Che cosa significa che la parrocchia è una istituzione? Dall’incrocio alla rotonda


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Da tempo sono convinto che per comprendere il ruolo del diritto canonico nella vita della Chiesa, e per correggere alcune esagerazioni che non sono poi così rare, si può far ricorso ad un paragone a prima vista troppo ardito: ossia una analogia automobilistica. Il vantaggio dell’esempio, con il quale vorrei introdurre il mio ragionamento, è che si presta bene ad una chiarificazione del ruolo del diritto rispetto alla “esperienza da disciplinare”.

Il codice della strada e l’esperienza della strada

Dunque iniziamo da un codice diverso da quello di diritto canonico. Ossia dal codice della strada. E’ evidente che nessuno in Italia, se vuole guidare l’automobile, può fare a meno di un riferimento strutturale alle norme del codice della strada. Guai se non conoscessimo le regole con cui il codice disciplina la “circolazione stradale”. Anzi, le “strade” sono diventate una “istituzione” grazie alla completa disciplina che ne regola l’uso da parte di tutti gli utenti (pedoni, ciclisti, motociclisti, automobilisti, camionisti…). Ma è chiaro che nessuno chiederebbe al codice di chiarirgli che cosa deve farsene della bicicletta, dove potrà dirigere la sua pedalata, a quale spiaggia indirizzare l’automobile o verso quale montagna far salire la sua moto. Tutto questo è  chiaramente “fuori dal codice”, sta al di qua e al di là del codice e nessuno pretenderà mai che sia il codice a dirglielo. Non succede mai che si usi la macchina solo per applicare il codice!

Il Codice di diritto canonico e l’esperienza della Chiesa

Mutatis mutandis, anche il codice di diritto canonico ci permette di vedere disciplinata e ordinata la vita cristiana, ma esso non definisce mai in senso pieno né la fede, né la speranza, né la carità, ma neppure la parrocchia, il presbitero, il vescovo e neppure il papa. Ne offre una preziosa disciplina, che trae dalla parola di Dio e dalla sapienza della Chiesa, e che solo in punti delicati e estremamente puntuali può essere definita “di diritto divino”. Ciò che della parrocchia sappiamo, e che abbiamo potuto vivere anche grazie alla mediazione del diritto canonico, ha in molte altre fonti la sua origine. Tali fonti, così importanti, nulla hanno di strettamente giuridico. Proprio qui, io credo, si dovrebbe aprire nella Chiesa, anche a livello ufficiale, una grande riflessione sulla parola “istituzione”, sul senso di questo grande termine, sul suo rapporto con la teologia, con la missione e con la mediazione giuridica. Prima di approfondire brevemente questo aspetto decisivo, vorrei specificare che queste mie annotazioni in nessun modo vogliono aggirare la mediazione giuridica. Anzi, proprio quando pretendessero di aggirarla si consegnerebbero nelle mani di un positivismo giuridico rozzo e presuntuoso. Viceversa, la scoperta di una senso più ampio di “istituzione”, che dobbiamo riscoprire, implica la accurata elaborazione di una diversa funzione anche del diritto, che dovrebbe recuperare, anche nella Chiesa, la fondamentale dialettica – costitutiva del sapere giuridico di sempre – tra “ius conditum” e “ius condendum”. Nella Chiesa, più ancora che altrove, il diritto dovrebbe sempre restare “al servizio di altro”. Non raramente, negli ultimi decenni, abbiamo invece visto che tutto il resto della Chiesa veniva ridotto “a servizio del diritto canonico”. Vedremo tra breve quali ne sono le ragioni.

Che cosa è  una”istituzione”?

Una illusione “positivistica”  – che nella Chiesa è entrata solo a partire dal Codice del 1917 – è quella di pensare che è “istituzione” tutto ciò che viene disciplinato dal codice. E che pertanto si debba considerare la legge, e in particolare il Codice, come il fondamento e la giustificazione della istituzione. Questo modo di ragionare, che ha fuori dalla chiesa la sua origine, poiché non è per nulla una idea tradizionale, assume però nella Chiesa una significato e una portata a dir poco drammatica. Perché, se le cose stessero come vorrebbe questa teoria tardiva, l’unica difesa della istituzione sarebbe il Codice e la resistenza ad ogni sua modificazione. Attestare la Chiesa sulla difesa del diritto canonico costituisce un grave fraintendimento della parola “istituzione”, perché  riduce la istituzione alla sua mediazione giuridica. La parrocchia è “istituzione” non anzitutto perché “normata dal codice”, ma perché, con la sua sintesi di vita comune, annuncio, celebrazione e preghiera, “si pone come esperienza ecclesiale e pone i suoi membri in questo ambito”: le “istituzioni” sono tali perchè sono “condizioni della esperienza”. Proprio per questo motivo, per questa loro caratteristica, stanno essenzialmente “sopra” e non “sotto” il diritto e la legge.

