Architettura e liturgia (itinerario 2023) – La basilica e chiesa parrocchiale di Santa Maria presso San Satiro, in Milano


 

Bellezza solenne ed intima del senso cristiano milanese

La chiesa di Santa Maria presso San Satiro è notissima; è ritenuta un capolavoro soprattutto per un suo singolo aspetto: per la magnifica prospettiva dell’abside che – al guardarla – sembra annullare la piattezza reale del muro d chiusura della parete sfondandolo in profondità. Soffermandoci in questo luogo abbiamo, però, la netta percezione di vivere all’interno di uno spazio totalmente armonico, vera ‘musica pietrificata’ come dissero nell’Ottocento dell’architettura i filosofi romantici di area tedesca.

Soffermiamoci dunque a contemplare lo spazio nelle sue definizioni geometriche di base e nelle proporzioni che le collegano; registriamone l’ordine organico che corrisponde a quello del nostro corpo vivo, nel quale ciò che è profondo e ciò che è a fior di pelle, ciò che è visibile e ciò che è invisibile sono un’unica res, in una unità inscindibile. Non è difficile, occorre però imparare, cioè abituarsi, a guardare e a percepire, a ‘sentire’ toccando i muri con lo sguardo, odorando quel resto di incenso e di presenze umane che essi trattengono, lasciandoci avvolgere dalla luce diffusa fino a farci penetrare della sua energia di vita, muovendo lentamente e poi sostando, lasciando scorrere in noi il disordine dei pensieri fin che si plachi perché si risvegli, in tutta la sua freschezza, la nostra capacità di attenzione e di ascolto.

Percepiamo allora la chiesa come un corpo dilatato, il nostro corpo più grande che non sapevano di custodire in noi e che ora viene alla luce. Scopriamo che esso è dono, che ci è consegnato da una cultura cristiana che lo ha curato e custodito, lo ha vissuto e tramesso, lo ha identificato come luogo privilegiato per l’amministrazione dei sacramenti, della celebrazione quotidiana della messa in particolare, perché giungessero nella loro configurazione rituale fino a noi per aprirci di continuo al compimento in Gesù Cristo della misericordia divina. Ogni preghiera vive qui della nostra fede e insieme di quella di uno stuolo innumerevole di cristiani che ci hanno preceduto. Qui non si è mai soli: si è sempre in compagnia di un popolo, antico e attuale, e di Dio. Lo si può dire per esperienza diretta di tutto noi stessi, non astrattamente, non concettualmente in primo luogo, ma storicamente e fattualmente.

Proprio per queste ragioni tutto ciò che la storia ci dice di questo luogo è per noi essenziale. Ci interessa sapere che qui, nel IX secolo, l’arcivescovo Ansperto da Biassono di nobile stirpe longobarda fondò, in un terreno di cui era proprietario, una prima piccola basilica, dedicata san Satiro e altri santi, a pianta centrale con campanile, sacello e alloggio per monaci perché collegata al grande monastero di Sant’Ambrogio, consacrata dall’arcivescovo Ariberto d’Intimiano nel secolo successivo e divenuta poi chiesa parrocchiale.

 

Siamo parte di questa gloriosa e lontana storia che si colorò, nel XIII secolo, della devozione per l’immagine della Vergine con Bambino dipinta sopra un piccolo all’altare all’esterno della basilica. Offeso da un gesto vandalico, il Bambino aveva sanguinato. L’icona, arricchita con l’inserimento delle figure del duca Gian Galeazzo Maria Sforza e sua madre Bona di Savoia, venne allora portata all’interno dalla neonata Confraternita, che acquistò un terreno contiguo per una nuova chiesa, quella di Santa Maria in cui siamo. Per la sua realizzazione il duca Ludovico il Moro coinvolse verso il 1480 il giovane architetto Donato Bramante  (1444-1514), cui si deve il progetto definitivo con la rotazione della pianta di 90 gradi rispetto a proposte precedenti, cioè con l’altare maggiore verso Via Falcone per dar il più spazio possibile ai numerosi pellegrini.

All’impedimento di aprire un’abside, Bramante rispose con la sua invenzione prospettica, uno spazio immaginario reso possibile dal possesso di una costruzione geometrico matematica fiorita nel secolo precedente. Grande ‘forma simbolica’ l’avrebbe chiamata nel secolo scorso lo studioso Erwin Panofsky perché essa aveva aperto, soprattutto ai pittori, enormi possibilità espressive secondo una rappresentazione figurativa lineare ritenuta coincidente la visione umana della realtà. Di lunga durata e grande efficacia essa è stata sottoposta, soprattutto tra XIX e XX secolo, a critiche radicali relative ai suoi limiti. La più celebre tra di esse è quella del grande russo Pavel Florenskij che ne lesse, nella maestosa realizzazione delle ‘porte regali’ dell’iconostasi popolate da icone, una potente soluzione rovesciata che immerge chi guarda nell’essenza vera della realtà materiale.

