Clero uxorato e clero concubinario: due realtà, un solo destino (di Claudio U. Cortoni)


cortoni

Con questo documentato studio, il prof. Cortoni mostra in modo convincente come le categorie con cui si giudicava della “forma di vita” del chierico nell’epoca tardo antica e medievale rispondevano non solo ad una maggiore articolazione interna alla vita ministeriale, ma facevano i conti con una comprensione del matrimonio spesso altamente riduttiva. Così, non solo è utile riconoscere che non vi era alternativa tra “clero uxorato” e “clero celibatario”, visto che entrambi vivevano “in continenza”, essendo escluso che il chierico potesse generare. In questo ambito si inserisce anche la categoria di “clero concubinario”, che spesso si è confusa con quella del “clero uxorato”, portando ad un giudizio negativo che ha colpito entrambe, perdendo il senso della distinzione, che appare ancora chiara al Concilio Lateranense IV. Ringrazio il prof. Cortoni, caro collega a S. Anselmo, per aver consentito la pubblicazione su questo blog del suo studio originale, dotato di un apparato e di una articolazione tanto rara quanto preziosa.

Clero uxorato e clero concubinario: due realtà, un solo destino

di Claudio Ubaldo Cortoni (prof. di teologia medievale presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo – Roma)

L’invito di Pablo Picasso a non giudicare sbagliato ciò che non si conosce, per cogliere l’occasione di comprendere, è un monito a non procedere nella ricerca per giustapposizioni: clero uxorato o celibato del clero, come se il primo volesse essere un’alternativa al secondo, quando in entrambi i casi, i candidati al ministero ordinato, erano richiamati alla continenza.

Sulla consuetudine di avere nella chiesa latina un clero uxorato ha pesato, infatti, il giudizio che il matrimonio quanto il celibato siano un rimedio alla concupiscenza: il primo rende lecita la copula carnale finalizzandola alla continuazione della specie e all’educazione cristiana della prole; il secondo, che esclude a priori la fornicazione, ritenuta incompatibile col ministero, ha imposto agli uomini sposati, che accedono all’ordine, di praticare la continenza, e di rinunciare a concepire una prole propria.

Il linguaggio, a cui sono ricorso, non riassume ovviamente l’elaborazione teologico-spirituale propria del mondo monastico, – che sin dal principio aveva accolto il celibato come una delle forme essenziali della vita claustrale –; appartiene invece alla tradizione disciplinare che così si è espressa dalle sinodali della chiesa merovingia ai capitolari carolingi, e dalla produzione canonistica seguente alle più elaborate strutture del pensiero scolastico1.

Dobbiamo dunque rinunciare ad una posizione che considera il clero uxorato come una deviazione della norma (celibato) 2, per capire come una determinata consuetudine possa essere stata mantenuta tanto a lungo nella chiesa latina (IX-XIII.1)3, e allo stesso tempo sia stata oggetto di una così ampia produzione canonistica, tesa a limitarne alcuni aspetti della vita coniugale (imposizione della continenza dopo l’ordinazione), e che mai si è voluta sostituire o creare un’alternativa al celibato. Per questo vanno tenuti presenti alcuni passaggi storici per capire in quale misura e per quale motivo il clero uxorato venne avversato dalla chiesa latina:

  1. L’accesso al ministero ordinato in tarda età di uomini sposati, e questo già nella chiesa merovingia per poi proseguire in quella carolingia4.

  2. Il diverso trattamento, nella produzione canonistica tardoantica e altomedievale, tra clero uxorato (ovvero continenza imposta agli uomini sposati che accedono agli ordini), concubinario (forma rigettata), e il divieto di contrarre matrimonio dopo l’ordinazione5.

  3. Graduale sostituzione del clero uxorato con quello concubinario nel X sec.6

  4. La reazione del magistero papale alla lotta contro il clero concubinario, e per esteso anche a quello uxorato, avviata nell’XI sec. dalla Pataria milanese7.

1. Una guida alla distinzione tra continenza e celibato (sec. IV-VI)

Nel IV sec. è chiaro che il clero uxorato era una delle forme coesistenti con il clero celibatario, per i quali esisteva una legislazione propria8. La fonte più antica portata a sostegno della lex celibataria è il Sinodo di Elvira celebrato tra il 300 e il 303, senza però distinguere tra il can. 27 e il 33, i cui destinatari sono ovviamente diversi:9

Can. 27. Un vescovo, come qualsiasi altro chierico, abbia con sé solo o una sorella o una figlia vergine consacrata a Dio; si è stabilito che non debba assolutamente avere un’estranea.

