Bot


«In che modo ineguaglianze eccessive finiscono con l’esacerbare le passioni identitarie? “A partire dal momento in cui si pensa che vi sia un unico modo di gestire l’economia, è automatico, si passa all’identitario”, risponde Gilles Dollonsoro [docente di scienze politiche a Paris-I]. “Ovunque è così, anche senza immigrati”. Per lui il tornante risale agli anni 1980: rivoluzione reaganiana in USA, choc thatcheriano in UK, tornante rigorista in Francia, lo scenario è uguale ovunque. “È là che si è entrati in un sistema di demolizione sistematica delle conquiste sociali e dello Stato agente di regolazione, catturato dalle élite economiche”» [Christophe Ayad, «Des chefs de guerre afghans aux ‘gilets jaunes’», Le Monde, 27/08/2019, p. 25].
«Non le idee. Non i contenuti. Non la trasparenza nell’operato. Non l’attenzione alla qualità, o ai toni, o al ruolo istituzionale. Nulla di tutto questo. L’obiettivo è, in primis, quello di eguagliare i concorrenti nella presenza capillare sui social network» [Giovanni Ziccardi, Tecnologie per il potere. Come usare i social network in politica, Cortina 2019, pp. 24-5]. «Comune è, ormai, il prediligere i benefici più immediati dello strumento tecnologico, soprattutto la sua capacità di amplificazione e generazione di viralità del messaggio, per abbassare la discussione, il confronto e l’attività politica sino a livelli da lotta di cortile, sfociando spesso nell’offesa personale. Si noti, poi, che è venuta a cadere nel tempo la distinzione tra un profilo personale e un profilo istituzionale del politico, del candidato, dell’elettore o dell’attivista, con account, forum e siti web di partito che sono utilizzati senza indugio anche per la veicolazione di messaggi personali. Ciò ha portato alla scomparsa, sui social network, dell’idea di profilo privato del soggetto, creando un feed [flusso ininterrotto] di contenuti dei più vari. Ciò con grande gaudio di parte della stampa, che può scavare anche nel privato, ormai reso pubblico, dei singoli individui» [ivi, pp. 37-8]. «L’asimmetria tipica degli attacchi informatici può far sì, oggi, che un solo individuo con particolari competenze possa fare la differenza, che un gruppetto di cinque persone possa attaccare uno Stato, che una ‘fabbrica’ di profili falsi riesca a dar loro visibilità in pochi secondi in tutto il mondo» [ivi, p. 39]. «Il modus operandi è ormai chiaro, e diffuso in tutti i Paesi: il politico, già di prima mattina – Trump docet – propone, via Twitter o Facebook, i temi che saranno il perno della discussione su un determinato fatto. L’arrivare prima degli altri, ossia il commentare pochi secondi dopo la pubblicazione del messaggio, è fondamentale per impostare il dibattito e, molto spesso, dare il via a tutte le altre discussioni, che saranno comunque condizionate dalla prima. L’arrivare per primi si intende non tanto agli occhi dei propri follower in questo caso, ma più in generale del grande pubblico, poiché ciò consente di porre un’ipoteca che condiziona la discussione futura sino al dibattito sul prossimo argomento» [ivi, p. 52].
«Si assisterà sempre più, in definitiva, a una politica generata su schermi piccoli – quelli degli smartphone – basata su un’attenzione blanda e poco propensa all’approfondimento e su tempi di attenzione molto brevi, sia con riferimento ai contenuti sia alle strategie da adottare» [ivi, p. 61]. «La scelta di un politico di avere la sua pagina su Facebook o su Instagram è diventata più importante della gestione del sito web [la Bestia più di Rousseau, prima della crisi salviniana d’agosto: ndr]. Tanto più che si tratta di una pagina che spesso è il politico stesso, dal suo telefono cellulare, a poter gestire. Al contempo, sullo sfondo, agiscono analisti, esperti di comunicazione e di management dei dati che cercano di tradurre migliaia, se non milioni, di impulsi (tweet, like, condivisioni, stati d’animo, commenti) in qualcosa di utile dal punto di vista politico, in un’ottica sia di comunicazione sia di interazione con il pubblico» [ivi, pp. 62-3]. «Come nota bene sul punto Alessandro Dal Lago, con particolare riferimento allo ‘stile’ di Trump su Twitter, si possono individuare delle caratteristiche chiare in una politica veicolata ormai attraverso uno smartphone. Lo stile di Trump, nota lo studioso, è esemplare del populismo digitale, sia per il linguaggio rozzo (non per niente Trump è accusato continuamente dalla stampa americana di essere ‘semplicemente ignorante’) sia per l’atteggiamento da bullo che comunica ai lettori. Soprattutto, nota Dal Lago, va preso in considerazione lo strumento scelto, Twitter, ossia il social più seguito per conoscere il punto di vista di un leader, cui Trump dedica un’attenzione incessante. Nei giorni in cui le sue posizioni sono più controverse e discusse, ha infatti l’abitudine di rilasciare persino 10 tweet, prendendo contatto quotidiano con più di 20 milioni di persone e creando, così, una enorme comunità di persone riunite attorno al suo leader» [ivi, p. 64]. «Il sogno di correlare il digitale al reale, e di creare un loop di feedback e impulsi sempre più accurato che permetta di elaborare ulteriori strategie, e di aggiungere conoscenza a conoscenza, è ormai diventato realtà» [ivi, p. 67].
