Architettura e Liturgia CHIESA PARROCCHIALE DELLA PENTECOSTE A QUARTO OGGIARO (Milano)


Dall’inno cantato nei Primi Vespri della Dedicazione del duomo di Milano, chiesa madre di tutti i fedeli ambrosiani
Haec Domus surgit tibi dedicata / rite, ubi sumit populus sacratum/ Corpus ex aris, bibit et beati/ Sanguinis haustum.
Questa casa sorge a te debitamente dedicata, / in essa il popolo prende dall’altare / il Corpo consacrato e si abbevera / del Sangue beato.

L’ingresso alla chiesa dal piazzale, dominato da una grande croce

 

 

 

 

 

 

 

 

Interno della chiesa, sul fondo l’altare

               

Comprendere l’architettura della chiesa per pregare in essa con più consapevolezza

Visitiamo la chiesa parrocchiale della Pentecoste a Quarto Oggiaro, quartiere di Milano, e ne diamo le ragioni architettoniche perché sia possibile pregare in essa, nella partecipazione alla celebrazione liturgica, con consapevolezza ecclesiale. Non per ragioni estetiche, ma perché, di questo luogo divenuto familiare e con esso di tutte le chiese, apprendiamo a custodire l’ordinata bellezza dell’identità cristiana contemporanea.

Dall’esterno – Il complesso del centro parrocchiale ha una conformazione ben percepibile: il volume più alto è quello della chiesa, quello più basso su due piani è il centro composto da più locali. Li collega una galleria, mentre di fronte al complesso si apre un ampio sagrato. La chiesa è concepita per essere il riferimento in questo brano di città; il ruolo di segno cristiano rivolto a tutti è svolto soprattutto dalla facciata a forma di alto portico, con una grande croce in asse con la strada di accesso. Già da lontano la croce è un riferimento; man mano che ci si avvicina alla chiesa, essa si impone sempre di più; evoca il cuore del messaggio cristiano, la Passione e Morte di Gesù Cristo e la sua Resurrezione. L’esito nella storia dell’annuncio è a sua volta proposto nell’edificio nel suo insieme, dedicato all’evento della discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli e sulla Vergine che celebra la nascita della Chiesa quale comunità dei redenti.

Progettata nel 2011, consacrata nel 2017 dal cardinale Angelo Scola, esso è opera, con l’aiuto dell’architetto italiano Marco Castelletti, dell’architetto Boris Podrecca, colto rappresentante di una cultura artistica mitteleuropea che ebbe il proprio centro in Vienna nel secolo XIX. Ne fu promotore un teorico e architetto tedesco, Gottfried Semper (1803-1879), per il quale, detto molto semplicemente, l’architettura veste con propri decori, come un abito, uno spazio racchiudendolo secondo forme precise. Questa intenzione spiega la composizione ritmica delle pareti esterne della chiesa e, all’interno, la controsoffittatura avvolgente come una tenda. Dunque: Dio ha posto qui la sua tenda e l’architetto si è messo al servizio di questa verità.

All’interno: Lo spazio della celebrazione – distinto fra aula dei fedeli, presbiterio leggermente sopraelevato, vasta area per la devozione alla Vergine – è un grande e alto volume al cui intorno stanno spazi minori. Non assistiamo alla messa stando intorno all’altare, ma di fronte. Fortunatamente la chiesa non è molto grande, quindi ci può essere partecipazione sentita di tutti; per piccoli gruppi e per le celebrazioni dei giorni feriali c’è una cappella. Il liturgista parlerà dopo di me dei poli liturgici, della loro forma e collocazione. Molto evidente è qui lo spazio per il culto mariano nel grande vano voltato a lato dell’aula principale; se ne comprende il significato se si conosce la lunga e ancora viva tradizione di devozione per la Vergine in Austria e in Baviera.

Un’ultima riflessione sul progetto: l’architetto Podrecca ha dichiarato di aver dato valore strutturante del proprio progetto al numero 3, come richiamo alla Santissima Trinità, sia nella successione in senso longitudinale di sagrato, portico e aula, sia nella tripartizione delle aule per la preghiera -quella dell’assemblea vera e propria, il luogo del culto mariano e la cappella feriale-, sia nelle connessioni tra assemblea celebrante, vita nei vari locali che si affacciano sulla galleria e vita di tutto il centro parrocchiale. Nessuno di noi vede il numero tre come figura, Podrecca ne ha fatto la struttura ‘nascosa’, interna ed esterna, dello spazio, implicandola però nella nostra percezione. Possiamo cogliere in modo evidente la sua convinzione: la certezza che è Dio Trinità a ‘fondare’ questo luogo e a ordinare anche il suo pensiero ‘progettante’ d’architetto, che si afferma dunque come atto di fede in Chi regge il mondo.                                                                                                                                          Maria Antonietta Crippa

