Ancora su “Universae Ecclesiae”


Da “Nostro Tempo” – Settimanale Cattolico Modenese – 3 luglio 2011
Approfondimenti
Sulla messa secondo il rito tridentino e la recente istruzione “Universae Ecclesiae” il parere di un docente esperto di teologia sacramentaria e liturgia
Il nocciolo della questione
Di Stefano Malagoli
Andrea Grillo, laurea in giurisprudenza e in filosofia, dottore in teologia con una tesi dal titolo “Teologia fondamentale e liturgia. Il rapporto tra immediatezza e mediazione nella riflessione teologica” è membro dell’Ati (Associazione teologica italiana) e dell’Apl (Associazione professori di teologia), professore ordinario di teologia sacramentaria al Pontificio Ateneo S.Anselmo di Roma e docente alla Facoltà teologica di Lugano e alla Pontificia Università Gregoriana. Membro della Consulta dell’Ufficio Liturgico Nazionale, dal 1998 insegna Specializzazione sacramentaria all’Istituto Teologico Marchigiano di Ancona e teologia (sacramentaria e liturgica) presso l’Istituto di Liturgia Pastorale della Abbazia di S. Giustina a Padova. Ha fatto parte della Commissione Cei incaricata di tradurre e adattare il nuovo rito del sacramento del matrimonio. Numerose le sue pubblicazioni riferite a particolari ambiti di ricerca: dalla teologia fondamentale della liturgia alla teologia dei sacramenti, dalla spiritualità liturgica al rapporto tra teologia e scienze umane, all’esperienza religiosa e filosofia moderna. Nostro Tempo lo ha interpellato dopo le recenti vicende che, a Modena, hanno avuto come oggetto la celebrazione della s.messa secondo il rito tridentino o di Pio V.
Prof. Grillo, un suo recente intervento, pubblicato sulla rivista di aggiornamenti pastorali “Settimana” cita il card. Ruini che, nel 2007 parlava del “rischio che un “Motu Proprio” emanato per unire maggiormente la comunità cristiana fosse invece utilizzato per dividerla”. Che idea si è fatto, in tale senso, anche dopo la pubblicazione dell’Istruzione vaticana “Universae ecclesiae”?
La recente Istruzione accentua ulteriormente i motivi di perplessità che il Motu Proprio del 2007 aveva aperto in larga parte del corpo ecclesiale. Soprattutto perché inaugura una fase nuova, nella quale non si intende tanto rispondere ad una domanda esistente, quanto addirittura suscitarne una per ora assente! Questo a me pare sia oggi l’elemento pastoralmente più preoccupante. Se i Vescovi non possono più controllare la forma rituale delle celebrazioni nella propria diocesi e se, nel frattempo, un “gruppo stabile” può essere costituito da cristiani appartenenti anche a diocesi diverse, allora è evidente come il nuovo documento approfondisca il disagio e il disorientamento del popolo di Dio, a cominciare dai vescovi. Da un certo punto di vista “Universae Ecclsiae” non sembra tener conto dei 3 anni di “sperimentazione” che il Motu Proprio richiedeva. E qui occorre essere molto chiari: delle due l’una. O i vescovi che hanno mandato alla fine del 2010 le loro relazioni sui tre anni di esperimento del Motu Proprio si sono limitati a fare complimenti senza esprimere il disagio vissuto dalle loro diocesi; oppure gli organi preposti alla ricezione delle reazioni hanno registrato e valorizzato soltanto quelle (poche) favorevoli. In ogni caso si tratta di una grave sconfitta per la comunicazione e per la parresia all’interno della Chiesa, con l’affermarsi di uno stile clericale che separa realtà e rappresentazione, creando a dismisura finzioni giuridiche e fatti illusori.
Joseph Ratzinger ha formulato l’espressione “Riformare la riforma”: che implicazioni ha, di fatto, questa impostazione e come si conciliano il Motu Proprio e l’istruzione Universae ecclesiae con il Vaticano II e la riforma liturgica che esso ha introdotto ?
A questa domanda debbo rispondere su due livelli. Sul primo debbo registrare che – salvo errore – questa espressione “riforma della riforma” è stata usata dal teologo e dal cardinale J. Ratzinger, ma mai da papa Benedetto XVI. E questo a mio avviso significa che il papa è consapevole che quella espressione, così come suona, non si addice al papa. La usano di solito i collaboratori e amici del papa (come N. Bux, G. Marini, V. Messori), ma debbo riconoscere con molto minore profondità e solo come “citazione autorevole”, senza averne chiare le implicazioni e le conseguenze. Nulla vieta, evidentemente, ad un papa di procedere a riformare tutto il riformabile. Ma un papa sa di essere comunque legato alla manifestazione di orientamento di un Concilio e di dover sondare il consenso episcopale, anche al di là del Concilio stesso. Su questo piano la “riforma della riforma”, privata del consenso episcopale – che oggi non ha in alcun modo – sarebbe una “operazione di palazzo” destinata al fallimento. Da un certo punto di vista la “riforma della riforma” appare soltanto come lo sfogo disperato e presuntuoso di quei settori ecclesiastici minoritari che non hanno mai mandato giù la riforma liturgica e magari da decenni continuano a celebrare con il rito del 1962, da molto prima del Motu Proprio (come mi risulta facesse sia il precendente Presidente della Commissione Ecclesia Dei (Hoyos) sia l’attuale (Pozzo). E mi chiedo: come può la commissione Ecclesia Dei, che dovrebbe con equilibrio giudicare delle delicate questioni di discernimento tra rito del 1962 e rito del 1970, essere presieduta da uomini così dichiaratamente ostili alla Riforma liturgica ?
