Pastorale ecclesiale e divorzio civile: una relazione pericolosa?


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Non ex humano arbitrio pendet” (GS 48)

Pastorale ecclesiale, fallimenti matrimoniali e divorzio civile

Nel dibattito successivo al viaggio apostolico in America di papa Francesco è riemerso un punto assai delicato della discussione intorno alle “sfide pastorali” che la famiglia lancia al mondo contemporaneo. Le domande rivolte dai giornalisti a Francesco durante il viaggio di ritorno a Roma hanno sollevato la questione: “esiste il pericolo di un ‘divorzio cattolico’”?

I criteri per una risposta ponderata possono essere i seguenti:

a) uscire dalla psicosi del “piano inclinato”: forse costruita ad arte, forse fondata su sensibilità reali, mescolate a pregiudizi, è certo che esiste un falso ragionamento che potremmo così riassumere. Ogni modifica della disciplina incide sulla dottrina; e ogni mutamento della dottrina mette in dubbio la verità. E’ evidente che per questo modo di ragionare, la semplice riforma del processo canonico può essere letta – come hanno fatto diversi settori della opinione pubblica, non solo ecclesiale – come “divorzio cattolico”. E’ giusto ricordare che la “teoria del piano inclinato” non solo non vale come criterio generale, ma rischia di paralizzare apologeticamente e fondamentalisticamente ogni identità. A ragione si è messo in luce che “evocare la rottura della unità della Chiesa” o il “divorzio cattolico” per scongiurare ogni pur minima variazione della disciplina è un modo del tutto inadeguato di “stare responsabilmente nella tradizione”.

b) non creare false corrispondenze e imparare l’arte delle distinzioni: la tradizione ecclesiale sul matrimonio ha sempre saputo avvalersi di raffinate distinzioni. Lo ha fatto nella Chiesa antica, in quella medievale e in quella moderna. Perché mai dovrebbe rinunciarvi proprio oggi? Perché dovremmo cedere al fondamentalismo o al massimalismo che contrappone, brutalmente e ingiustamente, Dio o niente? L’ombra lunga di un approccio “antimoderno” continua a incidere sul modo di considerare le “forme di vita” che oggi abitano il mondo e la Chiesa. La tradizione non si può capire mettendo a confronto, semplicisticamente, Dio e l’uomo. Questo vale per tutto, ma soprattutto per il matrimonio!

c) incontrare le persone concrete, all’interno di principi condivisi: i soggetti concreti, i loro volti, le loro coscienze e le loro storie, non si lasciano comprendere con criteri semplicemente astratti. La fatica di “stare con le persone”, piuttosto che guardarle “dal balcone” è reale e viene da una tradizione che si è “accontentata di avere criteri di giudizio astratti”. Oggi questo non ci basta più. La questione non è se “ammettere un divorzio cattolico”, ma “come riconoscere la comunione vissuta da soggetti in seconde nozze”. Questo è il punto decisivo, che non si lascia risolvere evocando fantasmi.

d) ritornare al fondamento del “sacramento” e al suo rapporto con natura e cultura: la benedizione di Dio sul matrimonio non può tradursi in una maledizione. Un uso “estrinseco” del sacramento – ossia senza alcun rapporto con i vissuti reali dei soggetti – rischia di capovolgerne il senso e di tradurlo semplicemente in un “principio dell’ordine sociale”. Il matrimonio è anche desiderio e anche ordine sociale, ma come sacramento è “dono” e “mistero”. Il legame ha tanti volti: è “di desiderio”, è “coesione sociale” ed è “vocazione di fede”. I rapporti tra queste diverse dimensioni non sono né lineari né gerarchici. La Chiesa del passato sapeva bene tutto ciò. Siamo ancora in grado di riconoscerlo? O speriamo solo di “bloccare il sistema” della vita, della storia e delle coscienze?

e) comprendere la “pastoralità della dottrina” e imparare a tradurre la tradizione: a monte di tutto questo imbarazzo sta, probabilmente, una persistente incomprensione della “pastoralità della dottrina”, così come proposta e sviluppata dal Concilio Vaticano II. Sostanza della dottrina è ciò che nutre la Chiesa. La dottrina del matrimonio, per salvaguardare la “non arbitrarietà del vincolo”, non deve essere costretta a “negare le crisi” o a “colpevolizzare i soggetti”. Le dinamiche del vincolo conoscono sia il peccato sia la malattia, hanno bisogno di forme della riconciliazione e della guarigione; ma conoscono anche la morte. La elaborazione del “lutto” nel matrimonio dovrebbe essere competenza pastorale delicatissima: se la Chiesa decide di accompagnare i soggetti che costatano la morte del loro vincolo, di seminare in questi “solchi non lineari”, perché dovrebbe essere accusata di favorire un “divorzio cattolico”? La Chiesa non accetta il divorzio, ma costata che i matrimoni possono fallire e vuole accompagna i soggetti feriti verso una possibile nuova fioritura di comunione.

