“Tra di voi non sarà così”. Il servizio dell’autorità nella Chiesa


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Sul n. 40 di Settimana è uscito questo articolo, per la rubrica “Parole e luoghi della misericordia, 9”

Tra di voi non sarà così”. Il servizio dell’autorità nella Chiesa

 La Misericordia, come cuore del Vangelo, in quale modo è in grado di ridefinire la nostra esperienza della “auctoritas”? E, viceversa, la relazione autorevole, non solo come un “dare ordini”, in quale misura può testimoniare e realizzare la vocazione comune alla “misericordia”? La duplice domanda, posta in modo diretto, è imbarazzante: per due motivi. Ci siamo abituati a pensare la “misericordia” come “virtù del soggetto” e la “auctoritas” come esercizio di potere “oggettivo”. Ed è ovvio che, se intendiamo così i termini, il loro rapporto può generare, molto facilmente, una sorta di sostanziale indifferenza della misericordia verso la autorità e della autorità verso la misericordia. Ancor più, questo viene accentuato da un fatto: la reciproca indifferenza tra misericordia e autorità è favorita da una impostazione “liberale” del mondo, – e specularmente “clericale” della Chiesa – che tendono a dimenticare (o a totalizzare) strutturalmente il “profilo pedagogico” della autorità e della misericordia, riducendo, la prima come la seconda, a “fatti”, non importa se interiori o esteriori.

 

L’autorità come servizio di fronte alla negazione della autorità

La parola “forte” di Gesù – all’interno di questo “mondo liberale” e di questa “Chiesa clericale” – tende a privatizzarsi: il “tra voi non sarà così”, il “capovolgimento della piramide”, un Messia venuto “non per essere servito, ma per servire”, diventano “corredo dell’anima da salvare”, piuttosto che “conversione della prassi e della storia”. D’altra parte ciò non accade semplicemente per una “ben nota” inadeguatezza del mondo moderno a rendersi sensibile alla logica della fede. Questo è un argomento troppo superficiale per essere davvero convincente. Il ridimensionamento tardo-moderno della pretesa pedagogica della autorità è stato un passaggio sofferto, ma benefico e direi quasi provvidenziale, non solo per il mondo, ma anche per la Chiesa. Per essere “campo profughi”, per accorgersi davvero dei diritti degli uomini e delle donne, dei vecchi e dei bambini, dei normali e dei diversi, degli eterosessuali e degli omosessuali, dei residenti e degli stranieri, la Chiesa ha dovuto conoscere e patire la “negazione di ogni pedagogia della autorità”. Rischiando di vedere negata, con se stessa, anche la stessa autorità di Dio. Ma la tentazione di identificare, semplicisticamente, la negazione dei propri privilegi con la negazione di Dio è sempre stata una mina vagante, più o meno latente, ma sempre capace di funzionare da “chiamata alle armi” contro qualcosa o contro qualcuno: sempre pronta a dissolvere, nella difesa della autorità, ogni traccia di misericordia.

E qui sta il punto: il mondo tardo moderno ha introdotto un sospetto radicale verso la autorità. Ma lo ha fatto anche per buone ragioni: dove l’autorità si confondeva con il potere, il privilegio, la discriminazione, la diseguaglianza, l’autorità doveva essere contestata, ridimensionata, riorganizzata. E la Chiesa, volente o nolente, ne ha fatto anche le spese. Ma oggi abbiamo una possibilità nuova: possiamo recuperare una lettura più equilibrata, che scaturisce proprio dalla riscoperta del “legame viscerale” che esiste tra “autorità” e “misericordia”. Provo a descriverne brevemente il percorso.

La pedagogia della autorità: essere padri e fratelli, non padroni e complici

Il termine auctoritas ha subìto nel mondo tardo-moderno una “piegatura” difficile da dominare: di per sé tende a spogliarsi di ogni profilo pedagogico. Per questo si confonde sempre più con “potere” ed è riferito a “poteri” intesi appunto come “autorità politiche”. Ma la parola “auctoritas”, nel suo senso etimologico originario, indica una dinamica irrinunciabile per ogni uomo, indica un “far crescere”: l’esercizio della “auctoritas” è una delle condizioni della umanità dell’uomo, che non è se stesso fin dall’origine, ma è “animale che ha la parola” o “creatura”, dove entrambe le definizioni – nella loro differenza – coincidono nello spostare “al futuro” la identità. Su questo punto io penso che l’annuncio del Vangelo, nella sua pur irriducibile differenza, possa contare su questa grande tradizione di riflessione comune sulla antropologia: l’uomo non è se stesso “di per se”, ma diventa se stesso “grazie ad altri”. Alla radice della libertà c’è una esperienza della autorità, ma alla radice della autorità c’è una esperienza di amore, di tenerezza, di misericordia.

