La famiglia come soggetto pastorale e il “foro interno”: sapremo riconoscere famiglie ferite o solo individui penitenti?



raffaello_sposalizio
Nella conferenza stampa del Card. Schoenborn di sabato scorso, quando ancora non vi era stata la votazione sulla Relatio finale, molto si è insistito nel sottolineare, a ragione, che uno dei risultati del Sinodo è il riconoscimento della famiglia come ¨soggetto di pastorale”. E si è aggiunto, con bella parresia,  che questo è un bene per la Chiesa, comunque sia la famiglia. Ogni tipo di famiglia, per quanto segnata, ferita o rifondata, porta un bene alla chiesa. Si può aggiungere, come nota di rilevanza biografica e di impatto emotivo non piccolo, che queste affermazioni, quando pronunciate da quell'Arcivescovo che, durante il Sinodo 2014 aveva pubblicamente ricordato la proipria identità di “figlio di genitori divorziati e risposati”,  con tutto ciò che questo avevo comportato per lui, sono risuonate particolarmente significative di una “mens” ecclesiale segnata da “accompagnamento”, “misericordia” e “ascolto”.
Al centro di questa svolta sta - come tante volte ricordato anche da papa Francesco, in molte omelie e discorsi, e di recente anche durante il viaggio a Cuba e in USA - un mutamento di prospettiva prezioso: non solo la Chiesa insegna qualcosa di decisivo alla famiglia, ma le famiglie hanno qualcosa di insostituibile da insegnare alla Chiesa. Ciò passa, evidentemente, attraverso un riconoscimento aperto e serio alla famiglia di una “soggettività propria” nella stessa pastorale ecclesiale.
Bisogna allora considerare, sotto questa luce, la particolare forma di 'rimedio' che il Sinodo ha elaborato e approvato sabato scorso, per venire incontro alle “ferite familiari”: è interessante notare che questa “via del discernimento” è stata proposta apertamente proprio dal “circulus” cui partecipava lo stesso Card. Schoenborn, che forse ha anche suggerito, da padre domenicano, la citazione di Tommaso che innalza il “principio di prudenza” a criterio di applicazione concreta della norma morale. 
Ora, questo “foro interno”, che potrà in futuro assicurare ad ogni singolo membro della comunità ecclesiale di non perdere il legame con la “communio”, fino a permettergli di riaccedere alla “comunione sacramentale”, non è strutturalmente in grado di “riconoscere” le “nuove famiglie” che appaiono sull'orizzonte non solo della esperienza ecclesiale, ma della sua “azione”, della sua stessa “pastorale”.
Il divorziato risposato che domani potrebbe “proclamare la parola di Dio”, “garantire la fede del battezzando o del cresimando”, “fare catechesi” o “insegnare religione”, vivrà tutte queste esperienze non da solo, ma ben piantato nei legami matrimoniali e familiari della “nuova famiglia”. Ma questa relazione familiare rischia di rimanere “invisibile” alla comunità ecclesiale. Ed è curioso che, nello stesso tempo di “riconosca alla famiglia una nuova soggettività”, ma poi non si elaborino gli strumenti per assicurare questo riconoscimento effettivo. Non dei singoli, ma delle comunità.
Questa è la conseguenza della scelta del criterio di soluzione, ossia del “foro interno”: esso garantisce i “diritti e i percorsi dei singoli”, ma non riesce a prendere atto e a dar forma alla “nuova comunione vissuta”. Riammette alla comunione i singoli ma non ha alcun modo di riconoscere il nuovo soggetto pastorale comunitario. 
Alla luce di questo ragionamento mi sembra di dover tirare queste conclusioni:
-  il passaggio attraverso il “discernimento discrezionale” era forse inevitabile, per sbloccare una logica “oggettiva” della legge, rilevabile solo “in foro esterno” (con tutto il sovraccarico dei “processi di accertamento della nullità del vincolo”)
- ma la dialettica tra “foro interno” e “foro esterno”, pur approssimandosi certamente meglio alla realtà odierna dei vissuti familiari, tende inevitabilmente a spezzarla in due: delinea una ufficialità pubblica – che afferma il legame tra due soggetti - cui corrisponde o con cui contrasta una esperienza privata, nella quale il legame è con “altri” soggetti.
- in questa alternativa sono in gioco “valori pubblici” ed “esperienza individuali”, non necessariamente coerenti. 

La individuazione del “foro interno” come rimedio proclama che ci sono “esperienze individuali” che possono contrastare con la “forma pubblica ecclesiale”, ma non contrastano con il disegno di Dio. 
Questo non è motivo di scandalo – come vorrebbero i tradizionalisti che possono identificare la grazia solo con la forma pubblica ecclesiale – ma non è neppure una soluzione pienamente convincente: poiché essa afferma una “logica diversa”, ma sembra rinunciare a coordinare e correlare le due logiche tra loro. Ad essa manca l'organo che possa non tanto “dare la comunione ai divorziati risposati” (cosa che, già prima e ancor più oggi non sarà impossibile) ma “riconoscere la comunione di famiglie allargate” come vera, operante e preziosa per la Chiesa. 
La sensazione è che la correzione del “foro esterno” mediante  il “foro interno” rappresenti l'inizio di una conversione, alla cui meta la Chiesa dovrà elaborare un altro foro, un “foro intimo”, una “logica comunitaria” - ossia meno che pubblica e più che privata - che sappia riconoscere la “storia delle coscienze” e “i cammini di conversione” quando assumono la forma di nuovi legami decisivi. Questo “foro intimo”, essendo più interno del “foro interno”, sporge anche al di fuori: è la esteriorità dell'altro coniuge e dei figli che impedisce al foro interno di avere l'ultima parola sulle vicende cristiane di coloro che, avendo visto fallire il loro matrimonio, si avviano sulla strada impervia, ma gioiosa, di un nuovo inizio. A questo inizio non bastano autorizzazioni formali, esterne o interne che siano; non basta un tribunale che riconosca la nullità del primo legame o un confessore che assolva dal peccato:  occorre una “logica della relazione” personale ed ecclesiale, che richiede una diversa articolazione del giudizio stesso. 

Esemplare è, sotto questa prospettiva, - come ricordava oggi A. Melloni sul “Corriere della Sera” - il superamento che sembra determinarsi nella alternativa tra “oggettivo” e “soggettivo”, sulla base della quale al “soggetto divorziato risposato” veniva rimproverata la oggettività di peccato della sua condizione. In campo matrimoniale, una “responsabilità oggettiva del soggetto” non corrisponde più – sic et simpliciter - alla “sana dottrina cattolica”. Ma questo dipende dalla limitatezza delle categorie di “piano oggettivo” e “piano soggettivo”, cui corrispondono i due fori (esterno e interno). Ci sono “fatti intersoggettivi” che devono essere riconosciuti e valorizzati. In questo ambito - così delicato e così decisivo - siamo sul confine di una conversione ecclesiale degna delle migliori energie e delle riflessioni più accurate, senza la presunzione di poter tutto rileggere alla luce delle forme disciplinari già acquisite. 
Proprio su questo punto delicatissimo il Sinodo appena concluso ha aperto una via irreversibile di profondo ripensamento e di provvidenziale conversione. 
Share