Breve lettera a Pietro De Marco, senza riduzioni politiche della liturgia


Caro Pietro,

ancora una volta discutiamo. Ho letto il tuo articolo (uscito oggi su Messainlatino, qui) e, come sempre, ne ammiro il tono e la cultura e scopro sempre che, anche nella durezza delle definizioni, tu non cessi mai dall’essere affettuoso. Mentre con Alcuin Reid abbiamo tante volte intrecciato un dialogo tra sordi, con la percezione che, dall’altra parte, vi fosse un semplicismo teologico e liturgico, nutrito solo di arroganza, con te ho sempre percepito non solo la amicizia che ci ha legati da decenni, anche quando abbiamo discusso in modo più forte, ma la correttezza e la stima reciproca. Per questo abbiamo scritto insieme, nel 2013, un libro (presentato qui) nel quale abbiamo costruito una piccola “quaestio medievale”, con “videtur quod” e “sed contra”. Già allora mi sembrava che tu avessi, dei liturgisti, una visione solo politica e solo appiattita sulla “rivoluzione del 68”. Questo, già allora, ti segnalavo che non è una buona via per capirli. Ha in comune, con J. Ratzinger-Benedetto XVI, la demonizzazione del “nemico”, che non porta buoni frutti nella ricostruzione né del Movimento Liturgico, né della Riforma Liturgica. Coloro che si occupano seriamente di liturgia non strumentalizzano politicamente i riti, ma vogliono restituire ai riti la loro autorità, che non si può in alcun modo ridurre a “politica”, come fanno tradizionalismo e progressismo. In questo tu sei sempre tentato di spostarmi in un estremo “progressista” e di confondermi con un “marxista”, mentre io sono semplicemente un teologo che cerca di dare ad ogni cosa il suo valore, e che non può tacere di fronte al tentativo di un papa di rendere accessorio un Concilio. Il fatto che io prenda sul serio il Vaticano II esattamente come il Concilio di Trento (che tu sai quanto io apprezzi per il suo intento riformatore) non può essere letto come “marxismo”, ma come apertura della Chiesa al futuro. Correlare la tradizione al futuro è il senso più antico di paradosis e di traditio, altrimenti facciamo della fedeltà al Signore Gesù una contraddizione con il dono dello Spirito Santo.  Rispetto al libro (2013) oggi discutiamo a parti inverse: allora era vigente SP, oggi vige TC. Allora io già sostenevo che SP non aveva fondamento teologico: l’idea di due “leges orandi” parallele era e resta un vero “monstrum” teologico. Che ad averlo concepito fosse il “papa teologo” è una aggravante. Il che dimostra che, sul piano liturgico, come sappiamo, scattano non solo evidenze, ma sentimenti, appartenenze e attaccamenti difficilmente razionalizzabili. Oggi, grazie a Francesco (con il quale tu più volte te la sei presa e ne abbiamo discusso in questi anni) abbiamo guadagnato un punto di vista più tradizionale. Ed è curioso che sia stato Benedetto XVI a cedere allo spirito post-moderno della anarchia, e che Francesco ristabilisca le condizioni di una fedeltà ecclesiale. Sarebbe un errore che tu ti accodassi (non con le parole, ma col sentimento) alla idea che il primo era un pontefice liberale, mentre il secondo sarebbe uno stalinista. Io penso invece che il primo abbia ceduto alla lettura ideologica del Concilio che minacciava i padri Conciliari (lui compreso), mentre il secondo è solo un “figlio del Concilio” e gode di questa condizione anzitutto biografica. Io vedo più condizionamenti “politici” nel primo che nel secondo e credo che una “ecclesia universa” non possa essere una “ecclesia introversa”. Ti sono grato per la risposta e considero anche questo piccolo scambio un segno di amicizia.

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