Qui, in questa basilica, possiamo cogliere invece lo spirito tutto occidentale, la potente energia di ‘finzione’ dello spazio dell’invenzione prospettica lineare, disegnata su una superficie piatta come quella di un foglio. Muovendoci nello spazio possiamo verificarne la correttezza figurativa suscitatrice di realistica profondità solo da certi punti di vista. Quest’esito risulta evidente e avvincente se ci si muove lungo l’asse longitudinale che porta dall’altare verso l’altare maggiore, segna dunque l’impatto visivo di chi entra e cammina, in ideale ‘ascesi’, verso il cuore della chiesa.

Lo spazio interno ha pianta longitudinale a croce decussata o a tau composta da aula e transetto; l’aula è a tre navate, le laterali più strette della centrale. I pilastri cruciformi, senza basamento e ornati con capitelli corinzi, reggono la solenne sequenza delle arcate a pieno centro che distinguono le navate: quella principale è ritmata dalla successione di volte a botte con finti lacunari, le laterali sono coperte a crociera. Per la realizzazione dell’adeguamento liturgico, non è stato difficile, antistante all’altare precedente, collocarne uno in semplice forma di parallelepipedo.

Spazi autonomi di bellezza straordinaria sono la sacrestia bramantesca a pianta ottagonale e l’antico sacello di San Satiro, detto cappella di Pietà rimaneggiata da Bramante. Oltre al portale d’ingresso sulla facciata conclusa nel XIX secolo, dopo l’apertura de una nuova piazzetta verso via Torino, in forme neorinascimentali, si accede alla chiesa da porte cinquecentesche aperte su via Falcone.

Si esce da questo complesso architettonico con la percezione di aver vissuto momenti importanti di storia milanese, di aver attinto allo splendore della sua arte intima e solenne insieme, della sua fedeltà al mistero cristiano vissuto da un popolo intero nel corso dei secoli. Il ciclo delle tre visite del 2023, l’attraversamento delle stratificazioni storiche delle chiese frequentate anche liturgicamente in quest’anno si conclude qui, in un momento vertice di religiosità dalle radici antiche ma tuttora viva in chi si lascia catturare ogni volta dalle sue forme e dal suo silenzio che si oppone vittorioso al rumoreggiare del traffico esterno.      Maria Antonietta Crippa

Santa Maria presso San Satiro – Lo spazio rituale armonico

 Il percorso che abbiamo seguito quest’anno ci ha permesso di osservare diverse forme di stratificazioni: stratificazioni per accumulo nella basilica di San Giorgio al Palazzo; stratificazioni ‘per rimozione’ nella basilica di sant’Eustorgio.

Nella chiesa di Santa Maria presso san Satiro siamo immersi in un contesto che parla soprattutto il linguaggio del Rinascimento, ma che riesce a integrare anche elementi precedenti. Questo luogo mi sembra un esempio di armonizzazione di strati architettonici, iconografici e anche liturgici.

Questa Chiesa nasce quasi a congiungere dei monumenti religiosi preesistenti all’impianto della struttura in cui ci troviamo: il sacello di San Satiro e l’immagine miracolosa della Vergine. Si potrebbe dire che la chiesa venga edificata proprio a sancire la sacralità del luogo in cui il miracolo era avvenuto.

Siamo nel Quattrocento, non c’è ancora stato lo strappo Luterano, la Chiesa vive in parte aperta alla nuova cultura umanistica e in parte ancora alla maniera tardomedievale, i suoi usi rituali e liturgici non risentono ancora della distinzione tra devozione e ‘culto ufficiale’ – ricordo velocemente che la vera sistematizzazione in campo liturgico, il controllo dei libri liturgici e l’attenzione al rito, quale rituale fisso a cui attenersi rigidamente (Ritus servandus), sono stati frutto dell’elaborazione teologica successiva al Concilio di Trento. Per questo credo sia significativo notare che qui l’immagine miracolosa sia stata posta con molta naturalezza al centro.

Un aspetto peculiare di questa chiesa, pur nata a motivo della devozione, è che la pietà popolare venga comunque inserita all’interno di un contesto molto ordinato e proporzionato. In questo luogo si evidenzia il valore della devozione e si sottolinea la forza del miracolo, ma non lo si lascia ad una emotività caotica; al contrario si tenta di far ‘convergere’ le emozioni, di ordinarle.

