: “avere la pazienza di Giobbe” non significa coltivare la rassegnazione, non significa scadere nella dimissione, non significa semplicemente “arrendersi”. Significa sempre anche “lottare”, “resistere”, non cedere, riaffermare la propria identità, a ogni costo.
Riavere i beni, i figli e la salute, alla fine, per Giobbe, non equivale alla ricompensa di chi si rassegna spassionatamente, ma alla riconciliazione con il Dio creatore e redentore, nel quale egli aveva continuato ad avere fede, a sperare, lottando e imprecando con una “spes contra spem”. Una fede appassionata, una speranza viva, un amore smisurato sono lo sfondo e la ragione prima di questa “pazienza” altra. Come ha detto lucidamente E. Juengel “la pazienza è il lungo respiro della passione. Ogni grande passione ha bisogno della pazienza e ne deve essere degna. E la vera pazienza è l’esatto contrario della resa senza passione o della rassegnazione. Vera pazienza è sempre passione spiritualmente approfondita” .
Avere la pazienza di Giobbe, dunque, non è comprensibile se non alla luce della complessità del personaggio, animato da questa invincibile passione per Dio. Il “nome” di Giobbe potrebbe garantire, anche oggi, persino al nostro proverbio, di non cadere nella affermazione del suo contrario, ossia in una sorta di arbitrio del senso comune, che volesse trascinare Giobbe in una logica “spassionata” e “apatica” che lui sarebbe il primo a criticare con durezza e con sdegno.
Credo che non dovremmo mai avere l’ardire di sottoporre Giobbe a questa ulteriore prova. E perciò, in conclusione – parafrasando una famosa battuta che Kant riprende dall’Abate Terrasson, nella prefazione alla Critica della Ragion pura, a proposito della “lunghezza dei libri” – dovremmo poter risconoscere facilmente la verità di questo piccolo gioco di parole:
“se misurassimo la pazienza delle persone, non già dalla capacità che hanno nel rassegnarsi a sopportare il male, ma dalla forza con cui sanno restare fedeli ad una esigenza invincibile di verità anche di fronte alle peggiori avversità, allora di molti uomini dovremmo dire che sarebbero molto più pazienti, se non fossero così pazienti”.
Share