Tale canone non è diretto a limitare il clero uxorato ma ad evitare qualsivoglia forma di concubinato dei ministri già ordinati, per i quali è impossibile accedere a nozze lecite. In questo modo è spiegabile l’introduzione di un canone ulteriore, che impone agli uomini sposati, e solo in un secondo momento ordinati, di astenersi dai rapporti coniugali:10

Can. 33. Si è deciso complessivamente il seguente divieto ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, come a tutti i chierici che esercitino un ministero: si astengano dalle loro mogli e non generino figli; chi lo avrà fatto, dovrà essere allontanato dallo stato clericale.

Non viene messa in dubbio l’esistenza di un clero uxorato, ma viene disposto che con l’ordinazione i ministri vivano nella continenza. Questo è dovuto al fatto che molto spesso venivano ordinati in tarda età, perché giungevano alla fede nella loro maturità, associando il clero uxorato al processo di evangelizzazione nelle ex provincie dell’Impero d’Occidente.

Nella Lettera Discreta ad decessorem al vescovo Imerio di Tarragona del 10 febbraio 385, Siricio ribadisce il contenuto di Elvira:11

 

(c. 7, § 8) Abbiamo infatti appreso, che molti sacerdoti di Cristo e leviti lungo tempo dopo la loro consacrazione hanno generato sia dal proprio matrimonio che anche da turpe coito e che si difendono da incriminazioni con la scusa che nell’Antico Testamento si legge che ai sacerdoti e ai ministri è concessa la facoltà di generare.

 (§ 9) Per quale motivo si comandava ai sacerdoti nell’anno del loro ministero di abitare nel tempio, lontano persino da casa? Senz’altro perché non potessero esercitare rapporti carnali neppure con le mogli, per offrire a Dio un dono gradito nello splendore dell’integrità della coscienza.

Viene ribadita la continenza per il clero uxorato dal momento che entra al servizio di Dio nelle cose sacre. Tra i due documenti, che da una parte ribadiscono il celibato dopo l’ordinazione per coloro che non avevano precedentemente contratto matrimonio, e la continenza per gli uomini ordinati dopo aver contratto matrimonio, nel 320 vennero abolite le misure contro il celibato e la mancanza di una prole (orbitas)12. La continenza del clero uxorato viene ribadita al concilio di Cartagine del 390 e in quelli successivi. Al can. 1 del Concilio di Vaison del 529, parlando della consuetudine osservata in Italia («per totam Italiam») di prendere in casa giovani lettori perché vengano istruiti dai presbiteri, incaricati di una parrocchia, una volta giunti alla maggiore età, se manifestano il desiderio di prendere moglie, si stabilisce che gli venga concesso di contrarre lecitamente matrimonio «pro carnis fragilitate»13.

 

2. La chiesa latina nell’Oriente cristiano: dalla tolleranza a rinnovate consuetudini (sec. IX-XIII)

 

Niccolò I all’art. 70 dei Responsa ad consulta Bulgarorum (866), pur preferendo al clero uxorato quello celibatario, non condanna il primo, affermando che ogni giudizio sulla condotta morale del presbiterio sia deferita al vescovo14. La risposta di Niccolò I tiene conto della tradizione orientale, con la quale è chiamato a confrontarsi nei Responsa, quanto della situazione latina, che alla fine del IX sec. continua nell’opera di moralizzazione del clero, dando inizio a quel processo che avrebbe unito in un unico destino clero uxorato e clero concubinario.

Negli Annales Fuldenses all’anno 874 appare, infatti, un riferimento alla «heresis nicolaitarum», ovvero all’eresia dei nicolaiti, con la quale venne identificato il clero concubinario15, facendo riferimento ai perduti capitula presentati da Eginardo a Ludovico il Pio (c. 829).

Nel sec. X Raterio di Verona accusa il clero di mulierositas, ovvero di una smodata passione per le donne, aggiungendo al problema del concubinato quello dei rapporti illeciti consumati fuori il matrimonio o contro il celibato, a cui gli uomini non sposati prima dell’ordinazione sono obbligati16. Tra XI e XII sec. le posizioni contro il clero concubinario si inasprirono ulteriormente con lo scontro nato in Lombardia tra Patarini e nicolaiti, quando i primi ritennero incompatibile la coabitazione matrimoniale con l’ufficio del presbitero17.

