Il Sinodo in parabole: il Figlio misericordioso e il Padre dei fratelli divorziati


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Il Sinodo è stato anche – e sarà ancora per pochi giorni – un grande racconto. Alcuni hanno parlato il linguaggio delle norme, altri quello della Scrittura, altri ancora hanno raccontato le storie di vita, anche delle loro vite personali: abbiamo sentito confessioni di figli di genitori divorziati o considerazioni accorate sul cugino separato. Altri hanno riassunto solo la dottrina acquisita, altri hanno esposto meno le speranze che i timori. Si racconta pure di alcuni che hanno visto le bestie dell’Apocalisse aggirarsi nell’Aula e hanno convinto tutti che fosse il caso di combatterle, senza indugio. Ma, nel mezzo di questi diversi registri, un racconto ha toccato i cuori e ha segnato le coscienze, diventando presto una “parabola capovolta”: non del Padre misericordioso, ma del Figlio misericordioso. Proviamo a raccontarla, di nuovo e in prima persona:

Non avevo scelta. Avevo ascoltato bene, nelle ore del Catechismo, che la Eucaristia è comunione con Gesù e con i fratelli. Come potevo sopportare che, nel momento in cui potevo fare per la prima volta questo gesto così bello, dovessi tenerne fuori il mio papà e la mia mamma? Lo so, mi avevano detto che loro non potevano ricevere quel pane che è corpo e sangue perché non avevano più una vita di comunione tra loro e si erano risposati con altri. Ma io so che non è così. So bene che loro hanno sofferto, hanno sbagliato, si sono amareggiati, quasi si sono disperati, ma poi, ognuno per la sua strada, hanno ritrovato la pace, la fiducia, la speranza. Io questo lo so e nessuno può insegnarmi una cosa diversa da questa. Anche Gesù lo sa. Per questo, quando ho ricevuto la particola in mano, non avevo scelta. Ho spezzato il pane e lo ho condiviso con chi è in comunione con me e ha ritrovato anche la comunione con se stesso e con Dio. E con la Chiesa? Questo è difficile da dire: ma ora posso dirlo così. Attraverso di me loro hanno fatto un passo nella comunione con la Chiesa. Che non può chiedere a loro quello che io stesso ho capito di non poter chiedere: non si torna indietro. In me loro saranno sempre in comunione, anche se tra loro non potranno esserlo più. Questo è un mistero, un grande mistero, mistero di dolore ma anche di gioia. E mi chiedo: perché la Chiesa non potrebbe riconoscerlo? Perché dovrebbe bloccarsi di fronte a questo mistero? Se ci sono riuscito io, che ero direttamente coinvolto, come potrebbe non riuscirci il corpo di Cristo che è la Chiesa?”

Questa parabola di vita mi ha suggerito, di nuovo, un ripensamento della parabola evangelica, che non è del Figlio misericordioso, ma del Padre misericordioso. I figli possono perdonare i padri divorziati; ma anche i padri possono perdonare i figli divorziati. Ecco come potrebbe suonare sotto le volte dell’Aula sinodale, la famosa parabola di Luca, ripensata alla luce del racconto del “piccolo Padre della Chiesa”:

Un uomo aveva due figli. Il maggiore si sposò, e rimase con la moglie presso il padre. Anche il secondo, poi, si sposò e andò a stare lontano con la sua sposa. Dopo qualche tempo il primo figlio fu abbandonato dalla moglie e restò solo. Ma rimase presso il padre, permanendo fedele alla moglie e mantenendo la parola data, ad ogni costo. Anche il secondo figlio, qualche tempo dopo, entrò in crisi e fu abbandonato dalla moglie. Dopo lungo travaglio, conobbe un’altra donna, si legò a lei e infine la sposò. Quando tornò dal padre, temendo di essere da lui giudicato indegno, lo trovò ad accoglierlo a braccia aperte.  Di ciò rimase stupito e si lasciò accompagnare in casa, a far festa per la nuova sposa, con gli auguri di prosperità. Il fratello maggiore, tuttavia, prese il padre da parte, dicendogli: “anche io sono stato abbandonato e sono rimasto solo, ma tu per me, che resto fedele, non fai nessuna festa. Invece ti rallegri e canti per questo mio fratello, che si è risposato, tradendo la sua parola”.  Il padre prese il figlio per il braccio e gli disse: “Figlio mio, io ammiro molto la tua scelta, che è frutto di sapienza e di rispetto. Ma non posso biasimare tuo fratello: non è bene, infatti, che l’uomo stia solo. Per lui vale una scelta diversa dalla tua. Lui non deve protestare per la tua scelta. Ma tu non protestare per la sua. La comunione è anche questo: una diversa via verso il bene”. 

Di fronte ad una parabola così riformulata, che cosa può dire una Chiesa capace di vera fedeltà creativa? Possiamo davvero comprendere una “maggiore misericordia” del Padre (e del figlio), oppure saremo per sempre vincolati a ciò che la disciplina ha finora elaborato, senza lasciare scampo al “fratello minore” (e al “genitore risposato”)? Dovremo continuare a vivere una Chiesa così condizionata dalle riserve e dalle paure di troppi “fratelli maggiori”?

 

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