Il card Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, sostiene che “il papa sa bene che a lungo termine non sarà possibile fermarsi ad una coesistenza tra la forma ordinaria e quella extraordinaria dello stesso rito Romano, ma che la Chiesa avrà nuovamente bisogno, nel futuro, di un rito comune”. Condivide questa analisi ? Quale tempo potrebbe richiedere un processo simile e quale sensibilità dovrebbe maturare all’interno della Chiesa per la sua attuazione?
Il ragionamento del card. Koch è importante, ma fragilissimo e rischiosissimo. Non ho dubbi che il papa conosca bene tutti i rischi di una condizione in cui due “forme” del medesimo rito possono vantare in sostanza i medesimi diritti di essere celebrate e proposte. Ma, proseguendo, il card. Koch corre molti rischi quando dice: “la Chiesa avrà nuovamente bisogno, nel futuro, di un rito comune”. Questa frase è la cifra più clamorosa e quasi scandalosa di una totale perdita di senso della realtà. Da un lato, infatti, si perde di vista il fatto che la Chiesa il rito comune ce lo ha già, da quando la Riforma Liturgica ha licenziato i nuovi Ordines. Quello è il rito comune a tutti. La presenza del “rito extraordinario” è talmente marginale e irrilevante che non può creare il problema di un “nuovo rito comune”. In realtà risulta fin troppo palese il disegno di “gonfiare” il rito extraordinario al punto tale da dover poi invocare un “nuovo rito comune” per sanare il male fatto. Così si vuole oggi introdurre il “rito extraordinario” allo scopo di riconciliare, ma poi occorrerebbe domani un rito comune per riconciliare dalle lacerazioni che la presunta riconciliazione avrebbe nel frattempo sicuramente procurato. Insomma, ad un paralogismo logico corrisponde un procedimento pastorale contraddittorio e senza coerenza. Ma Universae Ecclesiae ci dà anche le prove evidenti di questa distorsione. Come dovremmo interpretare le regole previste dalla Istruzione circa la definizione del “gruppo stabile”, se non come il trucco giuridico per cui 4 persone, di 4 diocesi diverse, in un sol mese possono garantire ben 4 celebrazioni domenicali in forma straordinaria della eucaristia, una alla settimana in quattro luoghi diversi? I numeri dei siti tradizionalistici si gonfieranno a non finire, ma resteranno vuote le chiese e spente le coscienze. Dobbiamo chiederci: perché mai tanta mistificazione viene avallata, protetta e alimentata dall’alto? Per un senso di difesa ad oltranza di quanto abbiamo conosciuto da bambini e che non potrà mai finire? Ma perché mai dovremmo cedere a questa miscela esplosiva di presunzione e disperazione?
Il rito di Pio V (forma extraordinaria) e quello ordinario del Rito romano, nella loro diversità, cosa offrono in termini di partecipazione e arricchimento all’assemblea dei fedeli chiamati a partecipare attivamente alla celebrazione eucaristica ?
Grazie a questa ultima domanda posso chiarire un ultimo punto problematico di tutta questa infelice operazione con cui si cerca di rimettere in piedi ciò che per il 99% dei cristiani è ormai chiuso in una storia che è finita. In nessun modo si possono mettere sullo stesso piano due forme rituali di cui la seconda è nata per rimediare alle povertà, alle fragilità e alle distorsioni della prima. L’esempio più lampante è costituito da quanto il Concilio Vaticano II ci chiede circa l’eucaristia. Esso addita sette punti in cui il rito del 1962 (di Pio V) doveva essere modificato, mirando a maggior ricchezza biblica, alla preghiera universale, all’omelia, alla lingua parlata, all’unità delle due mense, alla concelebrazione, alla comunione sotto le due specie. Il rito di Paolo VI dà risposta esplicita a questa richiesta, mentre il rito del 1962 non può darla, perché è precedente a quella autorevole richiesta. Essere nutriti da questi 7 elementi nuovi è possibile, sostanzialmente, solo nel regime inaugurato dalla Riforma liturgica. Come non notare con un certo umorismo il fatto che la Istruzione pretenda che chi chiede la celebrazione secondo il rito del 1962 debba confermare la propria adesione alla Riforma liturgica? Me lo spiegherà qualcuno prima o poi come si possa aderire alla Riforma con un atto che di fatto la smentisce e la riduce ad un “optional”? Alla fine bisogna riconoscerlo apertamente: in campo liturgico dovremmo tutti dedicarci alle cose serie, evitando di coltivare disegni nostalgici certamente senza vita e senza futuro, talvolta anche senza pudore e senza dignità.
Share