Al sinodo di Pavia, convocato nel 1022 da Benedetto VIII18 e dall’imperatore Enrico II, venne fatto divieto al clero di ogni grado di accedere a nozze o di avere con sé delle concubine. Al momento di sancire come le figlie e i figli nati da rapporto siano esclusi da qualsiasi trasmissione di beni della chiesa, si precisa nati dal rapporto tra un chierico e una donna libera, qualunque fosse stata la natura del rapporto intercorso tra loro, e cioè matrimonio o concubinato, dato che la continenza e il divieto di procreare prole propria erano già stati sanciti nei sinodi della chiesa latina tardoantica19.

I provvedimenti contro la simonia e il nicolaismo, o concubinato, proseguirono anche sotto il pontificato di Leone IX, che ribadì la disciplina romana in tale materia nei sinodi convocati tra l’aprile 1049 e l’aprile-maggio 1050. Nel 1059 papa Niccolò II si trovò a riprovare lo sciopero liturgico a cui Arialdo aveva invitato i fedeli di Milano, e cioè di non prendere parte a liturgie presiedute da clero accusato di nicolaismo. Niccolò II ritenne inopportuno applicare lo sciopero liturgico nel caso di celebrazioni presiedute da clero uxorato, e cioè lecitamente sposato, mentre ne ribadì la legittimità contro il clero concubinario20. Tale opinione tiene conto del Constitutum de castitate clericorum di Leone IX, che proibiva di prendere parte a liturgie presiedute da clero notoriamente concubinario, e la posizione di Burcardo di Worms nel Decretum, che si opponeva allo sciopero liturgico attuato per le celebrazioni presiedute dal clero nicolaita. In questo modo al sinodo di Roma del 1059, si poté nuovamente distinguere tra clero uxorato e concubinario, applicando per il primo il principio di Burcardo di Worms, e nel secondo caso la linea di Leone IX, fatto salvo il principio che il clero uxorato doveva comunque osservare la continenza nei rapporti coniugali. Il Concilio romano del 1059 venne ripreso l’anno seguente da Stefano cardinale di S. Crisogono, legato al sinodo di Tours e Vienne, e Ugo di Cluny, legato ai sinodi di Avignone e Tolosa.

Ma anche, il tanto citato, Concilio lateranense IV al can. 14 riserva qualche sorpresa, a dispetto dei tre precedenti Concili celebrati in Laterano del 1119, che parla di coabitazioni del clero con donne altrimenti stabilite da Nicea, dunque comprese le mogli, e del 1139, che priva dei benefici ecclesiastici coloro che hanno contratto matrimonio o coabitano con concubine, o del 1179, che ribadiscono il principio che vengano privati dei benefici ecclesiastici coloro che per incontinenza coabitano con concubine:21

I chierici che, secondo l’uso della loro regione, non hanno rinunziato all’unione coniugale, se cadessero in peccato, siano puniti più gravemente, dato che hanno la possibilità di godere del legittimo matrimonio.

Il can. 14 ammette la coesistenza, ancora nel XIII sec., di un clero celibatario e di un clero uxorato, condannando nei passi precedenti quello concubinario. Per un chierico, nella cui regione è concesso contrarre matrimonio legittimamente, se cadrà in peccato cercando piacere fuori dalle legittime nozze, è richiesta una punizione più severa rispetto a quanti non hanno tale possibilità. Al Lateranense IV parteciparono anche i prelati della chiesa latina d’Oriente, alla quale forse è riferibile quel «secundum regionis sue morem», e cioè il fatto che la tradizione latina avesse fatto proprie le consuetudini della tradizione orientale sul clero uxorato. Infatti non si parla di continenza anche per il clero sposato, ma si parla solo di punire chi cerca rapporti illeciti fuori del matrimonio.