La esteriorità della misericordia: le “opere” segno della radice

Questo primo passaggio ha messo in chiaro una sorta di rilettura del nostro rapporto di cristiani cattolici con il mondo “tardo-moderno”: possiamo vedere chiaramente che la “resistenza” alla libertà era motivata dal voler e dover custodire la radice “autorevole” della libertà. Ma quando per difendere la autorità, abbiamo dimenticato la legittimazione “misericordiosa” della autorità stessa, abbiamo con questo perduto tanto la autorità quanto la libertà. E ancora oggi, che pure siamo a così grande distanza dalle prime “gravi crisi” di autorità – agli inizi del XIX secolo – facilmente possiamo illuderci che, per contrastare una “libertà senza relazioni” possiamo utilizzare una “autorità senza misericordia”. E qui, in modo molto lungimirante, la Chiesa ha compreso, più di 50 anni fa, che occorreva tradurre quel “patrimonio autorevole” che si chiama tradizione, in un “rivestimento”, ossia in un linguaggio, che muovesse non dal “potere”, ma dalla “misericordia”. Di qui il progetto di un Concilio che, in modo inaudito, provasse a “ridire la rivelazione e la fede” sul registro più originario, ossia esercitando la autorità come dono di misericordia, e non come giudizio di condanna. Giustamente papa Francesco, nella Bolla di indizione del “Giubileo della misericordia”, ha trovato nei discorsi di “apertura” e di “chiusura” del Concilio Vaticano II una rilettura del senso di quel Concilio in termini di “misericordia”: la Chiesa traduce se stessa e comprende meglio se stessa se esce dalla contrapposizione tra libertà e autorità e recupera il terreno originario – e lo stile elementare – su cui può fiorire l’una non senza l’altra.

La crisi delle “forme della comunione” e la misericordia come radice

In questo orizzonte, certo impegnativo, ma non tragico, certo pieno di insidie, ma non privo di opportunità, dobbiamo riconoscere che la riscoperta della “misericordia”, che papa Francesco ha collocato al centro del suo pontificato, porta a una lettura nuova della autorità. Se la “forma della comunione” è la misericordia, nessuno può certo illudersi di “essere al proprio inizio”, ma nessun altro può essere autorevole se non “facendogli credito” e “riconoscendolo”. Ciò che Francesco ha recuperato, con il non piccolo vantaggio “immeritato” di venire “dalla fine del mondo”, è questa elementare “complicazione” della questione. Per troppi decenni ci siamo “incartati” in Europa – dentro e fuori della Chiesa – in una lotta senza quartiere “dei diritti e dei doveri”, giocando gli uni contro gli altri: i “valori” contro le “sfrenatezze”, le dottrine contro le indiscipline. Questa via, di per sé comprensibile, è segnata da una dose molto grande di “cecità”, perché cade nella trappola che vorrebbe evitare. Papa Francesco ha capito che non serve “polarizzare”, ma rilanciare la discussione e la vita su un livello più alto e, insieme, più basso! Perché l’autorità della misericordia sta più in basso del potere: sta alla origine di ogni autorevolezza, sta in quello “stare per”, che è logica elementare di ogni comunione. Per questo la “piramide” della Chiesa è necessariamente “capovolta”. Dio non è anzitutto sul “trono dell’altissimo”, ma è ”intimior intimo meo”. Il luogo della accoglienza della grazia – da Dio e dal prossimo – è il punto di origine della autorità e della libertà. Dio è Signore perché sempre fedele alla misericordia. Una “spietata difesa della verità” risulta così una contraddizione in termini.

Questa prospettiva “complicata” – ma più semplice – diventa motivo di pensieri nuovi e di azioni rinnovate: l’esercizio della autorità è messo alla prova dalla misericordia, non come sua componente, ma come suo principio. Questo principio “dà forma” al “servizio” come massima autorità. Per questo il papa chiede al popolo di pregare per lui; per questo decide di prendersi cura delle “periferie” prima che del centro; per questo nomina “pastori degli ultimi” come “primi (o arci) vescovi”. In questo clima – teorico e pratico – la misericordia, ripartendo dalle periferie, si sprovincializza e diventa centrale. Non senza qualche soprassalto di sana (si fa per dire) spietatezza: come sempre molto autoritaria, ma per questo priva di autorità. 

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