Una comunione senza comunione? Relatio synodi e disciplina ecclesiale a confronto


 due figli

Come rilevato qualche giorno fa da M. Matzuzzi su “Il Foglio”, che riprendeva alcune dichiarazioni a caldo rilasciate da alcuni vescovi all’uscita dal Sinodo, nel testo meno votato della Relatio – ossia il n. 85 – non si parla mai di “comunione”. Il card. Pell, in una intervista di ieri, interpreta questa assenza come la conferma di una negazione. Oggi su Il Sismografo, L. Badilla scrive un “promemoria” per evitare che si affermi ciò che è negato e che si neghi quanto è affermato. Ma si potrebbe e dovrebbe anche dire che in quel testo sinodale, a ben vedere, non si parla d’altro che di comunione!

Come stanno dunque le cose? Chi ha ragione?

In realtà il documento sinodale attesta un travaglio ecclesiale che inizia nel 1981, con il testo di Familiaris Consortio. Ed è significativo che la Relatio argomenti proprio ricominciando dall’inizio, ossia da FC.

In effetti, in FC viene superata l’idea – comune fino ad allora – che considerava i fedeli divorziati risposati come scomunicati, addirittura come “infames”. Nell’affermare la “non separatezza” dal Corpo di Cristo, FC apriva il travaglio ecclesiale di una contraddizione tra una comunione ecclesiale riconosciuta e una comunione sacramentale negata.

In altri termini, questa grande apertura dottrinale, che dobbiamo riconoscere e riferire proprio a FC, non ebbe come conseguenza un vero mutamento disciplinare. Affermò una nuova dottrina, ma lasciò sostanzialmente la vecchia disciplina. Coloro che venivano definiti come appartenenti alla comunione ecclesiale, non potevano accedere né alla penitenza né alla comunione, ma trovavano ostacoli a numerose altre “funzioni” o “identità ecclesiali”: queste resteranno implicite fino a quando l’elenco completo verrà presentato dal cardinale Joseph Ratzinger, in qualità di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nella sua introduzione al volume Sulla pastorale dei divorziati risposati (1998): le responsabilità ecclesiali precluse ai divorziati risposati sono: incarico di padrino, lettore, ministro straordinario dell’eucaristia, insegnante di religione, catechista per la prima comunione e per la cresima, membro del consiglio pastorale diocesano e parrocchiale, testimone di nozze, che è sconsigliato, ma non impedito. Questo elenco, non è “atto magisteriale”, ma ragionamento teologico, autorevole ma discutibile.

Ora il testo della Relatio, al n.84 dice, invece:

 “occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate.

E’ evidente la differenza tra questo testo e quello di FC: mentre in quel testo alla affermazione della non scomunica seguiva la indicazione di una serie di “impossibilità”, formalmente definite, e riguardanti penitenza e comunione, che poi sono state ampliate, proprio a causa della nuova condizione di “comunione ecclesiale”, mentre ora si parla non solo di “non scomunica”, ma di effettiva “integrazione”. Ecco il testo che segue:

Essi non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come una madre che li accoglie sempre, si prende cura di loro con affetto e li incoraggia nel cammino della vita e del Vangelo”

Il lavoro del duplice sinodo 2014 e 2015 ha ripreso questa tensione paradossale, aperta da FC, e si è incamminato verso una sapiente soluzione. O, meglio, ha creato lo spazio per una soluzione esplicita, che è stata riservata al papa. Il consenso episcopale è oggi sulla condizione di non-scomunica, sulla esigenza di integrazione progressiva, ma nulla dice circa la comunione sacramentale. Nulla in positivo, ma neanche in negativo. Non la afferma, ma non la esclude.

Potremmo allora dire che nella Relatio vi è un obiettivo avanzamento della questione: la Chiesa che da 35 anni nega ufficialmente la scomunica, oggi non afferma piu la impossibilità della comunione sacramentale, ma auspica un cammino di progressiva integrazione dei soggetti nella comunione ecclesiale.

Questo punto mi sembra decisivo: il discernimento caso per caso potrà e dovrà colmare la differenza tra comunione ecclesiale e comunione sacramentale.

Come abbiamo visto, la relazione sinodale indica quattro ambiti di questa progressiva integrazione: liturgico, pastorale, educativo, istituzionale. Nulla può essere dato per scontato: nessuno ha diritto ad essere “lettore” o “catechista” – questo vale sempre e per tutti – ma ora nessuno può essere escluso per principio. In questo spazio di riconciliazione possibile potrà muoversi la previsione magisteriale e l’azione pastorale.

Ma è evidente come il semplice attuarsi di uno solo di questi “servizi ecclesiali” metterà ancora più a nudo la debolezza della soluzione necessariamente provvisoria che si è trovata per il momento. Quando un divorziato risposato potrà “proclamare la parola” o “distribuire la comunione”, immediatamente vedremo come del tutto astratto e incoerente che a lui non sia possibile, nel tempo, un accesso alla eucaristia. E scopriremo come l’accesso alla comunione eucaristica non sia solo l’ultimo coronamento della esistenza, ma anche la via settimanale o quotidiana di approfondimento spirituale e di scuola cristiana. L’eucaristica è anche “farmaco” e non solo “premio”.

E’ del tutto comprensibile che sia la gradualità la migliore consigliera in tutto ciò: ma affermare di un soggetto che “non è separato dalla Chiesa di Cristo”, ma impedirgli “sine die” la comunione eucaristica è ecclesiologicamente, spiritualmente e pedagogicamente una contraddizione.

Se il Sinodo ha sbloccato il sistema, ha “scollinato” nella tradizione, oggi dovrebbe essere molto più chiaro che penitenza e eucaristia non hanno solo la logica dell’atto formale di assoluzione e di consacrazione, ma la logica del processo rituale ed esistenziale di incontro con la Parola e con il sacramento. Come diceva Carlo Maria Martini, noi dobbiamo saper “capovolgere la domanda”. Non si tratta di far accedere i divorziati alla eucaristia dopo la soglia penitenziale, ma di farli entrare in una elaborazione penitenziale ed eucaristica della loro identità. In tale elaborazione tutti i “ministeri” che saranno di nuovo accessibili, lo saranno non come “surrogati” di una eucaristia impossibile, ma come “forme” di una vita eucaristica che rinasce. Nella penitenza e nella eucaristia si cambia “con il tempo”. La nuova considerazione dei divorziati risposati ci porta, ultimamente, a una nuova offerta, a tutto il popolo di Dio, di una rinnovata freschezza penitenziale ed eucaristica. Il problema della “comunione” per i divorziati risposati non è di “ricevere l’ostia”, ma di “vedere riconosciuta e valorizzata” la comunione che già vivono.

Di fronte a questa realtà che si è messa in movimento, c’è chi recalcitra, c’è chi non vuol vedere, c’è chi protesta. Anche questo ha una sua logica: come ricordava il Card. Montenegro, citando un proverbio rumeno: “Quando la carovana si mette in moto, i cani abbaiano”.

 

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