Appello sugli abusi e questione istituzionale


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L’appello ai vescovi italiani, firmato da un considerevole numero di teologi, di cui R. Maier ha già presentato tre dimensioni importanti (qui), può essere collocato in un ambito più ampio, che normalmente viene identificato con una serie di termini, divenuti importanti negli ultimi 9 anni grazie alla poderosa spinta che su di essi ha esercitato il magistero di papa Francesco. Possono essere identificati nella espressione “superamento della autoreferenzialità”, che si traduce necessariamente in due auspici: quello della “chiesa in uscita” e quello della “riforma della chiesa”.

Queste tre locuzioni stanno in un rapporto molto più stretto di quanto si pensi  ed anzi solo nel mostrare chiaramente la correlazione tra le tre frasi si può evitare di cadere nell’uso retorico di esse, cosa che evidentemente resta sempre possibile. Proviamo a dirlo con una immagine, che Francesco, prima di diventare Francesco, ossia qualche giorno prima del Conclave del 2o13, aveva espresso in forma “ironica”. Citando il libro dell’apocalisse, nel passo in cui il Signore sta alla porta, e bussa, diceva il Card. Bergoglio: “proviamo a pensare che bussi, ma non per entrare, ma per uscire. Lo abbiamo chiuso dentro”. Ecco l’immagine che ci permette di capire che la “autoreferenzialità” ecclesiale, dalla quale dobbiamo liberarci, chiede una “uscita” e una “riforma”. Chiede una uscita nei termini di un rapporto con ciò che “non è chiesa”, per stare in relazione, per insegnare e per imparare, per scoprire Dio già presente, per portare una parola di pace o per apprendere forme di vita nuove e sorprendenti.  Riforma e uscita sono correlate strettamente. La Chiesa da un lato può veramente uscire solo se è capace di riformarsi, solo se non si impicca nelle discipline tristi che non funzionano più; solo se non si tarpa le ali con formulazioni della dottrina vecchie, polverose, noiose e inadeguate. Dunque la riforma è una condizione della uscita. Ma, d’altra parte, le cose stanno anche capovolte. Solo se è capace di uscire davvero, se si espone al mondo, alle sue forme di vita, ai suoi spettacoli tristi e gioiosi, umani e disumani, la Chiesa trova le risorse e le forme adeguate per la riforma di sé. Sotto questo profilo è la uscita una condizione della riforma. 

Tutto questo mi pare costituisca l’orizzonte nel quale poter comprendere in modo adeguato il senso della iniziativa dell’appello sul tema degli abusi. Perché una dinamica come quella degli abusi (su minori, su donne, su religiose…) chiede alla Chiesa una uscita necessaria e urgente. Che assume, in prima battuta, la forma di una inchiesta condotta in modo imparziale. Le vittime chiedono giustizia. Questo fatto, nella sua elementare crudezza, è un segno dei tempi. Nel senso che mostra come la pretesa, costruita nel 1917 con il CJC e che continua nel 1983, con il nuovo codice, di costituire la Chiesa come “ordinamento ecclesiale autonomo”, non riesce a garantire la giustizia. Occorre una “uscita” perché i terzi abbiamo effettivamente parola. In altri termini la struttura ecclesiale, per come è articolata al suo interno e per come è strutturata, non è capace di “fare giustizia”. Per questo dei “terzi”, che giudicano dall’esterno, possono fare giustizia ai “terzi” che hanno subito violenza.  Qui vi è un intreccio tra chiesa e mondo che deve essere pensato non più con le categorie di Agostino, di Tommaso d’Aquino, di Bellarmino, o di Gasparri, ma con quelle di Beccaria e di Boeckenfoerde. Così avevano fatto ai loro tempi i 4 grandi che ho citato, e così dobbiamo fare anche noi. Questa è tradizione, ossia saper cambiare paradigma.

E’ evidente che questo caso, intendo dire il caso della “Commissione indipendente sugli abusi”, è solo un esempio di una riforma strutturale, che potrà in futuro permettere istituzionalmente la “uscita” di cui la Chiesa ha bisogno per “fare giustizia”. Ossia la introduzione di una “divisione dei poteri” che la Chiesa non solo non conosce sul piano normativo, ma che per due secoli ha combattuto fieramente. Questa consapevolezza dovrebbe convincere di una cosa molto semplice, e che spesso viene ignorata nel dibattito, da esperti spesso improvvisati. Il problema della inadeguatezza della Chiesa di fronte allo scandalo degli abusi dipende da una forma istituzionale vecchia di secoli e che non abbiamo avuto il coraggio di riformare. La arretratezza è nei “meccanismi mondani” con cui la Chiesa pensa di assicurare la giustizia. Il problema è che si avvale dei meccanismi che gli Stati moderni hanno abbandonato da 200 anni, e che nella Chiesa sopravvivono per inerzia e per resistenza. La riforma della Chiesa è sicuramente riforma dei cuori, conversione delle menti, rinnovamento della testimonianza e del fuoco della fede, ma è anche profondo e illuminato cambiamento delle procedure e delle forme amministrative. Forse qui si trova uno dei punti più deboli della coscienza ecclesiale contemporanea: nel pensare il tema degli abusi (ma anche il diverso tema del sinodo) con una scarsa attenzione alla riforma delle procedure di giustizia e di amministrazione. Che sono invece tra le cose più urgenti. Non sarà un caso che tra i firmatari dell’appello la presenza dei canonisti è assai esigua, anche se qualificata.

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