Il segreto dei “sermoni” di Francesco. La forma inquieta dei discorsi e la loro “orationis ratio”


 BergoglioMetro

Nel discorso di ieri, a Firenze, il Vescovo di Roma ha dato prova non solo di sapienza pastorale, di pensiero teologico, di lungimiranza ecclesiale, ma anche di eleganza ed efficacia nel modo con cui sa plasmare la “forma retorica” del suo dire. Da qualche tempo mi accadeva di notare che nei suoi “discorsi” – negli Usa o a Scampia, al Palazzo di Vetro dell’ONU o al Seminario San Carlo di Philadelphia, ma anche, cotidie, a S. Marta – i “contenuti”, spesso forti, sorprendenti, toccanti, edificanti, dipendono non raramente da una “forma studiata”, da una finissima tessitura del discorso.

In occasione delle parole risuonate ieri a S. Maria del Fiore, le reazioni, sui giornali o sui Social Network, hanno estrapolato singole immagini impressionanti – la citazione di “Don Camillo e Peppone” o la denuncia delle “tentazioni”, la ricentratura sulla umiltà e il disinteresse o la enfasi sulla “Chiesa accidentata” – ma con maggiore e comprensibile difficoltà hanno saputo riconoscere i meriti di una “struttura” retorica di grandissima potenza e di complessa concezione. Il discorso risulta “semplice”, le singole frasi sono lineari e incisive, si fanno citare con facilità, ma nascondono una trama di “figure retoriche”, di “sequenze argomentative” e di “repentini cambi di registro” con efficacia del tutto sorprendente. Chiunque parlasse così farebbe scalpore. Se è un papa a farlo, la gamma delle reazioni va dal silenzio, alla commozione, al pianto. Molti , soprattutto su Facebook, hanno scritto: “Ho pianto”.

Vorrei provare a iniziare a capire il perché e il come di questo singolarissimo effetto del discorso papale. Non è frequente tutto ciò: potrei citare, a memoria, il famoso discorso di Giovanni XXIII nel carcere di Regina Coeli o il discorso, brevissimo ma fulminante, di Abramo Lincoln, a Gettysburg. Di fronte a questa eccezionalità, proviamo a capire solo qualcosa – e senza pretese – intorno al segreto di queste parole indimenticabili.

La “sequenza” ordinata ma trasgressiva

L’ ultimo discorso, come molti dei precedenti, è basato su una struttura lineare ed elementare. La antropologia cristiana concentrata su tre punti e due tentazioni: umiltà, disinteresse e beatitudine, di contro a pelagianesimo e gnosticismo. Ognuno di questi punti, all’interno di questo ordine elementare, viene tuttavia svolto in un intreccio raffinato tra “testo biblico”, “lettura sapienziale” e “associazioni inattese”, che spesso attingono al “senso comune”. Il fascino particolare del tono è nascosto in questo impasto, ogni volta diverso e imprevedibile. Un esempio si può leggere in questo “sommario”, collocato verso la fine del discorso, che all’improvviso si apre ad immagini inattese:

Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo.

Un ragionamento “teorico” (ma nutrito dal gioco di parole tra “epoca” e “cambiamento”), viene poi tradotto nel linguaggio evangelico della “strada” e dei “crocicchi”, per poi tornare, di colpo, dai muri e dalle frontiere alle “piazze” e agli “ospedali da campo”. In 5 righe il registro cambia tre volte, ma con una grazia e una eleganza tanto grande quanto quasi impercettibile.

Gli accostamenti a sorpresa

Accanto a questo “ordine” (che semplicisticamente diremmo “gesuita”) troviamo, dunque, continuamente, un principio di “disordine”, soprattutto negli accostamenti improvvisi, come anche nei salti di registro…Questo fa sì che si raggiunga un ottimo effetto anche soltanto citando una singola frase – e di citazioni letterali sono pieni i giornali di oggi. Ma il significato pieno si ricava soltanto dalla lettura della sequenza e del contesto. Ed è questa sequenza che risulta irresistibile, toccante, commovente, impressionante, stupefacente. Qui non si può non citare quel passaggio che ha fatto scalpore: ossia la citazione di “Don Camillo e Peppone”. Vediamo piuttosto dove cade:

La Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don Camillo diceva: «Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro». Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte”.