Stato e popolo si impastano nel populismo, «nell’ignorare i fatti e la ragione a favore delle menzogne e dell’emozione» [Alistair Campbell, «Trump et Johnson, chefs de file d’un monde post-vergogne», Le Monde, 10/08/2019, p. 26]. È nazionalismo di ritorno e nella crisi salviniana d’agosto «un analista di Bloomberg, l’agenzia finanziaria, ha scritto della complessità e dell’importanza di questo passaggio politico e ha colto un punto: “La crisi servirà a determinare se i movimenti populisti diffusi ovunque trarranno nuovo slancio oppure cominceranno a sgonfiarsi”» [Stefano Folli, «Una resa senza dimissioni», la Repubblica, 18/08/2019, p. 34]. Cavie noi italiani, topini, tapini?
Bot. «I bot (da ‘robot’) sono account, chat o programmi che hanno ‘vita propria’ e sono in grado di comunicare in maniera indipendente e dialogare, sui social network o sui blog, con un grande numero di persone» [Ziccardi, cit., p. 250]. Bot sono pure i nostri buoni ordinari del tesoro a ricordarci che, «esattamente come il denaro, la parola acquista il suo valore solo entro un sistema, e nessuno – se non in piccolissima misura, e con la collaborazione di innumerevoli altri – può far qualcosa per mutarlo. I sistemi in cui denaro e linguaggio assumono un valore sono sistemi sociali. Denaro e linguaggio compaiono nell’uomo (e solo nell’uomo), in virtù della sua (particolarissima) natura di ‘animale sociale’. Più esattamente, di animale che lavora in collaborazione; in una collaborazione che, attraverso denaro e parola, è augurabile divenga sempre più volontaria» [Vittorio Mathieu, «Denaro e linguaggio come strumenti di progetto», introduzione a Marc Shell, Moneta, linguaggio e pensiero, tr.it. il Mulino 1988, p. 9]. «Né il denaro né il parlare hanno efficacia altrimenti che facendo agire» [ivi, p. 11]. «Se tutti, un giorno, cessassero di lavorare per gli altri, il denaro perderebbe tutto il proprio valore. Il portatore di quel titolo di credito, dunque, è in grado di rimetterlo in circolazione solo perché, intorno a lui, è presente un sistema che garantisce (fin dove una garanzia umana può valere) che quel credito è ‘moneta buona’, capace di farsi obbedire. Quando tale fiducia venisse meno, il denaro non avrebbe altro valore che quello di una lingua morta». [ivi, p. 13]. «La fonte di ricchezza del linguaggio è inesauribile, più se ne versa e più ci si arricchisce. Sempre che non si giri a vuoto, che non si verbìgeri sul nulla» [ivi, p. 15]. Come appunto fanno i social network politici.
«In una recente intervista, lo studioso Stefano Epifani ha individuato – procedendo per punti – alcune criticità del sistema politico attuale in rapporto all’utilizzo dei social network in politica. Il primo elemento di frizione viene evidenziato nell’attività di diffusione di messaggi politici semplici e ripetitivi che ha, come conseguenza immediata, quella di generare spesso una dissociazione tra contenuti e messaggio, e che viene così a qualificare i social network quali strumenti di semplificazione del messaggio stesso. Epifani nota, su questo punto, come le tanto attese dinamiche conversazionali evolute che erano state promesse dai social network si siano infrante contro campagne elettorali avvitate su messaggi basati su una dimensione che è definita memetica, ossia caratterizzata da una complessità che deve necessariamente essere risolta in trenta secondi, nello spazio di un tweet o nel tempo che un utente è disponibile a seguire un video su Facebook o su un altro media. Il tutto a causa di un’attenzione generalizzata che appare essere ai minimi storici. Il secondo aspetto su cui si concentra lo studioso è quello della polarizzazione. Sul punto, Epifani sostiene che la grandissima polarizzazione nasce da quelle che vengono definite camere dell’eco. Si tratta di una situazione tipica dei social network, nella quale ogni utente – nel caso che ci interessa, ogni elettore – è chiuso all’interno della sua camera dell’eco, nella quale finisce per sentire sempre di più, e con sempre più ridondanza, proprio ciò che vorrebbe sentire. Ciò, nota Epifani, genera naturalmente alcuni fenomeni distorsivi della realtà che sono prontamente cavalcati da chi si occupa di comunicazione politica, tanto che tutta la campagna elettorale si basa solitamente su elementi che hanno una dimensione di distanza dalla realtà fattuale sempre più alta. La logica conseguenza è che ognuno si sente legittimato a dire qualsiasi cosa, abbastanza certo che non ci sarà mai un reale confronto. “Poco importa se viene promesso qualcosa che l’Europa non