Introduzione all’esperienza liturgica: ingresso e tensione escatologica

Quali sono le ‘salienze’, le maggiori evidenze, liturgiche di questa chiesa della Pentecoste di Quarto Oggiaro? Le letture architettonico-liturgiche che iniziamo con questa chiesa intendono offrire la possibilità di sperimentare ogni luogo, non soltanto di illustrarlo. Mi pare molto appropriato a questo percorso il fatto che il primo degli aspetti interessanti di questa chiesa lo si è già sperimentato senza saperlo: mi riferisco all’ingresso. L’ingresso è la prima azione liturgica ad essere compiuta. Ma cos’è l’ingresso? Partiamo da due parole:

Ekklesia (1): per la semantica acquisita nella LXX (Versione dell’Antico Testamento in lingua greca) e nel NT (Nuovo Testamento), il termine significa: ‘essere radunati’ a motivo della convocazione divina (adunanza); in esso viene enfatizzato l’aspetto, per così dire, passivo.

Sinassi (2): (parola strettamente imparentata con ‘sinagoga’) significa il ‘radunarsi insieme’ (riunione); in questo caso viene sottolineato l’aspetto attivo. Attività e passività non possono essere mai separati, poiché anche la passività è una forma di attività. Pertanto, quando i fedeli escono dalle loro case, si dirigono verso la chiesa, vi entrano e si raccolgono: già essi compiono un atto liturgico.

L’ingresso dunque inizia prima dell’ingresso dei ministri nell’aula liturgica, quando la Chiesa comincia a radunarsi, quando i fedeli escono dalle loro case. Alle origini della liturgia bizantina l’ingresso nella Chiesa era effettuato contestualmente sia da tutti i fedeli che dai ministri, ordinati e non (Cf. R. Taft, Il rito bizantino, Lipa). Ma questo valeva non solo per il rito bizantino, ma anche nei riti latini: almeno per le feste più importanti, venivano celebrate le  liturgie stazionali che prevedevano l’ingresso di tutti i fedeli nello stesso momento (ne è rimasta traccia nell’attuale rito della Domenica delle Palme e della veglia di Pasqua). Possiamo aggiungere, così, ai due termini indicati sopra, sempre per dire ‘Chiesa’, il temine Sinodo (3) – oggi se ne parla molto –. Potremmo così affermare che l’uso, ormai scomparso, di liturgie stazionali costituisce forse il modo più antico di vivere liturgicamente la ‘sinodalità’.

Il rito d’ingresso – con il proprio canto e la processione dei ministri – rende sperimentabile il riconoscimento del primo ingresso, quello del ‘corpo reale’ (nella dizione della teologia pre-carolingia) di Cristo nell’aula, atto costitutivo della Chiesa, e portato a compimento nell’esperienza della presenza del suo capo, Cristo Gesù.

Il canto d’ingresso con la processione dei ministri manifesta in modo più chiaro, infatti, il proprio senso anche grazie al gesto di introdurre l’evangeliario, simbolo liturgico della presenza del Signore (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 7: “È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura”). È, dunque, molto opportuno e per questo fortemente raccomandabile che l’evangeliario sia introdotto in assemblea dai ministri durante il rito d’ingresso. Approfondendone il senso, occorre prestare attenzione anche alla sua dinamica. L’ingresso è un passare attraverso una soglia e un dirigersi a partire “da” un luogo e “verso” un luogo. Esso implica, quindi, due aspetti genetici: richiede la percezione di un orientamento, di luoghi e di soglie, e una motivazione al movimento. Ora, solitamente si reputa che la direzionalità sia definita dalla sequenza di luoghi omogenei e ciò che determina il movimento sia lo scopo chiaro nella mente di chi si sposta.

Nel vissuto religioso, invece, il luogo sacro si manifesta – si potrebbe dire – esso stesso come scopo: si va verso lo spazio sacro semplicemente per entrare nello spazio sacro. L’ingresso in esso, pertanto, non è funzionale a qualcos’altro, ma è, in un certo senso, scopo in sé stesso: non soltanto si va in chiesa per pregare, ma andare ed entrare in chiesa è già preghiera. L’orientamento inoltre è offerto a partire dalla percezione della disomogeneità dello spazio sacro rispetto a quello mondano: il primo si fa notare e orienta a motivo della sua straordinarietà. Una volta fatta esperienza dello spazio sacro, si riconosce lo spazio profano come tale; pertanto la consapevolezza della sacralità dello spazio sacro, ‘verso’ cui si va, precede e produce quella della profanità dello spazio ‘da’ cui si parte. Lo spazio sacro, però, non è semplicemente uno spazio diverso rispetto a quello profano. Evidenziando esclusivamente la netta alternativa fra l’uno e l’altro, cioè fra spazio sacro e spazio profano, si rischia di oggettivarli, di fissarli, di cristallizzarli. L’esperienza religiosa dice, invece, che il sacro è, sì, imprendibile e imprevedibile, ma si mostra all’essere umano in modo che, pur manifestandosi come totalmente altro dal mondo (separazione), ad un tempo si rende presente (legame) in esso. Nel cristianesimo, per di più, tutto questo riceve una manifestazione piena nel mistero dell’Incarnazione. Si può dunque affermare che lo spazio sacro ‘incarna’ questa dinamica.