3.Una possibile conclusione

Un primo passo nella comprensione dell’ampio fenomeno che fu la presenza del clero uxorato nella tradizione latina, è quello di distinguerlo storicamente dal clero concubinario, con il quale invece finì per essere identificato durante la lotta all’eresia nicolaita. Un secondo passo è quello di non considerarlo come un’anomalia rispetto alla lex celibataria, alla quale non si oppone né si vuole sostituire. Infatti il matrimonio era concesso prima dell’ordinazione e vietato dopo, come dopo l’ordinazione agli uomini già sposati venne vietato di avere qualsiasi rapporto coniugale con la sposa e di procreare prole propria. Un terzo passo dovrebbe essere quello che prende in esame la comparsa e il perdurare nella chiesa di questa particolare vocazione al ministero ordinato: in un primo momento, e cioè dalla fine del Tardo Antico all’Alto Medioevo, sono uomini già sposati, probabilmente giunti alla fede in tarda età, ammessi agli ordini sacri a beneficio di una particolare comunità in una fase ancora di evangelizzazione (va dunque meglio conosciuta la storia che riguarda l’evangelizzazione dell’Europa); e in un secondo momento i contatti tra la chiesa latina, e la sua disciplina canonica, con la tradizione greca. In particolare se consideriamo in quest’ottica il Lateranense IV del 1215, capiamo che la chiesa universale ha saputo far propria la ricchezza che gli veniva offerta dalla tradizione orientale quando si stabilì in quelle terre. Dunque va adottato un doppio sguardo, quello locale (usi propri di una regione) e di opportunità (l’evangelizzazione). Un quarto ed ultimo gradino è quello di inserire la crisi del clero uxorato nel più vasto, e meno studiato, problema della teologia che si costruì intorno al matrimonio, specialmente tra XII e XIII sec., quando alcune correnti eterodosse, per il rapporto carnale che l’unione tra un uomo e una donna comportava, condannarono come illecito contrarre matrimonio.

1 Cf. J. Gaudemet, Storia del diritto canonico. Ecclesia et Civitas, Roma 1998, 237-239.557-559.

2 Il medievista Tommaso di Carpegna segnala come lo studio sul clero uxorato sia stato sempre affrontato a latere della ricerca sulla dottrina del celibato, considerandolo solo come una deviazione dalla norma. La maggior parte degli studiosi ha così affrontato il tema escludendo i sec. dal IX all’XI, soffermandosi sulla condanna espressa dalla chiesa gregoriana. Dalla fine degli anni ‘60 si è sviluppata una ampia ricerca sul clero uxorato nell’Alto Medioevo con Pierre Toubert, Gabriella Rossetti, Charles Pietri, Cesare Alzati: «Gli studi sul matrimonio e sul concubinato del clero sono stati spesso impostati secondo un punto di vista teorico, che poco concedeva al confronto tra l’enunciato della legge e la prassi. Si valutava la dottrina nel modo in cui emergeva dai canoni, ma non ci si peritava di verificare la portata sul tessuto sociale. Tali studi avevano per oggetto principale il celibato del clero, cosicché matrimonio e concubinato furono considerati delle deviazioni dalla norma. Forti della conoscenza dell’intero sviluppo, che portò con il tempo alla condanna del matrimonio dei chierici degli ordini maggiori, gli storici previlegiarono i due momenti principali dell’evoluzione, cioè la fase tardo antica-altomedievale di impostazione dottrinale, e quella rappresentata dalla seconda metà del secolo XI, quando i riformatori condannarono le unioni illegittime e le combatterono con efficacia. Con queste premesse, i secoli dal IX all’XI furono considerati come un periodo di confusione, sul quale era pressoché inutile soffermarsi; T. di Carpegna Falconieri, «Il matrimonio e il concubinato presso il clero romano (secoli VIII-XII), in Studi Storici, 4 (2000), 943-971.

3 Considero come punto di arrivo della produzione magisteriale sul clero uxorato il can. 14 del Concilio Lateranense IV del 1215, capace ancora di tenere assieme le due realtà senza contrapporle.

4 Cf. Gaudemet, Storia del diritto canonico, 238; G. Rossetti, «Il matrimonio del clero nella società altomedievale», in Il matrimonio nella società altomedievale, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, XXIV, 22-28 aprile 1976, Spoleto 1977, 473-554.

5 Cf. Gaudemet, Storia del diritto canonico, 238.557.

6 Cf. T. di Carpegna Falconieri, «Il matrimonio e il concubinato presso il clero romano (secoli VIII-XII), in Studi Storici, 4 (2000), 944.