Ed è possibile leggere proprio in questo modo la straordinaria trovata del Bramante, che progetta nel transetto il finto coro prospettico. Credo sia possibile riconoscervi non già uno scopo decorativo o la volontà di creare un’illusione o di stupire. Credo – e osservandolo attentamente appare sempre più evidente – ci sia stata la scelta studiata di orientare lo sguardo. A differenza dei trompe-l’oeil che attirano lo sguardo su di sé stessi, questo finto coro fa convergere lo sguardo sull’immagine della Vergine e sull’altare sottostante. (A tal punto, mi varrebbe da dire, da non farci troppo notare gli attuali adattamenti semi-temporanei dei luoghi liturgici, non riuscitissimi).

Bramante ha qui individuato uno degli elementi più importanti nell’esperienza rituale: l’orientamento. Rispetto a questo tema, che meriterebbe una lunga trattazione, ricordo poche cose che in questa chiesa si rendono evidenti.

Spesso si sente parlare della necessità di mantenere un orientamento nella celebrazione liturgica – non ultimo, ad esempio, il card. Ratzinger, che suggeriva di orientarsi sempre durante la liturgia verso il crocifisso. La questione dell’orientamento però non può essere giocata su un livello puramente contenutistico o dottrinale. In realtà, un fondamento dell’esigenza rituale di orientamento è già nella esperienza fisiopsichica e corporea: noi non sappiamo verso cosa orientarci, finché qualcosa non risveglia la nostra attenzione. Ci orientiamo quando ascoltiamo la voce della persona amata (questa, per esempio, nel rito attuale è l’esperienza strutturante la proclamazione della Parola), ci orientiamo quando vediamo qualcosa di insolito (che sia bello o brutto), ci orientiamo quando percepiamo qualcosa di ‘potente’ (e questa è l’esperienza strutturante le processioni rituali nella celebrazione eucaristica). La spazialità dei luoghi liturgici dà corpo a questa dinamica, orienta i nostri sensi verso un centro di forza, ci permette di percepire un centro. Esso non necessariamente è un centro geometrico, eppure il centro geometrico – come accade qui – può contribuire a guidare verso un centro ‘qualitativo’, può diventarne simbolo, luogo di esperienza.

Ancora più in profondità, è possibile riconoscere come nell’esperienza personale l’orientamento si pone all’avvio della percezione stessa della spazialità. La spazialità, infatti, non è semplicemente data nel rapporto tra un osservatore e uno spazio che gli sta di fronte, ma bensì nel rapporto tra due ‘centri’: il ‘centro’ qualitativo esterno orienta il mio centro, ovvero il mio corpo, e così permette la presa di coscienza della distanza, della profondità, ma anche attiva il movimento nello spazio. La relazione generatrice dell’orientamento risiede dunque nel rapporto tra un ‘centro esterno’ a sé (qui il centro sacro dell’altare e dell’immagine miracolosa) e il centro che è il proprio corpo. Questo fenomeno originario dell’esperienza religiosa e umana in genere è reso qui percepibile molto chiaramente.

L’orientamento, infine, è esperienza simbolica di conversione. Conversione che nel linguaggio biblico si dice con due parole: il più noto ‘metànoia’ (cambiamento di mentalità), e il più concreto e corporeo ‘epistrophé’ (cambiare direzione, rivolgimento). In entrambi i casi, la conversione richiede un ‘ri-orientamento’. In questo modo, nel contesto rituale orientarsi equivale a ‘convertirsi’. Orientarsi nel rito educa alla conversione, perché costituisce un atto di vera conversione.

In questa chiesa, come già ricordato, la genialità e la sensibilità del Bramante gli ha permesso di strutturare un finto coro in grado di far fare esperienza del centro ‘sacrale’ e di creare un percorso percettivo e rituale di orientamento, pur utilizzando un’illusione ottica. In questo caso essa permette, paradossalmente, un vero atto di orientamento verso un centro, reale e percepibile, sacro. Questo orientamento, quindi, dà corpo all’esperienza rituale e religiosa.

Tutti gli strati, accumulatisi nel corso dei secoli in questa chiesa, sono certamente marcati da un ordine molto coerente impressole dall’architettura del Quattrocento; ogni successivo intervento necessariamente dovrà misurarsi con attenzione con questo impianto, molto equilibrato e armonico.            Girolamo Pugliesi

 

 

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