consente” – nota Epifani – “poco importa se viene promesso qualcosa che l’economia non consente. L’essenziale in questo momento è agganciare l’elettore attorno a una promessa, che diventa del tutto inverificabile e che perde di significato cinque minuti dopo che si è messa una X su una scheda elettorale”. Il terzo aspetto critico appare connesso al delicato tema delle fake news e di una comprensione responsabile di ciò che realmente sta accadendo. Su questo punto Epifani è fermo: individua un rischio altissimo per gli utenti di essere vittima di azioni di disinformazione». «Un quarto tema di enorme importanza è legato al cambio di linguaggio, e ai cosiddetti messaggi ‘di pancia’. Lo studioso evidenzia come non sia un caso che i partiti presso i quali si registra il maggior livello di engagement – di coinvolgimento misurabile in termini di dati quantitativi – siano proprio quelli che basano la loro comunicazione su messaggi di pancia (che vanno dal tema degli immigrati a quello dei vaccini) e che, in qualche modo, richiamano una dimensione di contenuto spesso completamente distonica e distopica rispetto alla realtà. Ciò è testimoniato, conclude, da una generazione di politici che appare unicamente concentrata – proprio come molti adolescenti – su come ottenere il prossimo like». [Ziccardi, pp. 77-79].
E di imprenditori concentrati unicamente sul profitto. «Mercoledì 12 luglio, Dennis Muilenburg, presidente e direttore generale di Boeing, ha indicato che la produzione del 737MAX, al suolo dal 31 marzo, potrebbe interrompersi». «Boeing potrebbe perdere più di 10 miliardi di dollari», «oltre gli indennizzi ai familiari delle vittime di due disastri e le possibili multe di autorità americane». «Anche se temporaneo, l’arresto si ripercuoterà su fornitura e componentistica». «Soprattutto, nessuno vuole pensare che Boeing rinunci a produrre il MAX. Il mancato guadagno potenziale per Boeing sarebbe colossale: circa 400 miliardi di euro. Dovrebbe poi indennizzare le compagnie per i 500 MAX già consegnati o in consegna. Se l’aereo sarà autorizzato a volare, Boeing dovrà infine convincere i piloti. Non è scontato. Secondo un dirigente del Sindacato nazionale dei piloti di Air France, il 737MAX ha ‘un vero problema’ originario. Secondo lui, al contrario del suo concorrente Airbus A320Neo, non può volare senza il concorso dell’informatica di bordo» [Guy Duthueil, «Boeing envisage pour la première fois un arrêt temporaire de la production du 737 MAX», Le Monde, 26/07/2019, p. 12].
«Per massimizzare i profitti distruggiamo il nostro capitale ambientale e sociale. Se il capitale è finanziario, è frode: non si può contabilizzarne il consumo come reddito. Ma per il capitale sociale e ambientale diventa una sana gestione per gli azionisti?». [Jean-Philippe Robé, «Quand le big business réinvente l’eau chaude», Le Monde, 27/08/2019, p. 24]. «Il grande rischio per l’elettorato popolare è “passare da un ghetto sociale a una reclusione politica col solo denominatore comune di un rapporto negativo con gli altri e il resto del mondo”» [Yann Algan, Elizabeth Beasley, Daniel Cohen e Martial Foucault, Les Origines du populisme (Seuil 2019), cit. in Françoise Fressoz, «Les ressorts culturels du vote populiste», Le Monde, 29/08/2019, p. 9]. Gli immigrati velano gli odi tra i nazionalisti di tutto il mondo, tutti con una piccola egemonia da imporre sull’equilibrio generale. La stessa alternativa già evidente nel 1948, quando lo storico tedesco Ludwig Dehio scrisse appunto Equilibrio e egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna [tr.it. il Mulino 1988], constatando che «abbiamo bensì realmente assoggettato il mondo esterno in una misura che nessun Faust alla soglia dell’età moderna poteva presagire. Ma in cambio abbiamo perduto il dominio sul nostro mondo interiore e così la vittoria si muta inattesamente, ma logicamente, in una sconfitta. Siamo schiavi delle nostre proprie creazioni, dello stato-potenza in primo luogo. I servi si sono eretti a padroni perché noi abbiamo venduto a loro in segreto l’anima nostra. La favola del patto col diavolo è divenuta realtà. La morte ci mostra la sua ghigna nel momento in cui stendiamo la mano temeraria per cogliere i più alti e più attraenti frutti della civilizzazione» [ivi, p. 246]. «Opporsi a quella vuol dire ravvivare la forza che è la radice della civiltà, la vita personale», «il cambiamento interno dell’individuo, che solo promette l’instaurazione di un’esistenza ragionevole » [ivi, p. 249].

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