7 Cf. C. Alzati, Ambrosiana Ecclesia. Studi su la Chiesa milanese e l’ecumene cristiana fra tarda antichità e medioevo, NED, Milano 1993.

8 «Nel IV sec. la disciplina romana (Siricio a Imerio, vescovo di Tarragona; ai vescovi dell’Africa; Innocenzo I a Vittricio di Rouen, a Euserpio di Tolosa) vietava le relazioni coniugali dopo l’ordinazione»; Gaudemet, Storia del diritto canonico, 238.

9 DH 118.

10 DH 119.

11 DH 185.

12Code Théodosien, (VIII, 16, 1), 2, T. Mommsen, P. Meyer, P. Kruger, J. Rougé, R. Delmaire, O. Huck, F. Richard, L. Giuchard, (SC 531), Cerf, Paris 2009, 122-125, n. 3.

13Les canones des Conciles Mérovingiens (VIe-VIIe siécles), 1, J. Gaudemet, B. Basdevant (edd.), (SC 353), Cerf, Paris 1989, 188-191.

14 «Cap. LXX. Consuledum decernitis utrum presbyterum uxorem habentem debeatis sustentare et honorare an a vobis proicere. In quo respondemus, quoniam, licet ipsi valde reprehensibiles sint, vos autem Deum convenit imitari, qui solem suum, ut evangelium testatur, oriri facit super bonos et malos et pluit super iustos et inustos. Deicere vero eum a vobis ideo non debetis, quonism nec Iudam Dominus, cum esset mendax discipulus, de numero apostolorum deicet. Verum de presbyteris, qualescumque sint, vobis, qui laici estis, nec iudicandum est nec de vita ipsorum quippam investigandum, sed episcoporum iudicio, quicquid est, per omnia reservandum»; Nicolaus I papa, Epistola 99, «Nicolaus capitulis 106 ad Bulgarorum consulta respondet», in MGH, Ep., VI, 2, ed. E. Perels, 1902-25, 592, ll. 4-10.

15 «Si enim, ut caetera omittam, haeresi Nicolaitarum viriliter restitisset, et monita Gabrielis archangeli, quae Einhardus abbas duodecim capitulis comprehensa ei obtulit legenda et facienda, observare curasset, forsitan talia non pateretur»; Annales Fuldenses, ed. G.H. Pertz, MGH, Scirp. I, Hannover 1826, 388, ll. 1-5. Cf. I. Dujcev, «I “Responsa” di Papa Nicolò I ai Bulgari Neoconvertiti», in Aevum, 5-6 (1968) 417-418.

16 Cf. M. Rossi, «Raterio» , in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 86 (2019), http://www.treccani.it/enciclopedia/raterio_%28Dizionario-Biografico%29/ [accesso: 21-01-2020].

17 Cf. C. Alzati, Ambrosiana Ecclesia. Studi su la Chiesa milanese e l’ecumene cristiana fra tarda antichità e medioevo, NED, Milano 1993.

18 «L’attività ecclesiastica di Benedetto VIII è testimoniata in primo luogo dai sinodi di Roma del 1014 (forse anche da quello precedente tenutosi a Ravenna) e del 1015, e di Pavia del 1022. La deposizione, decisa a Ravenna e a Roma, dei preti consacrati non canonicamente e, soprattutto, le decisioni del sinodo di Pavia contro i matrimoni dei vescovi e dei preti e l’acquisto dei beni della Chiesa da parte dei figli dei preti fanno pensare a un atteggiamento di riforma. Esse s’ispiravano a quelle prese alcuni anni prima per la Germania in un sinodo tenutosi a Goslar. A Pavia si andò oltre e ci si oppose più decisamente al matrimonio degli ecclesiastici. Certamente esistevano altri piani di riforme, tanto che a Pavia si disse: “Taceo nunc de filiis, qui ingenuo clerico et libera matre, licet contra leges, nascantur: contra quos alia manu erit agendum et in proxima synodo consilio ulteriore tractandum” (M.G.H., Leges, Legum sectio IV, I, nr. 34, p. 72); lo prova anche la notizia di un incontro di Enrico II con il re Roberto di Francia nell’agosto del 1023 sul Chiers, data dal cronista di Cambrai. In questa occasione fu concordato un incontro dei due principi con Benedetto VIII ad un nuovo sinodo da tenersi a Pavia»; G. Tellenbach, «Benedetto VIII», in Enciclopedia dei Papi (2000), http://www.treccani.it/enciclopedia/benedetto-viii_%28Enciclopedia-dei-Papi%29/ [accesso: 21-01-2020]; G. Tellenbach, «Benedetto VIII», in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 8 (1966), http://www.treccani.it/enciclopedia/papa-benedetto-viii_%28Dizionario-Biografico%29/ [accesso: 21-01-2020]. Sul presunto sinodo di Ravenna nel quale furono disposti i provvedimenti contro il matrimonio del clero cf. M. Fornasari, «Enrico II e Benedetto VIII e i canoni del presunto concilio di Ravenna, 1014», in Rivista di Storia della Chiesa in Italia, 18 (1964), 46-55.