La parrocchia “istituisce forme di vita credente”

Dunque la parrocchia non è tale “perché si adegua al codice di diritto canonico”, ma perché opera una sintesi preziosa tra luogo di vita, forma di vita, annuncio della parola, preghiera personale e comunitaria, celebrazione ritmata nel tempo, cura dei prossimo. Questo intreccio umanamente complesso ed esistenzialmente ricco trova nel Codice solo un “profilo minimale”, che viene strutturato “sub specie sacrae potestatis”. Di tutto il resto, anche giustamente, il Codice si disinteressa. Allo stesso modo tutto il resto deve disinteressarsi del Codice! La pretesa di desumere la “natura della parrocchia” dal Codice è il frutto di una visione chiusa e del tutto unilaterale, attesta  una grave povertà di esperienza e rappresenta uno strabismo pesante, al quale sono soggetti alcuni canonisti e qua e là anche qualche pastore. La istituzione è la parrocchia, non la disciplina che il codice ne offre. Per questo, una valutazione della “parrocchia in uscita”, e della esigenza di “conversione pastorale” che da alcuni decenni percepiamo come urgente, non può in alcun modo essere adeguatamente compresa solo con una sfilza di citazioni dal codice. Piuttosto, il lavoro da compiere è di adeguare non la parrocchia al codice, bensì il codice alla parrocchia. Il campo della “conversione pastorale” è un tipico ambito nel quale il giurista dovrebbe sentire – per istinto ecclesiale e per lunga tradizione canonistica – l’inclinazione a pensare più in termini di “de iure condendo” che di “de iure condito”. La “istituzione” parrocchia, se vuole continuare a istituire esperienza credente, deve darsi norme in parte del tutto nuove. E’ la “poikilia” di cui Triboniano parlava già ai tempi del Codice di Giustiniano. Non si può certo confonderla col…modernismo! Sarebbe uno strano modernismo del VI secolo!

Di nuovo il codice della strada: dall’incrocio alla rotonda

Alla “istituzione strada” si deve dare il primato, anche sul codice della strada! Se l’esperienza della circolazione stradale, ad un dato momento, forse grazie agli scambi a livello europeo, scopre che rispetto all’incrocio, la “rotonda” tende a diminuire gli incidenti e ad abbassare i tempi di percorrenza, ecco che anche uno dei “dogmi del guidatore” – dare la precedenza a destra – può capovolgersi. E oggi ci siamo abituati, nelle rotonde, a dare la precedenza a sinistra. Una grande rivoluzione, un grande progresso, un abbassamento della conflittualità stradale, ha avuto come prezzo l’adeguamento della legge alla realtà. La “istituzione”, ripeto, è la strada, non il codice.

Una dilatazione della sapienza del can 1752

Proviamo, dunque, a capovolgere la prospettiva, anche in ambito ecclesiale. La “istituzione” è la parrocchia, non la normativa che la regola. Se la parrocchia non funziona è perché esige una normativa nuova, che sappia ascoltare i segni dei tempi e rimodellare le forme dell’annuncio, della celebrazione e della carità. Per farlo esige uno “strumento giuridico” che non pensi con le categorie di “sacra potestas” o di “sacerdozio” o di “societas perfecta” di 500 anni fa. Ma, deve essere detto molto chiaramente, questo non può essere il punto di partenza, ma è punto di arrivo. Se il modo di “annunziare la parola”, di “celebrare il mistero” e di “promuovere vita fraterna” ha assunto nuove evidenze, nuove strutture, riconosce nuove autorità e valorizza soggetti nuovi, allora il diritto deve riconoscerlo, con strumenti teorici e pratici nuovi, che sono da elaborare con urgenza e da mettere a disposizione dei pastori, dei battezzati e delle battezzate, dei catechisti e delle catechiste, degli operatori e delle operatrici. Nasce una ministerialità articolata e differenziata, che corrisponde a forme di vita ecclesiale in parte del tutto nuove. Non dovremo allora comprimere le forme nuove nelle categorie giuridiche vecchie, ma modellare nuove categorie giuridiche sulla base delle nuove forme di vita ecclesiale.

Non è la legge a rendere la parrocchia una istituzione. Ma è la parrocchia che, istituendo la fede nel mondo, esige una legge che le permetta di svolgere la propria missione, qui ed ora. La legge disciplina i conflitti in cui la parrocchia si trova a vivere. Ma il Codice non è stato introdotto nella vita della Chiesa 100 anni fa per essere servito, ma per servire. E quando le normative superate o le concezioni inadeguate diventano uno ostacolo, devono essere riformate. Il codice ricorda questo atteggiamento sapienziale nel suo ultimo articolo, anche se lo fa con un linguaggio che non è più il nostro. Potremmo dire che al posto della “salvezza delle anime” la legge suprema dovrebbe essere formulata in un linguaggio forse più ricco: ad es. come comunione con Dio. Ma questa salvezza, o comunione, è comunque affermata – dal can 1752, l’ultimo del codice – in rapporto ad un elemento “istituzionale” come il trasferimento di un parroco. E si sa che la legge, se è lungimirante, sa bene che la “comunione con Dio” non è istituita dal decreto del Vescovo di trasferimento, che ha le sue buone ragioni, ma dalla forma di vita che la comunità ha saputo elaborare nel suo cammino di fede. La forma giuridica, anche in questo caso, è al servizio della esperienza di comunione e non può  mai sostituirla. Ma la sapienza del Codice non può essere concentrata tutta soltanto nell’ultimo canone! Dilatare questa sapienza canonica sarà possibile se accetteremo, anche in sede giuridica, una nozione di istituzione (e di parrocchia) meno positivistica e meno formalistica. Allora le ragioni delle “istituzioni” suoneranno anche, se Dio vorrà, a favore della urgenza di una riforma strutturale e non soltanto come promozione del rinnovamento solo lessicale, che copre una inerzia normativa senza vero respiro istituzionale. Solo allora potremo avere, ufficialmente, anche una parrocchia-rotonda e non solo parrocchie-incroci.

 

 

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