La santità italiana e suoi esempi reali cedono al fascino di una “finzione” che supera la realtà. Don Camillo diventa principio di identificazione del “pastore”, che sta vicino alla gente nella preghiera. Fino ad arrivare alla espressione, gergale ma efficacissima: senza il contatto, perdiamo in umanità e “non andiamo da nessuna parte”. Fulminante sequenza.

Il cambio di soggetto e il discorso come sceneggiatura

Nei punti più alti del discorso accade, quasi sempre, un cambio di soggetto. Nel discorso di ieri, ad esempio, la terza persona, la prima singolare e la prima plurale erano continuamente in movimento. Da una lettura “impersonale” si passava sempre alla “prima singolare” e subito dopo alla “prima plurale”. Egli, io e noi si alternavano con un effetto di vertigine. Come esempio si può leggere questo brano, potentissimo, per l’uso di un “crescendo” di intensità, fino al “climax” della identificazione del “noi” che parla con i discepoli, passando per il “sentire la sua saliva sulla punta della nostra lingua”!


Vediamo Gesù che mangia e beve con i peccatori (Mc 2,16; Mt 11,19); contempliamolo mentre conversa con la samaritana (Gv 4,7-26); spiamolo mentre incontra di notte Nicodemo (Gv 3,1-21); gustiamo con affetto la scena di Lui che si fa ungere i piedi da una prostituta (cfr Lc 7,36-50); sentiamo la sua saliva sulla punta della nostra lingua che così si scioglie (Mc 7,33). Ammiriamo la «simpatia di tutto il popolo» che circonda i suoi discepoli, cioè noi, e sperimentiamo la loro «letizia e semplicità di cuore» (At 2,46-47).

Quasi come in un “piano sequenza” cinematografico, le parole conducono alla identificazione di chi ascolta con colui e coloro di cui si parla. Nello stile dei padri della Chiesa, senza una rigida distinzione tra soggetto e oggetto. L’oggetto siamo noi e il soggetto diventa Cristo!

La ironia contagiosa e la emergenza dei “casi seri”

Potrebbe anche sorgere l’idea che questi testi siano approvati, fatti propri, ma non stesi da Francesco. Ma c’è un elemento che, senza escludere comprensibili e necessarie collaborazioni, tenderebbe ad escludere questa ipotesi. Infatti, nelle interviste, che certamente sono “spontanee”, appaiono con molta evidenza gli stessi elementi retorici che compaiono discorsi. Chi mai avrebbe osato delineare i compiti della “chiesa italiana” a partire dalla nostra “tradizione” di esploratori?

La Chiesa italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte, inquietante. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e delle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. Mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

O, ancora, chi avrebbe raffigurato la comunione e il dialogo ecclesiale come un “lavorare e un arrabbiarsi insieme”?

Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo. «Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Evangelii gaudium, 227).

Per concludere questa breve rassegna di osservazioni su un “fenomeno” come quello dei discorsi di Francesco, non bisognerebbe mai dimenticare che questa “perizia retorica” deriva da un interesse molto antico e molto coltivato da J. M. Bergoglio. Come potrebbe oggi costruire discorsi così potenti se non si fosse messo, già da giovane, alla scuola dei grandi romanzieri della letteratura spagnola, italiana, russa; se non avesse guardato con interesse il grande cinema italiano; e se non avesse, come giovane professore, invitato nel suo liceo J. L.Borges, il grande poeta argentino, a tenere corsi di “scrittura creativa”? In questi discorsi “ufficiali” risuona la libertà della poesia di Borges, il neorealismo del cinema italiano, la forza della grande letteratura europea e americana del XIX e XX secolo.

Qualcuno aveva detto – e scritto – a qualche settimana dall’elezione, che questo papa “non era una cima” (sic!). Non il nobel per la pace, ma un dottorato honoris causa in letteratura italiana, sarebbe ora del tutto appropriato, e quasi dovuto, come riconoscimento da parte dell’umanesimo italiano nei confronti di una voce che, pur venendo dalla fine del mondo – o forse proprio a causa di ciò – ha saputo darne una lettura tanto autorevole e tanto originale.

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