Benedire o non benedire? Questo è il dilemma. Da un libro appena uscito da Queriniana


È appena uscito un volumetto che raccoglie tre interventi tenuti in occasione di un Convegno della Pastorale LGBT+ italiana. Oltre ai contributi di A. Fumagalli, di G. Piva e mio, in Appendice si trova anche il testo di un Dialogo della Pastorale LGBT+ con il cammino sinodale italiano. Pubblico qui uno stralcio del mio intervento (pp. 43-46)

L’aggettivo “pastorale”: inclusione comunitaria, non paternalismo clandestino.

Capisco bene e apprezzo in modo convinto le intenzioni di apertura che papa Francesco ha voluto porre come obiettivo per le Congregazioni – Dicasteri (della fede e del culto). Ma per determinare davvero una svolta pastorale, una reale apertura, occorre intenderla e fondarla sul piano sistematico, istituzionale e giuridico: quando sono implicate in un provvedimento magisteriale le “forme di vita”, il riconoscimento formale diventa parte costitutiva e decisiva della accoglienza. Una accoglienza senza riconoscimento è una contraddizione. Se si accede invece ad una pastorale che assume questa forma “ufficiosa”, la svolta non arriva al suo fine, perché lavora sempre e soltanto “sotto il pelo dell’acqua”: ossia non acquisisce davvero il concetto di “pastorale” che il Concilio Vaticano II ha introdotto con nuova autorevolezza. Una “benedizione pastorale” che non elabori in profondità la scelta che Tametsi ha fatto quasi 500 anni fa in un altro mondo, ma che ne resti vittima, si vota al fallimento. Che cosa è una benedizione che non ha né spazio, né tempo, né forma, né circostanze? Che cosa è una “pastorale” che si riduca quasi ad un esercizio clandestino del ministero? Una “tradizione” che non possa “fare tradizione”, perché non lascia e non può lasciare alcuna traccia scritta di sé, rischia di diventare una mistificazione, non una vera realtà pastorale. Avere il coraggio di una “altra ufficialità” (con tutta la prudenza geografica e storica, ma anche con tutta la determinazione necessaria) è la via obbligata per orientare davvero la coscienza comune e la consapevolezza individuale.

Il compito di accoglienza pastorale chiede perciò la elaborazione di due priorità:

a) Elaborare una nuova definizione di “forme di vita di relazione (anche sessuale)” rispetto a cui poter esercitare il discernimento della benedizione: senza uniformare situazioni diverse, ma dando riconoscimento ad ogni condizione per quello che realizza in termini di “bene”. Questa è la via per poter benedire, nelle forme differenziate, uno spettro di situazioni più ampio di quello che la “istituzione sacramentale” può prevedere. La identificazione tra liturgico e sacramentale e la mancanza di “articolazione liturgica” della azione ecclesiale sono qui le questioni che restano faticose o del tutto bloccate sul piano dottrinale. Dare riconoscimento alle forme di esperienza del bene relazionale non è solo una possibilità, bensì un compito ecclesiale. Qui la Chiesa non sta di fronte ad una eventualità accessoria, ma dinnanzi ad un compito originario.

b) Uscire dal cono d’ombra di una “competenza esclusiva” della Chiesa in materia di matrimonio, di relazioni di coppia, di comunione di vita implica una accurata differenziazione delle identità tra battesimo e matrimonio, che chiede di uscire dottrinalmente dagli automatismi che Tametsi ha assunto dalle posizioni teologiche del tempo, e che poi si sono cristallizzati nell’irrigidimento ottocentesco contro lo stato liberale, prima con Pio IX, poi attraverso il Codice del 1917 fino al codice del 19831. Questa linea dottrinale offre ancor oggi una ricostruzione diretta e immediata del rapporto tra battesimo e matrimonio, che non permette più di leggere le “forme di vita”. In sostanza dovremo arrivare, ecclesialmente, al riconoscimento di forme di unione tra battezzati che non sono sacramento del matrimonio, così come la dottrina ha saputo riconoscere anche dopo il 1563, almeno fino XIX secolo e prima del CJC che ha imposta legalmente ciò che oggi può essere discusso pastoralmente e teologicamente. Il diritto non sta al di sopra della teologia, ma al di sotto. Imporre teologicamente una norma giuridica non sempre è segno di fedeltà alla tradizione (come dice, con efficacia, AL 304).

Questi due fronti irrisolti convergono in una condizione paradossale: da un lato non si vuole in nessun modo tradurre la dottrina, che rimane costruita in modo tale da assicurare una definizione della “condizione della relazione omosessuale” come condizione di peccato; dall’altro si vuole aprire uno spazio di manovra di carattere pastorale, ma senza elaborare una nozione di benedizione diversa da una sorta di “ufficializzazione” e “regolarizzazione”. Così la “benedizione pastorale”, per esistere, deve cautelarsi sia dall’oggetto della benedizione, sia dallo strumento che mette in opera. E’ evidente che, a queste condizioni, una “benedizione pastorale” non è concepibile neppure come “ente di ragione”. Senza una doverosa elaborazione sia del giudizio ecclesiale sulle “forme di vita”, sia degli strumenti con cui la chiesa assume iniziative pastorali, lo scopo dell’intervento messo in campo da FS può facilmente risultare privo di effetti sostanziali.

Se uno volesse “ungere i malati” di nascosto, saremmo subito pronti a censurarlo2. Qualcosa di simile accade oggi per la “benedizione”, catturata da un lato da una comprensione unilaterale della Chiesa come “garante dell’ordine pubblico”, così privata di ogni spessore profetico. Dall’altro costretta a coltivare solo quasi “di nascosto” forme di “vicinanza” viziate da paternalismo clandestino3.

1Per un approfondimento di questa vicenda tra XIX e XX secolo rimando a A. G. Fidalgo – A. Grillo (edd.), Matrimonio e famiglia. Da ‘Arcanum divinae sapientiae’ ad ‘Amoris Laetitia’, Milano, Paoline, 2022.

2 C’è un esempio che viene dalla mia diocesi di Savona-Noli e che io cito sempre quando parlo di “unzione dei malati”. Il cappellano dell’Ospedale della mia diocesi, circa 50 anni fa, aveva elaborato una perfetta “unzione dei malati” clandestina, di cui nessuno si accorgeva: in questo modo superava brillantemente le resistenze dei parenti e talvolta anche degli stessi infermi. Mutatis mutandis, è evidente che quella risposta dipendeva da una inadeguata comprensione della azione ecclesiale in quel contesto: un problema dottrinale non si risolve mediante finzioni.

3 Subito dopo la pubblicazione di Amoris Laetitia una nota giornalista, che si picca di parlare di teologia e di pastorale, aveva detto che papa Francesco avrebbe dovuto scrivere quel testo, ma comunicandolo “sub secreto” ai vescovi, perché con questa conoscenza pubblica, il testo era diventata motivo di scandalo. Io avevo risposto che la Chiesa agisce come una comunione nello Spirito, non come una associazione mafiosa.

 

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