f) lo stimolo del modello di linguaggio di Francesco nei “discorsi americani”: si deve notare, infine, che papa Francesco ha parlato di “divorzio” solo per rispondere a una domanda diretta durante una intervista. Avrebbe potuto metterlo a tema infinite volte, nei suoi numerosi discorsi. Ma non lo ha fatto. Perché? Io credo che ciò dipenda da una lettura pastorale della dottrina: i soggetti implicati nelle storia di crisi matrimoniali vivono la seconda unione come “adulterio continuato” o come “nuova comunione possibile”? Se anche la “samaritana” può dare la sua buona testimonianza, se anche il pubblicano può scendere dall’albero, come faremo noi a non vedere che le nostre categorie rigide trasformano in maledizione certa una possibile benedizione? La alleanza tra Chiesa e famiglia chiede molto, soprattutto alla Chiesa. Anzitutto le chiede di non parlare in modo meschino e superficiale delle cose grandi e profonde. Il linguaggio di Francesco riesce nel miracolo di restituire con le parole la loro grandezza alle cose e alle persone.

In conclusione: restare fermi sulla idea che il vincolo matrimoniale “non dipenda dall’arbitrio dell’uomo” – così come riaffermato limpidamente da GS 48 – non significa affatto che ogni variazione della disciplina giuridica o pastorale metta in questione questo principio. Anzi, il Concilio Vaticano II ci ha insegnato che restare legati a questo “dono di fedeltà” non solo non esclude, ma implica la capacità di venire incontro a tutte quelle situazioni in cui – senza che l’arbitrio sia in questione – di fatto il vincolo conosce una “crisi irreversibile”.

Accettare il “fallimento del matrimonio” non significa cedere all’arbitrio dell’uomo. Così come difendere oggettivamente la indissolubilità non significa necessariamente dar lode alla grazia di Dio

Su questo punto emerge con chiarezza il limite del dibattito attuale: la “polarizzazione” tra “dono di grazia” e “arbitrio dell’uomo” è una forzatura della tradizione tipicamente tardo-moderna, che elimina di fatto ogni spazio di “mediazione”: tra Dio che unisce e l’uomo che vuole sciogliersi dal vincolo non cè il nulla! In quella posizione delicata, sottile come un capello, ma decisiva e qualitativamente fondamentale, si colloca precisamente il Cristo, la Chiesa e i sacramenti.

Per rifiutare l’arbitrio dell’uomo non è bene ricorrere ad un “assolutismo divino”: la sapienza ecclesiale sta o cade solo nella misura in cui è capace di “dare corpo” alla mediazione cristologica, pneumatologica, sacramentale.

Tale mediazione può riconoscere che, senza che vi sia alcun cedimento al “divorzio cattolico” – a questo fantasma cui ricorrono molti spiriti paurosi e nostalgici – la Chiesa può e deve legittimamente assumersi il compito di dare risposte credibili e non ipocrite a tutti quei casi in cui un matrimonio valido, la cui esistenza originaria non è messa in dubbio, giunga a fallire.

Non si tratta qui di sconfiggere la grazia di Dio con l’arbitrio dell’uomo, ma di assumere che la grazia può prendere strade imprevedibili, contraddicendo le evidenze, al di qua e al di là dell’arbitrio dei soggetti implicati. Salvaguardando la “indisponibilità del vincolo”, è possibile riconoscere ecclesialmente la sua “fine”, il suo “fallimento”, pur nella sopravvivenza dei soggetti. Con la consapevolezza che questo male può “accadere” per colpa o senza colpa, come un peccato o come una malattia. Questa via pastorale non è “cedimento all’arbitrio”, ma “più profonda intelligenza di grazia”. Non è acquiescenza ad una “divorzio cattolico”, ma riconoscimento di una “comunione” inattesa, in quella differenza tra matrimonio e famiglia che può essere scandalo per molti, ma salvezza per non pochi.

 

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