Lo spazio liturgico, la chiesa, ospita in sé questa peculiarità dell’esperienza del sacro, esso è la linea-giuntura che unisce e, ad un tempo, distingue tra loro Dio e l’umano, il divino e il mondano. La liturgia, infatti, è esperienza che permette di far comunione tra divino e umano, senza ridurre o catturare il divino, né snaturare o annientare l’umano. Come suggeriscono i ‘tagli’ di Lucio Fontana, dà luogo ad un’apertura, ad una fenditura tra l’uno e l’altro ma dentro un’unità che non si perde. Già l’ingresso, l’attraversare cioè la soglia della chiesa, la linea che in termini antropologici si direbbe limen, permette di vivere lo stare e l’agire umano insieme alla presenza del divino nella fenditura. Occorre però tener sempre presente che nell’esperienza liturgica nulla è soltanto concettuale, ogni consapevolezza trae origine dalla percezione, dal concreto vissuto.

La chiesa di Podrecca, a mio parere, permette a ciascuno di vivere, in modo molto chiaro, l’esperienza liturgica dell’ingresso di ogni fedele, ovvero il radunarsi della Chiesa intera con il suo Signore (raccogliendosi attorno e insieme a Lui, e non soltanto standogli di fronte). Il suo portale unico, alto ed evidente, consente di sperimentare l’attraversamento della soglia come limen. Si è soliti ritenere che le chiese contemporanee non siano all’altezza della liturgia; in questo caso, forse, ci si potrebbe chiedere invece come si possa esaltare il valore ‘liminale’ di questo portale in una celebrazione in piena sintonia con l’esperienza dell’ingresso che esso consente.

Un’altra componente liturgica mi pare evidente in questa chiesa di Quarto Oggiaro. Dal momento che nella liturgia non si ha a che fare con semplici segni, ogni realtà simbolica – che sia un’immagine, un testo, un gesto o un oggetto – partecipa del valore simbolico di tutte altre. In questo modo tutto quello che si è detto dell’ingresso lo si potrebbe dire di qualsiasi altro elemento rituale. In altri termini non esiste nessuna ‘esclusività simbolica’, semmai si può parlare di ‘salienza’, intendendo precisare, con questo termine sinonimo di ‘sporgenza’, che ogni simbolo manifesta in modo più intensivo un aspetto comune al luogo intero.

Nella chiesa presa nel suo insieme emerge dunque quella che potremmo chiamare una salienza di secondo grado, globale, individuata dalla parola escatologia, parola importante che consente di cogliere la tensione al comune destino ultimo, di salvezza, della comunità dei fedeli e della singola persona generata dalla liturgia.

Quest’esperienza è forse meno evidente nei riti latini, in essi infatti emerge soprattutto nell’orazione dopo la comunione – spesso celebrata alla spicciolata (e letta senza troppa attenzione). Eppure, l’aspetto escatologico della liturgia è estremamente importante, perché senza di esso la liturgia si ridurrebbe a sola memoria del passato. Forse è proprio la sua sottovalutazione o dimenticanza a rendere più difficile ai fedeli la consapevolezza della forza innovatrice e trasformatrice dell’atto liturgico. Senza l’escatologia – è un paradosso – si perde l’attualità del mistero celebrato e quindi anche la forza globale dell’esperienza di Dio, identificata solo sul piano razionale o morale. Il tempo liturgico che mette a tema questa dinamica escatologica con forza è l’Avvento: esso, infatti, è attesa del ritorno di Gesù, attesa della seconda venuta sulla scorta della prima.

L’escatologia, inoltre, è stata spesso fraintesa, la si è spesso trasformata in discorso su paradiso e inferno e sul giudizio finale; la si è piegata ad un’interpretazione di carattere soprattutto morale. I riti dopo la comunione, invece, evidenziano la sua giusta natura: da un lato esprimono la tensione al compimento definitivo del destino di salvezza dell’uomo credente, già sperimentato nello svolgimento della celebrazione (in modo speciale nella comunione eucaristica); dall’altra ne affrettano l’accadere nella storia, impegnando alla testimonianza nella vita quotidiana. L’escatologia non è quindi né una fuga utopica in avanti, né un ripiegamento nell’oggi sulle nostre sole forze. Credo che questa chiesa la evidenzi in modo molto semplice ma efficace: la grande vetrata dietro l’altare, quasi a reduplicare il portale, consente di percepire un altrove; permette di sentire il ‘già e un non ancora’ durante tutta la celebrazione, rendendo quindi la componente escatologica non soltanto il momento conclusivo del rito eucaristico, ma un suo tratto sempre presente. Girolamo Pugliesi

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