19 «Decretum domini papae B(enedicti)./I. Ut nullus in clero mulierem attingat. Nullo persbyter, nullus diaconus, nullus subdiacunus, nullus in clero uxorem aut concubinam admittat, cum nulli quoque laicorum scire liceat mulierem praeter uxorem. Quod si fecerti, secundum ecclesiasticam regulam deponatur. Sed neque secundum humanas leges ex longo factas et receptas ullus admirationis locum in plebe habeat./II. Ut episcopus nullam feminam habeat neque cum aliqua habitet. Episcopus sicut nullam habebit, ita cum nulla penitus habitabit. Quod fecerit, et nostris regulis et mundandis legibus concordantibus honore quo se fecit indigum abicietur./III. Ut filii clericorum, servorum eccelsiae, servi sint eccelsiae cum omnibus adquisitis. Filii et filiae omnium clericorum omniumque gradum de familia ecclesiae, ex quacumque libera muliere, quocumque modo sibi coniuncta fuerit, geniti, cum omnibus bonis per cuiuscumque manus adquisisti servi proprii suae serunt eccelsiae nec umquam ab ecclesiae servitute exibunt./IV. Ut filiis clericorum, servorum eccelsiae, nullus iudex libertatem promittat. Quicumque filios clericorum, servorum ecclesiae, da quacumque libera proceratos, liberos esse iudicaverit, anathema sit et habeat in iudicio quod fecit, quia ecclesiae tulit quod non dedit»; Heinrici II et Benedicti VIII Synodus et Leges Papienses de Clericis Ecclesiarum Servis, MGH, Leges sectio IV, I, ed. L. Weiland, Hannover 1893, 75-76.

20 Esemplare a questo proposito è la Passio beati Arialdi martyris, nella quale viene riportata la traduzione che Arialdo fece delle decisioni prese a Pavia contro i nicolaiti, che gli costò la vita nella sommossa del clero tra il 1066 e il 1067: «Arialdo fece allora redigere un editto, chiamato, con un termine mutuato dalla legislazione imperiale bizantina, phytacium e, mentre il popolo tumultuava minaccioso, costrinse gli appartenenti a tutti gli ordini della Chiesa milanese a sottoscriverlo e ad impegnarsi con giuramento ad osservarlo. Questo phytaciumde castitate servanda, neglecto canone, mundanis exortum a legibus – che, come sembra, allude alle disposizioni del sinodo celebrato a Pavia il 1° ag. 1022 alla presenza di papa Benedetto VIII e dell’imperatore Enrico II circa il matrimonio degli ecclesiastici – è stato accostato a quella promissio, redatta durante la legazione milanese di Pier Damiani con la quale i sacerdoti dovevano riconoscere tutte le colpe di cui erano accusati e accettare le pene previste dalle leggi giustinianee, secondo l’interpretazione data loro nella prefazione al decretum del sinodo pavese. Il phytacium, redatto da Arialdo, scatenò la folla fattasi ora più violenta ed aggressiva non solo per fanatismo religioso, ma anche per astio e avidità: i cittadini milanesi colsero il destro per allontanare dalle chiese, sia cittadine sia rurali, i sacerdoti ammogliati e concubinari»; C.D. Fonsega, «Arialdo, santo», in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 4 (1962), http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-arialdo_(Dizionario-Biografico)/ [accesso: 21-01-2020]; Andrea da Strumi, Arialdo. Passione del santo martire milanese, ed. M. Navoni, Milano 1994, 70-71, n 44.

21Concilium Lateranense IV, A. García y García, A. Melloni (edd.), (COGD II/1), Brepols, Turnhout 2013, 176.

Share